CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 settembre 2018, n. 23611
Licenziamento – Concorso nel reato di corruzione – Arresti domiciliari – Violazione dei doveri di imparzialità, di fedeltà, onestà e vigilanza – Indebito affidamento senza gara all’impresa dei lavori di costruzione
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Catanzaro, in accoglimento del reclamo proposto dalla (…) SR, ha riformato la sentenza del Tribunale di Catanzaro che, confermando l’ordinanza emessa in fase sommaria ex art. 1, co. 49, Legge n. 92 del 2012, aveva accolto l’impugnativa del licenziamento comminato 18 luglio 2014 all’odierno ricorrente dalla predetta società a partecipazione pubblica.
2. Il licenziamento aveva fatto seguito all’ordinanza emessa dal Giudice penale, che aveva disposto nei confronti del T. l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione all’accusa di concorso nel reato di corruzione. Il T. era stato incolpato, insieme ad altri dipendenti della società, di essere venuto meno ai suoi doveri di imparzialità, di fedeltà, onestà e vigilanza in occasione dell’indebito affidamento senza gara all’impresa I. Srl dei lavori di costruzione di una condotta idrica del Comune di Vibo Valentia. In particolare, l’addebito consisteva nell’avere apportato modifiche e riformulato la somma urgenza, assecondando le richieste del responsabile dell’ufficio di zona che, a sua volta, aveva recepito quelle dell’impresa assegnatala dei lavori. Si era addebitato altresì al dipendente di essere stato consapevole partecipe dell’illecito, avendo ricevuto in cambio la somma di euro 500,00, nell’ambito di un contesto corruttivo in cui al responsabile dell’ufficio di zona era stata elargita la somma di euro 10.000,00 e altri dipendenti della società avevano ricevuto anch’essi dalla I. denaro e beni.
3. Respinte le eccezioni preliminari di inammissibilità dell’appello sollevate dalla parte reclamata, la Corte territoriale ha posto a fondamento del decisum i seguenti argomenti:
3.1. La contestazione disciplinare è chiara nell’indicare che l’illecito è consistito nella partecipazione del dipendente all’episodio di corruzione perpetrato dal fratelli B., titolari delle quote societarie della I., in occasione dell’affidamento a quest’ultima, dalla SR, dell’appalto di lavori da eseguire su un cantiere di Vibo Valentia.
L’accusa è quella di aver assecondato le richieste che erano state rivolte al T. dal suo superiore su indicazione dei costruttori, tanto da aver meritato un compenso in denaro.
3.2. Diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, nel contesto dell’addebito disciplinare la percezione del compenso non è richiamata a meri fini di prova della condotta ascritta al dipendente, ma costituisce momento integrante di quella stessa condotta che è – appunto – quella di aver fatto mercimonio della funzione pubblica, ossia di aver consapevolmente compiuto atti contrari ai doveri d’ufficio, ricevendone in cambio un’indebita mercede. Allo stesso modo, la condotta materiale che viene ascritta al T., pur incentrata sulle modifiche e sulla riformulazione della perizia di stima che egli redasse nell’ambito della procedura di affidamento dei lavori, ricomprende, ancor prima, il ruolo di concorrente nell’illecita opzione a favore della procedura di somma urgenza di cui poté beneficiare l’impresa affidataria. A differenza di quanto ritenuto il Tribunale, quest’accusa non è estranea alla contestazione disciplinare, ma contribuisce a delineare il contenuto dello scambio delittuoso, per cui anche altri dipendenti della SR s.p.a., oltre al T., furono ripagati dall’impresa che ottenne senza gara l’affidamento dei lavori.
3.3. Gli elementi che compongono l’asserto accusatorio si traducono in altrettanti addebiti al dipendente, al quale si imputa: a) il concorso nella vicenda corruttiva, b) la modifica della perizia di stima e la riformulazione della somma urgenza, c) la percezione del prezzo della corruzione, al pari degli altri dipendenti della stazione appaltante che sono stati coinvolti, come lui, nella medesima vicenda.
