CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 settembre 2020, n. 20424
Tributi – IRES – Contratto “stock lending agreement” – Prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) – Indeducibilità della commissione (fee) – Art. 109, co. 8, D.P.R. n. 917 del 1986
Fatti di causa
L’Agenzia delle Entrate emetteva avvisi di accertamento nei confronti della società B.P. Spa per gli anni 2005 e 2006 per Ires, con i quali, in relazione alla stipula di un contratto di stock lending agreement con la società ceca D. Czech s.r.o., disconosceva la deducibilità delle commissioni (fee) corrisposte in esecuzione del contratto, di importo superiore ai dividendi incassati, e – con riguardo all’anno 2006 – recuperava Iva relativa a 25 fatture riferite a beni di cui non era stata provata l’esportazione, irrogando le relative sanzioni.
La contribuente proponeva ricorso innanzi alla CTP di Padova, contestando la fondatezza e la legittimità delle pretese dell’Ufficio; nel merito, in particolare, deduceva la validità del contratto di stock lending, riconducibile ad una ipotesi di mutuo.
L’impugnazione era rigettata dalla CTP di Padova. La sentenza era confermata dal giudice d’appello.
B.P. Spa propone ricorso per cassazione con dieci motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso. La contribuente deposita altresì memoria ex art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1813 e ss c.c. e dell’art. 1362 c.c. per non aver la CTR ritenuto il contratto di prestito di azioni pienamente valido, efficace ed opponibile all’Amministrazione finanziaria.
1.1. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, comma 1, e 1344 c. c. per aver la CTR ritenuto il contratto di prestito di azioni nullo perché concluso in violazione di norme imperative e in frode alla legge.
1.2. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1813 e ss c.c. e dell’art. 41 Cost. per non aver la CTR ritenuto il contratto di prestito di azioni pienamente valido ed efficace in lesione del principio di libertà di iniziativa economica.
2. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 7 I. n. 212 del 2000 e 42, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, per aver la CTR, rigettando l’eccezione della ricorrente, ritenuto validi gli avvisi di accertamento nonostante la mancata allegazione della documentazione attestante la sussistenza dei dati e delle circostanze poste a base della ripresa.
2.1. Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 7 I. n. 212 del 2000 e 42, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, per aver la CTR, rigettando l’eccezione della ricorrente, ritenuto validi gli avvisi di accertamento nonostante l’omessa indicazione nella motivazione della tipologia di accertamento in concreto applicata.
2.2. Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 7 I. n. 212 del 2000 e 42, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, in combinato disposto con la dir. n. 77/799/CEE e con l’art. 26 della Convenzione contro le doppie imposizioni Italia-Repubblica Ceca, per non aver la CTR statuito sull’eccezione proposta dalla ricorrente circa la nullità degli avvisi di accertamento perché omissivi dell’indicazione delle modalità di acquisizione dall’Autorità estera degli elementi posti a base della pretesa impositiva e per non aver allegato la documentazione attestante la sussistenza di detti elementi.
2.3. Il settimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 7 I. n. 212 del 2000 e 42, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, per non aver la CTR statuito sull’eccezione proposta dalla ricorrente circa l’omessa indicazione nella motivazione degli avvisi di accertamento di idonei elementi di prova attestanti la sussistenza delle circostanze poste a fondamento della ripresa a tassazione.
3. L’ottavo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 37 bis d.P.R. n. 600 del 1973 per non aver la CTR statuito sull’eccezione proposta dalla ricorrente circa l’illegittimità dell’operato dell’Ufficio, che aveva disconosciuto gli effetti giuridici del contratto di prestito di titoli senza l’osservanza delle particolari modalità di accertamento previste dalla norma.
3.1. Il nono motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 37 bis d.P.R. n. 600 del 1973 per non aver la CTR statuito sull’eccezione proposta dalla ricorrente circa l’illegittimità dell’operato dell’Ufficio, che aveva ritenuto elusiva l’operazione di prestito di titoli in assenza dei presupposti di legge e di elementi di prova.
4. Il decimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 37 bis d.P.R. n. 600 del 1973, 5, 6 e 17 d.lgs. n. 472 del 1997, per aver la CTR, rigettando l’eccezione proposta dal ricorrente, escluso l’inapplicabilità delle sanzioni per difetto dell’elemento soggettivo ed obbiettiva incertezza normativa.
5. I primi tre motivi, con cui la contribuente ripropone la medesima questione sotto diverse angolazioni, vanno esaminati unitariamente e non sono fondati, ancorché la motivazione del giudice di merito debba essere corretta ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c.
5.1. Appare opportuno, preliminarmente, delineare la fattispecie in giudizio.
5.2. La vicenda, infatti, ha ad oggetto la stipula di un contratto denominato stock lending agreement tra la società B.P. Spa e la società D. Czech s.r.o. della Repubblica Ceca.
Questa figura contrattuale consiste in un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia (rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito), chiamata Collaterale, a favore del mutuante (tender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti.
