CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 settembre 2018, n. 23600
Licenziamento – Contabilizzazione di lavori non eseguiti – Finalità truffaldine – Violazione delle procedure interne – Esecuzione di un ordine superiore
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 1760 pubblicata il 16.3.2016, in accoglimento del reclamo proposto dal sig. A. e in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato al predetto l’11.7.2012 e ha condannato I. s.p.a. a reintegrare il reclamante nel posto di lavoro, a risarcirgli il danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento fino alla reintegra, oltre accessori di legge, nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
2. La Corte territoriale, assunte le prove testimoniali dedotte dalle parti, ha ritenuto dimostrata la versione fornita dal sig. A. a giustificazione della condotta contestata, vale a dire la contabilizzazione di lavori non eseguiti, quale unica possibilità per l’inserimento nella cartografia e nel patrimonio aziendale di metri lineari di tubature presenti in suoli privati, condotta posta in essere in esecuzione degli ordini impartitigli dal superiore gerarchico, sig. B.
3. Secondo la sentenza impugnata, il fatto che il B. avesse impartito le disposizioni in oggetto nel corso di una riunione aperta a tutti gli addetti al reparto, portava ad escludere finalità truffaldine e nello stesso senso deponeva il fatto che gli importi corrispondenti alle fatturazioni per le tubature suddette fossero stati detratti da quanto dovuto alle ditte interessate per altri lavori effettivamente eseguiti, sì che queste ultime non avevano tratto alcun vantaggio né la società aveva subito alcun danno.
4. La Corte di merito, per l’assenza di dolo e colpa nella condotta del dipendente e per la mera osservanza da parte sua degli ordini impartitigli dal superiore gerarchico, ha escluso che fosse configurabile una giusta causa di licenziamento ed ha applicato la tutela di cui all’art. 18, L. n. 300 del 1970, nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012.
5. Avverso tale sentenza la società I. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito con controricorso il lavoratore.
Ragioni della decisione
1. Col primo motivo la società ricorrente ha dedotto violazione degli artt. 100, 112 e 434 c.p.c. per omessa pronuncia in ordine all’eccezione di inammissibilità del reclamo proposto dal sig. A.
2. Ha sottolineato come il reclamo non avesse investito alcuni accertamenti in fatto, contenuti nella sentenza di primo grado (sull’esistenza di specifiche procedure aziendali per l’aggiornamento delle cartografie e del patrimonio e sulla contrarietà dell’ordine che si assume impartito dal superiore alle leggi e alle procedure aziendali), da soli sufficienti a dimostrare la giusta causa di recesso, con conseguente passaggio in giudicato delle relative statuizioni.
3. Ha precisato di aver eccepito nella memoria di costituzione dinanzi alla Corte d’appello (di cui ha trascritto i passi rilevanti) l’inammissibilità del reclamo per omessa impugnazione delle statuizioni sopra richiamate.
4. Il motivo è inammissibile in quanto la società, pur censurando la mancata impugnazione da parte del reclamante degli accertamenti in fatto contenuti nella sentenza di primo grado e affermando il formarsi del giudicato sugli stessi, ha tuttavia omesso di riprodurre nel ricorso in esame il contenuto rilevante del reclamo di controparte, in violazione degli oneri di specificazione ed allegazione di cui agli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c. che impongono alla parte di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso nei loro esatti termini gli atti rilevanti, diversi dalla sentenza impugnata (cfr. Cass. n. 11738 del 2016; Cass. n. 26470 del 2016).
5. La censura oggetto del primo motivo di ricorso non avrebbe, in ogni caso, potuto trovare accoglimento. La giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 10950 del 2016; Cass. n. 14670 del 2015; Cass. n. 4572 del 2013), al fine di selezionare le questioni (di fatto e/o di diritto) suscettibili di devoluzione e, per converso, di giudicato interno se non censurate in appello, utilizza la locuzione di “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno”, che consiste nella sequenza logica “fatto – norma – effetto giuridico”, cioè nella statuizione che affermi l’esistenza d’un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico (cfr. Cass. n. 16808 del 2011; Cass. n. 10832 del 1998; Cass. n. 6769 del 1998). Benché ciascun elemento di tale sequenza possa essere singolarmente investito di censura in appello, nondimeno l’impugnazione motivata in ordine anche ad uno solo di essi riapre per intero l’esame di tale minima statuizione, consentendo al giudice dell’impugnazione di riconsiderarla tanto in punto di diritto (individuando una diversa norma sotto cui sussumere il fatto o fornendone una differente esegesi) quanto in punto di fatto, attraverso una nuova valutazione degli elementi probatori acquisiti.