3.4. Le indagini penali, dalle quali il datore di lavoro ha attinto gli elementi di prova a carico del dipendente, offrono la chiara dimostrazione dell’iniziativa dei corruttori, volta assicurarsi il favore della società committente e la sua riuscita. In tal senso, depongono le intercettazioni ambientali delle conversazioni, le intercettazioni telefoniche, le annotazioni sui registri rinvenuti durante la perquisizione disposta dagli inquirenti presso la sede della I., tutti elementi dai quali risulta dimostrato il coinvolgimento del T. e l’elargizione in suo favore della somma, che fa seguito a quella della tangente al Ricciuto per lavori di somma urgenza sul cantiere di Vibo Valentia. In tale contesto indiziario non è lecito estrapolare dallo stesso e leggere in modo disgiunto elementi che, logicamente e cronologicamente, sono collegati fra loro, e che in quel quadro si inseriscono e rivelano il concorso del T. nell’attività che condusse all’indebito utilizzo della procedura per l’affidamento dei lavori in somma urgenza.
3.5. Le allegazioni difensive del dipendente non sono plausibili (quale la tesi che nell’organico della SR ci potesse essere un altro dipendente con lo stesso cognome ed un ruolo analogo), non sono suffragate da alcun riscontro e sostanzialmente consistono in mere congetture.
3.6. la giurisprudenza penale ha evidenziato che per la configurazione del delitto di corruzione è sufficiente che il dipendente, in ragione delle funzioni ricoperte presso la stazione appaltante, abbia ottenuto il denaro da chi a sua volta ha beneficiato dell’indebita aggiudicazione dell’appalto.
3.7. La reazione disciplinare è stata tempestiva in quanto il T. è stato attinto dagli arresti domiciliari il 21 gennaio 2014 e il giorno dopo è stato sospeso cautelativamente dal servizio, per poi essere raggiunto l’il giugno 2014 dalla contestazione disciplinare, cui ha fatto seguito, in data 4 luglio 2014, l’adozione del provvedimento espulsivo che gli è stato comunicato l’8 luglio 2014.
3.8. La sanzione espulsiva non può dirsi sproporzionata, in considerazione non già dell’entità della tangente, bensì della gravità della condotta del lavoratore: “il mercimonio della sua funzione è, di per sé solo, sufficiente a minare in modo irreparabile il vincolo fiduciario con la controparte datoriale e a giustificare il licenziamento”. “La sua condotta, in definitiva, appare senz’altro suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento della propria prestazione e dei propri obblighi di imparzialità, fedeltà e onestà, coerenti con la natura dell’attività datoriale che è finalizzata all’erogazione di un pubblico servizio. L’assenza di precedenti disciplinari, poi, non è di ostacolo all’irrogazione del provvedimento espulsivo a fronte di una isolata mancanza tanto grave da pregiudicare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro”.