Alla scadenza il mutuatario restituisce al mutuante altrettanti titoli della stessa specie e quantità dei titoli ricevuti e il mutuante ritrasferisce al mutuatario i beni oggetto della garanzia. Se il collaterale è costituito da cash, il tender ha il dovere di remunerarlo al borrower ad un tasso di mercato. Se invece il collaterale fornito è Non-cash non viene richiesta alcuna remunerazione.
Ulteriore caratteristica è costituita dalla necessità che il rapporto esistente tra valore dei titoli mutuati e valore dei beni posti a garanzia rimanga inalterato durante l’operazione: entrambe le parti sono obbligate ad integrare la garanzia originariamente prestata (in caso di apprezzamento dei titoli oggetto del prestito) o a restituire l’eccedenza (in caso di deprezzamento).
I vantaggi e l’utilità economica si correlano ad esigenze quali l’esercizio dei diritti non economici derivanti dalle azioni ovvero, nell’ambito delle operazioni di borsa, nel consentire al prestatario di ottenere in prestito valori mobiliari al fine di procedere alla liquidazione dei contratti aventi ad oggetto i valori medesimi, senza, tuttavia, assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento.
5.3. Nella specie, per come illustrato dalla CTR e come emerge dallo stesso ricorso, risulta che:
a) il B.P. Spa prendeva in prestito, nel 2005, da D. Czech s.r.o. una partecipazione azionaria (3500 azioni) che la seconda aveva nella Mont Bazon, società portoghese aventi sede a Madeira, posseduta interamente dalla D. Czech;
b) in base all’accordo la “prestataria” delle azioni Mont Bazon (ossia il B.P. Spa), aveva diritto all’incasso dei dividendi ad esse correlati, conservando invece D. Czech, titolare e “prestatore” delle azioni, gli altri diritti, tra i quali il diritto di voto;
c) al prestito non oneroso dei titoli era legata una pattuizione in forza della quale, laddove la Mont Bazon avesse deliberato nel 2005 la distribuzione di dividendi in misura inferiore a un determinato importo (€ 756.000,00), il B.P. Spa li avrebbe incassati senza nulla dovere a D. Czech; a fronte di dividendi distribuiti in misura superiore, invece, doveva corrispondere una “commissione” pari al valore degli stessi incrementata di una percentuale – 15,22%- su tale importo, con il limite superiore di € 1.162.000,00;
d) a garanzia della restituzione dei titoli, inoltre, con contratto collegato, le stesse azioni oggetto del prestito erano state date in pegno alla società mutuante, sicché, per tale aspetto, le azioni non erano mai state materialmente trasferite tra le parti.
In concreto, B.P. Spa in data 21 dicembre 2005 maturava e riscuoteva dividendi per € 910.803,22 e corrispondeva, quindi, una commissione di complessivi € 1.049.427,47.
Quanto ai dividendi, ai sensi dell’art. 89 tuir, il 5% veniva imputato alla formazione dell’imponibile Ires, mentre la totalità dell’importo versato alla D. Czech per le commissioni veniva esposto nella dichiarazione relativa al 2005 quali costi, determinando una perdita di bilancio, poi riportata integralmente nell’anno 2006.
5.4. La CTR, invero, nell’apprezzare la complessiva operazione su descritta, sottolinea che la società «avrebbe operato – mediante stipula di un contratto nullo per mancanza di causa con una società (la D. Czech) costituita al solo scopo di operare come intermediario e senza mezzi propri – una frode fiscale al fine di evadere l’imposta Ires dovuta» poiché «l’onere della commissione corrisposta per il contratto di prestito di titoli» sarebbe integralmente deducibile dal reddito ex art. 109 tuir, mentre i dividendi «sono imponibili in Italia nella misura del 5%», elementi che – unitamente alla valutazione sulla realtà produttiva della società straniera, «il cui quadro economico e finanziario era del tutto oscuro», e alla sostanziale indifferenza sul punto della contribuente, neppure «interessata a conoscere il livello dei dividendi che avrebbe potuto distribuire» – l’hanno portata alla conclusione che «il contratto è da considerarsi un negozio giuridico nullo» e il comportamento configurava «una frode fiscale» in quanto «violando direttamente le norme giuridiche o abusandone in modo illegale, porta a sottrarsi volontariamente ad un adempimento corretto degli obblighi fiscali e, conseguentemente, ad una mancata imposizione di qualsiasi base imponibile e/o ad un mancato pagamento dell’imposta».
5.5. Il giudice regionale, invero, nella prospettiva di ricercare il fondamento della stipula del contratto in una condotta elusiva (ma con una commistione di elementi di evasione ed elusione) e, quindi, col negare validità al contratto per mancanza di causa perché diretto solo ad ottenere un indebito vantaggio fiscale, finisce con il non cogliere l’effettiva ragione della pretesa fiscale.