6. Nel caso di specie, le censure mosse dall’A., e riportate nella sentenza emessa in sede di reclamo, in quanto relative alla sussumibilità della condotta contestata nella nozione di giusta causa di licenziamento, hanno impedito il formarsi del giudicato sui singoli accertamenti in fatto relativi al contenuto e alle modalità della condotta medesima.
7. Né, contrariamente all’assunto della società, gli accertamenti sui singoli segmenti della condotta contestata possono considerarsi quali autonome rationes decidendi.
8. Secondo consolidata giurisprudenza: “in tema di ricorso per cassazione, qualora la motivazione della pronuncia impugnata sia basata su una pluralità di ragioni, convergenti o alternative, autonome l’una dall’altra, e ciascuna da sola idonea a supportare il relativo dictum, la resistenza di una di esse all’impugnazione rende del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura, perché l’eventuale accoglimento di tutte o di una di esse mai condurrebbe alla cassazione della pronuncia suddetta” (Cass. n. 26266 del 2017; Cass. n. 3633 del 2017; Cass. n. 24540 del 2009; Cass. n. 4349 del 2001 Cass. n. 4424 del 2001).
9. Nel caso in esame, le statuizioni che la società assume non censurate attengono tutte alla ricostruzione della condotta rilevante ai fini della giusta causa di recesso, sicché risultano singolarmente prive della idoneità a sorreggere la decisione impugnata.
10. Col secondo motivo di ricorso la società ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c., per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti e per violazione dell’art. 115 c.p.c.
11. Ha enumerato i seguenti fatti storici decisivi non esaminati dalla Corte di merito: le funzioni del Reparto Ingegneria quanto all’aggiornamento della cartografia e del patrimonio aziendali; la conoscenza di tali funzioni da parte del sig. A.; il pregresso inserimento nella cartografia e nel patrimonio di I. delle opere oggetto di simulazione; l’inserimento di tali opere nella cartografia e nel patrimonio, ove mancanti, al momento di esecuzione di interventi manutentivi; comunque, la non necessità, ove anche si fosse considerato indispensabile ai fini dell’aggiornamento la simulazione nel sistema informatico (SAP) dell’esecuzione dei lavori, dell’effettivo pagamento in favore delle imprese appaltatrici; il carattere clandestino della condotta dell’A. e degli altri due dipendenti licenzianti, signori B. e P.; la violazione del Codice Etico adottato da I. che impone la trasparenza e veridicità delle scritture contabili e obbliga il dipendente che venga a conoscenza di falsificazioni a segnalare i fatti al Garante; la restituzione delle somme indebitamente versate alle ditte appaltatrici solo dopo la scoperta degli illeciti da parte di I.
12. Col terzo motivo la società ha denunciato la violazione degli artt. 112, 115, 116, comma 1, 132, comma 2, n. 4 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per essere la motivazione della sentenza impugnata illogica e meramente apparente.
13. Col quarto motivo la società ricorrente ha censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2119 c.c., art. 21 del c.c.n.I. Gas e Acqua; art. 3, L. n. 604 del 1966 e degli artt. 51, 61 n. 11, 640 c.p.
14. Ha argomentato la configurabilità di una giusta causa di recesso in relazione alla confessata falsificazione della contabilità aziendale e al connesso pagamento di corrispettivi indebiti a favore delle aziende appaltatrici, condotte suscettibili di assumere rilievo penale e, comunque, espressione di deviazione nell’esercizio delle mansioni assegnate al sig. A. in contrasto con gli interessi della società e a vantaggio di terzi, sì da rompere irrimediabilmente il rapporto fiduciario. Ha precisato come fosse stata contestata al dipendente anche la violazione ripetuta e per colpa gravissima delle procedure interne, la violazione dei doveri previsti dalla legge e dal Codice Etico e come, anche in assenza di intenzionalità della condotta, l’art. 21, n. 7, del c.c.n.I. consentisse il licenziamento senza preavviso.
15. Ha censurato, in subordine, la sentenza impugnata per non avere ritenuto integrato almeno il giustificato motivo soggettivo di recesso sul rilievo che i comportamenti addebitati all’A. costituissero, sia nell’ipotesi di dolo che di colpa gravissima, un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali.