4. Per la cassazione di tale sentenza il T. propone ricorso affidato a quattro motivi. Resiste con controricorso la soc. SR
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia nullità della sentenza per violazione del giudicato interno, in relazione agli artt. 2909 c.c. e 329 c.p.c., con riferimento alla delimitazione della contestazione disciplinare, effettuata dal giudice in fase sommaria. Con tale motivo di ricorso, il T. deduce l’inesistenza di una autonoma contestazione disciplinare relativa alla percezione di denaro e la formazione del giudicato in ordine a tale ricostruzione, operata dal giudice della fase sommaria, con provvedimento non più censurabile in parte qua. Afferma che, in sede di opposizione, il datore di lavoro aveva omesso di formulare osservazioni circa il capo del provvedimento relativo alla delimitazione della contestazione disciplinare: la parte datoriale, pur in presenza di una pronuncia sommaria ma espressa, non aveva censurato l’ordinanza nella parte in cui questa aveva ritenuto che il richiamo disciplinare fosse limitato alla sola riformulazione, da parte del lavoratore, di una perizia di somma urgenza; la Corte d’appello ha invece rivalutato quella contestazione disciplinare, ritenendo che la stessa si estendesse alla percezione di una somma di denaro da parte del lavoratore.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia nullità della sentenza per mancata correlazione fra chiesto e pronunciato, in relazione all’articolo 112 c.p.c., con riferimento alla delimitazione della contestazione disciplinare effettuata da parte datoriale, la quale aveva ascritto al dipendente di avere consentito di ricorrere indebitamente ad un affidamento di lavori in somma urgenza senza avvisare propri superiori. Di contro, la Corte d’appello ha posto a base della propria decisione un diverso addebito disciplinare, consistente nella percezione di una somma di denaro, in cambio di una condotta non meglio individuata. Sostanzialmente, al ricorrente era stato contestato il concorso nell’improprio ricorso alla procedura di somma urgenza e di non avere segnalato detta anomala circostanza nella fase iniziale di tale procedura ai vertici della SR.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia nullità della sentenza per violazione del divieto di nova di appello, in relazione agli artt. 414, 434 e 437 c.p.c., con riferimento alla delimitazione della contestazione disciplinare effettuata da parte datoriale. Il ricorrente assume che, in ogni caso, l’introduzione in fase di reclamo della questione relativa all’autonoma rilevanza disciplinare della percezione del denaro da parte del lavoratore avrebbe dovuto considerarsi preclusa dallo sbarramento processuale previsto dall’articolo 434 c.p.c., essendo inammissibili in sede di reclamo nuovi accertamenti di fatto idonei ad alterare il thema decidendum.
4. Con il quarto motivo denuncia violazione di legge in relazione all’art. 318 c.p., con riferimento all’astratta configurabilità del delitto di corruzione. Il ricorrente assume che la Corte d’appello, nell’accertamento incidentale della rilevanza penale della condotta contestata alla lavoratore, è incorsa in violazione di legge circa gli elementi costitutivi del delitto di corruzione. La Corte di appello, infatti, non individuando l’apporto fornito dal lavoratore ad un progetto illecito che si ritiene ordito da altri e non specificando la condotta tenuta o omessa dal lavoratore, ha erroneamente affermato che la dazione di denaro sia dovuta ad accordo corruttivo e, quindi, sia connessa alle ragioni di servizio del presunto corrotto.
5. Va premesso che tutti i motivi si incentrano, con diverse articolazioni, sulla presunta erronea interpretazione della contestazione disciplinare fornita dalla Corte territoriale, anche in rapporto alla diversa lettura che del suo contenuto è stata fornita dei giudici della fase sommaria e dell’opposizione.
5.1. In limine, va rilevata la mancata completa trascrizione del documento su cui vertono tali motivi, ossia della contestazione disciplinare, che solo in parte è riportata nell’atto di impugnazione, in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 n.6 c.p.c.. Tale contestazione – per la parte trascritta – è del seguente tenore: “Ella, con mansioni di addetto all’ufficio di zona di Catanzaro, alle dirette dipendenze di Ricciuto Giulio, in concorso con altri dipendenti della SR S.p.A., ha compiuto atti contrari ai propri doveri di ufficio e/o ha omesso atti del proprio ufficio… Nello specifico, Ella apportava modifiche e riformulava la somma urgenza secondo i rilievi e le osservazioni fatte dai fratelli B. a G.R., e non già quale ignaro esecutore materiale ma, al contrario, ben consapevole del suo operato, in quanto riceveva dai fratelli B. la elargizione di Euro 500… “.