16. Ha contestato l’idoneità dell’ordine impartito dal superiore gerarchico a far venir meno la gravità della condotta trattandosi di un ordine contrario ai principi etici e giuridici, della cui illiceità l’A. era in grado di rendersi conto e rispetto al quale avrebbe dovuto opporre null’altro che un rifiuto. Ha ricordato l’inapplicabilità dell’art. 51 c.p. al rapporto di lavoro privato.
17. Col quinto motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c., violazione dell’art. 18, L. n. 300 del 1970 e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per non avere la Corte detratto l’aliunde perceptum risultante dagli atti di causa e, specificamente, dall’estratto conto previdenziale prodotto dalla società e dalle dichiarazioni rese dal lavoratore nel corso dell’udienza del 15.12.14, come da verbale trascritto nel ricorso in esame.
18. Per ragioni di priorità logica, si esamina anzitutto il quarto motivo di ricorso.
19. Questa Corte (Cass. n. 21214 del 2009; Cass. n. 8254 del 2004) ha ripetutamente affermato che la giusta causa di licenziamento, quale “fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica, e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici.
20. Si è poi precisato come l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., che, in tema di licenziamento per giusta causa, detta una tipica “norma elastica”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca (cfr. Cass. n. 9266 del 2005; Cass. n. 5299 del 2000; Cass.).
21. E’ solo l’integrazione giurisprudenziale, a livello generale ed astratto, della nozione di giusta causa che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge, mediante specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale; mentre l’applicazione in concreto del canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, (cfr. Cass. n. 7838 del 2005; Cass. n. 21214 del 2009; Cass. 6901 del 2016; Cass. n. 18715 del 2016).
22. Occorre infine considerare che, anche in presenza di clausole generali, il controllo di legittimità veicolato dall’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. non si esaurisce nella verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, ma è esteso alla sussunzione del fatto, come accertato dal giudice di merito, nell’ipotesi normativa. Costituisce, infatti, errore di diritto anche la falsa applicazione di legge, che ricorre “quando una norma rettamente intesa sia applicata ad una fattispecie concreta che non corrisponde a quella astratta prevista dalla norma ovvero in modo da giungere a conseguenze giuridiche ad essa contrarie, (Cass., S.U., n. 5 del 2001; Cass. n. 18782 del 2005; Cass. n. 15499 del 2004).
23. Nel caso in esame, la Corte di merito ha accertato in fatto che: il B. aveva comunicato ai sottoposti, tra cui l’A., la necessità di inserire nelle cartografie e nel patrimonio aziendale alcuni metri lineari di tubature installate negli anni precedenti; che l’unico modo per aggiornare la cartografia e il patrimonio aziendale era quello di simulare l’esecuzione ex novo dei lavori con contabilizzazione degli stessi nel sistema informatico; che il F. (diretto superiore dell’A.) si occupò, su incarico del B., di aprire le c.d. richieste di consegna (RdC) per assegnare fittiziamente i lavori alle ditte appaltatrici; che compito dell’A. era stato quello di confermare l’avvenuta esecuzione dei lavori in modo da generare nel sistema informatico (SAP) i c.d. moduli di acquisizione prestazioni (MAP) che consentivano l’inserimento delle tubature nella cartografia; che la simulazione dei lavori aveva comportato anche il pagamento effettivo degli importi preventivati in favore delle ditte indicate come appaltatrici, con emissione da parte delle stesse delle relative fatture.
24. La Corte di merito ha escluso la configurabilità di una giusta causa di recesso sul rilievo che l’A. avesse agito in esecuzione di un ordine impartitogli dal superiore gerarchico, di simulare nel sistema informatico l’esecuzione di lavori in realtà non eseguiti, e che tale stratagemma fosse necessario per aggiornare la cartografia e il patrimonio aziendale, elementi ritenuti idonei ad escludere ogni intenzionalità lesiva degli interessi aziendali e ogni profilo di negligenza.
25. La conclusione cui è pervenuta la Corte di merito non tiene conto che l’ordine impartito dal superiore gerarchico a11’A. comportava pacificamente la violazione delle procedure interne, in quanto era diretto a far apparire nel sistema informatico come realizzati in quel momento lavori di posizionamento di tubature, in realtà eseguiti anni prima, ad opera di altre ditte e per i quali erano già stati effettuati i pagamenti. Il fatto che, secondo quanto accertato nella sentenza impugnata, non vi fosse una procedura alternativa che consentisse l’aggiornamento della cartografia e del patrimonio aziendale non vale a rendere automaticamente legittimo, sul piano logico, ogni possibile stratagemma utile ad aggirare le rigidità del sistema, essendo certamente ipotizzabile l’attuazione di interventi migliorativi sulle procedure in uso ed anzi esigibile dai dipendenti, in adempimento del dovere di diligenza e fedeltà, la segnalazione di inefficienze o limiti del sistema stesso.
26. L’esecuzione di un ordine illegittimo impartito dal superiore gerarchico non basta di per sé ad impedire la configurabilità di una giusta causa di recesso, non trovando applicazione nel rapporto di lavoro privato l’art. 51 c.p.. Difatti, secondo un risalente ma ancora valido indirizzo della giurisprudenza di legittimità, la scriminante di cui all’art. 51 c.p. “trova la sua giustificazione nel divieto imposto ai cittadini di sindacare le norme giuridiche e di disubbidire agli ordini legittimi della pubblica autorità, considera non punibili i fatti preveduti dalla legge come reati, se siano commessi per adempiere ad un dovere derivante da tali norme ed ordini. Tuttavia, gli ordini, come si evince dalla precisa e chiara formulazione della legge, debbono emanare da una pubblica autorità, il che significa che i rapporti di subordinazione presi in considerazione sono esclusivamente quelli che sono previsti dal diritto pubblico. Nei rapporti di diritto privato, tra i quali sono compresi quelli che intercorrono tra i privati datori di lavoro e i loro dipendenti, non è applicabile la causa di giustificazione sopra indicata, perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge”, (Cass. pen. n. 3394 del 2017; Cass. pen. n. 34961 del 2013; Cass. pen. n. 133 del 1971).
27. Non solo, la valutazione di sussumibilità o meno nell’art. 2119 c.c. della condotta di esecuzione di un ordine dato dal superiore gerarchico non può prescindere dal grado di divergenza dell’ordine rispetto ai principi e ai vincoli dell’ordinamento e dal carattere palese o meno di tale illegittimità.
28. Nel caso di specie in cui, secondo la ricostruzione in fatto operata dalla Corte di merito, l’ordine impartito all’A. era tale da comportare una plateale violazione delle procedure amministrative e contabili, oltre che dei principi e delle regole poste dal Codice Etico, mediante simulazione di lavori non eseguiti ed esborsi effettivi in favore delle ditte apparentemente appaltatici, la valutazione ai fini della giusta causa di recesso avrebbe dovuto tener conto del carattere palesemente illegittimo dell’ordine impartito dal superiore, quale elemento idoneo ad incidere sulla lesione del vincolo fiduciario.
29. La sentenza impugnata avrebbe dovuto, nel percorso valutativo ai fini della sussumibilità della condotta accertata nella giusta causa o nel giustificato motivo soggettivo di recesso, stabilire se la società datoriale potesse riporre affidamento sul futuro esatto adempimento della prestazione nei confronti di chi si era posto supinamente, ove anche non intenzionalmente, in condizioni di violare in modo ripetuto i doveri di diligenza e fedeltà, di forzare le procedure interne certificando l’esecuzione di lavori in realtà non eseguiti dalle ditte appaltatrici e determinando pagamenti indebiti in favore di queste ultime, senza opporre alcun rifiuto o ostacolo agli ordini in tal senso dati dal superiore gerarchico, ordini della cui illegittimità il dipendente era in condizione di rendersi perfettamente conto. Difatti, “l’esecuzione di un ordine impartito dal superiore gerarchico non vale a scriminare la condotta del dipendente ove questi era in grado di rendersi conto della illegittimità dell’ordine in quanto palese”.
30. La sentenza impugnata ha escluso la sussunzione del fatto accertato nel paradigma della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento nonostante la contrarietà ai valori dell’ordinamento e ai parametri della civiltà del lavoro di una condotta posta in essere dal dipendente in aperta violazione delle procedure interne e in esecuzione di un ordine del superiore palesemente illegittimo.
31. Per effetto di tali considerazioni, risulta fondato il quarto motivo di ricorso concernente la violazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 3, L. n. 604 del 1966, e devono dichiararsi assorbiti il secondo, il terzo ed il quinto motivo di ricorso.
32. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che dovrà compiere un nuovo esame della fattispecie conformandosi al principio di diritto sopra enunciato.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il quarto motivo, assorbiti il secondo, il terzo ed il quinto motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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