6. Il primo motivo è inammissibile.
6.1. Non è ravvisabile un giudicato interno in ordine ad una frazione dell’accertamento fattuale compiuto dal giudice di merito nella fase sommaria. Il diverso giudizio espresso dalla Corte territoriale muove da un riesame del contenuto della contestazione disciplinare interpretata diversamente in sede di reclamo, secondo una nuova valutazione unitaria, all’interno della quale non è scindibile quella frazione di accertamento fattuale che l’odierno ricorrente ritiene poter configurare un capo autonomo o una statuizione suscettibile di passare in giudicato.
6.2. La mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dar luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, avendo risolto questioni controverse che, in quanto dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente ad altri, concorrano a formare un capo unico della decisione (Cass. n. 21566 del 2017, n. 4732 del 2012; cfr. pure Cass. 18713 del 2016 e n. 85 del 2015).
7. Il secondo motivo è innanzitutto inammissibile, in quanto denuncia un error in procedendo per contestare l’interpretazione della contestazione disciplinare offerta dalla Corte territoriale, questione che verte sull’interpretazione di un atto unilaterale negoziale del datore di lavoro la cui eventuale errata interpretazione può essere denunciata solo per vizi di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 e segg. c.c.) e non per nullità della sentenza. Parte ricorrente denuncia un vizio di extrapetizione per avere la sentenza pronunciato oltre i limiti della domanda, laddove questa, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento, comprende tutti gli accertamenti inerenti la contestazione disciplinare e l’interpretazione del suo contenuto.
7.1. Occorre poi osservare che non è stato in alcun modo chiarito dal ricorrente in qual modo una volta (in ipotesi) dall’asserto accusatorio fosse espunto il terzo dei tre elementi sui quali ha argomentato la Corte territoriale, ossia “c) la percezione del prezzo della corruzione”, gli altri due, ancorché in sé, ma unitariamente, considerati, costituenti fatti omissivi e commissivi in ordine ai quali tutti i Giudici di primo e di secondo grado hanno ravvisato consistere, nel suo nucleo fondante, l’addebito disciplinare, ossia “a) il concorso nella vicenda corruttiva, b) la modifica della perizia di stima e la riformulazione della somma urgenza”, possano far ritenere ingiustificato il licenziamento, per non essere fatti idonei ad integrare una gravissima violazione dei doveri istituzionali di un pubblico dipendente, in relazione alla posizione e alle funzioni cui è preposto nell’interesse pubblico.
8. Il terzo motivo è palesemente infondato. L’effetto devolutivo dell’appello entro i limiti dei motivi d’impugnazione preclude al giudice del gravame esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d’impugnazione, mentre non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di appello che fondi la decisione su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, tuttavia appaiano, nell’ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, costituendone necessario antecedente logico e giuridico. Nel giudizio d’appello, infatti, il giudice può riesaminare l’intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purché tale indagine non travalichi i margini della richiesta, coinvolgendo punti decisivi della statuizione impugnata suscettibili di acquisire forza di giudicato interno in assenza di contestazione, e decidere, con pronunzia che ha natura ed effetto sostitutivo di ragioni diverse da quelle svolte nei motivi d’impugnazione 9202 del 2018).
9. Il quarto motivo è anch’esso inammissibile, perché privo di specificità al decisum, in violazione dell’art. 366 n. 4 c.p.c.. Il ricorrente non ha mai negato – neppure nel contesto degli assunti difensivi contenuti nel ricorso per cassazione – di essere stato consapevole artefice delle condotte attive e omissive contrarie ai doveri di ufficio che gli sono state ascritte, a prescindere dalla prova – o anche solo dalla contestazione – della percezione o meno di un compenso per il suo illecito operato; tanto basta per ritenere che la soluzione interpretativa della Corte di appello sia giuridicamente corretta. Difatti, la sentenza impugnata non ha in alcun modo escluso che le condotte contrarie ai doveri di ufficio fossero prive di valenza disciplinare se non avvalorate dalla percezione del compenso corruttivo; tale argomento assolve una funzione, nel contesto argomentativo, meramente rafforzativa di una soluzione che comunque trova il suo valido fondamento, anche solo, nel resto.
10. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
11. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 5.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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