Come già rilevato da questa Corte per una fattispecie analoga (Cass. n. 11872 del 12/05/2017), e come contestato dall’Agenzia delle entrate e risulta dalla stessa sentenza impugnata, l’operazione realizzata incontra i limiti posti dall’art. 109, comma 8, del d.P.R. n. 917 del 1986, ratione temporis applicabile, che costituisce l’autentico fondamento del recupero a tassazione.
La questione, infatti, era già contenuta nell’atto di contestazione, dove veniva in risalto l’asserita indeducibilità della fee, e su essa la stessa contribuente, come risulta dalla decisione impugnata (v. pag. 4, primo cpv., aveva dedotto specifiche difese.
Nel precedente citato, la Corte ha affermato il principio, al quale il collegio intende dare continuità, secondo il quale «l’operazione di stock lending, ossia di prestito di azioni che preveda a favore del mutuatario il diritto all’incasso dei dividendi dietro versamento al mutuante di una commissione (corrispondente o meno all’ammontare dei dividendi riscossi), realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicché è soggetta ai limiti previsti dall’art. 109, comma 8, TUIR, restando il versamento della commissione costo indeducibile».
Non è condivisibile, sul punto, l’opposta tesi della contribuente, illustrata in memoria, che nessun nuovo e significativo argomento introduce rispetto all’orientamento già affermato.
Occorre rilevare, infatti, che il comma 5 dell’art. 109 del d.P.R. 917 cit., vigente ratione temporis, prevede «Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi. Se si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi computabili e ad attività o beni produttivi di proventi non computabili in quanto esenti nella determinazione del reddito sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto di cui ai commi 1, 2, e 3 dell’articolo 96. Le plusvalenze di cui all’articolo 87, non rilevano ai fini dell’applicazione del periodo precedente».
Il successivo comma 8, poi, dispone «In deroga al comma 5 non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’articolo 89».
L’usufrutto di azioni è una operazione finanziaria con la quale viene concesso il diritto a percepire i dividendi distribuiti da un’altra società a fronte di un corrispettivo comprensivo del valore attuale dei flussi futuri di utili.
Il cedente, pertanto, percepisce anticipatamente l’entità del dividendo sotto forma di corrispettivo per la cessione dell’usufrutto e il cessionario inscrive in bilancio, nell’attivo patrimoniale immateriale, il corrispondente onere.
L’art. 109, comma 8, cit., dispone l’indeducibilità tributaria del costo così sostenuto quando vengano in rilievo partecipazioni societarie da cui derivino utili esclusi da tassazione: individua, in altri termini, un parallelismo tra la deducibilità del costo dell’usufrutto su azioni e l’imponibilità dei dividendi derivanti dalla sottostante partecipazione.
Nel contratto di stock lending, corrispondentemente, il prestito dei titoli si associa al diritto di percepire i relativi dividendi da parte del mutuatario, mentre il mutuante ha diritto al pagamento di una commissione in relazione al dividendo incassato: come nell’usufrutto di azioni, il contratto di stock lending trasferisce (temporaneamente) la titolarità del diritto al dividendo e per ottenere la relativa riscossione è previsto un costo.
Il fenomeno economico, dunque, è lo stesso, senza che assuma rilievo, ai fini tributari (gli unici che qui rilevano non essendovi la necessità di una declinatoria civilistica sul contratto), la circostanza che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, in un diritto di credito.
Né tale soluzione configura una impropria estensione analogica del dettato della norma, che si riferisce esplicitamente e letteralmente “ad altro diritto analogo”, senza ulteriori connotazioni, sicché non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione che, del resto, avrebbe una valenza abrogatoria), non deponendo in tal senso né la lettera, né lo spirito della disposizione.
Né, infine, ha rilievo l’avvenuta modifica dell’art. 2, comma 3, d. lgs. n. 461 del 1997 – tra l’altro, per come invocato, nel testo introdotto solo con il d.l. n. 5 del 10 febbraio 2009 (modificativo del testo inserito nel 2006) – trattandosi di disposizione che, al di là della sua pertinenza o meno alla vicenda in esame, si applica, in ogni caso, solo a condotte successive a quella in giudizio.
5.6. Ne deriva che il contratto non è nullo per mancanza di causa o violazione di norme imperative, né l’operazione va considerata elusiva, neppure ponendosi una lesione dell’art. 41 Cost., ma, semplicemente, i costi sostenuti per l’operazione di stock lending (i.e. la commissione) sono indeducibili ex art. 109, comma 8, tuir, dovendosi in tal senso integrare la motivazione della sentenza impugnata.
6. I motivi dal quarto al settimo vanno parimenti disattesi.
7. Il quarto motivo è inammissibile.
7.1. Il contribuente contesta, in particolare, che l’avviso e il pvc, a lui notificato e poi allegato, facevano riferimento a documentazione rinvenuta in altre aziende, di cui la contribuente non ha mai avuto conoscenza.
7.2. Occorre ricordare, invero, che secondo il consolidato orientamento della Corte «in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (art. 7, legge 27 luglio 2000, n. 212) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone l’art. 3, comma 3, legge 7 agosto 1990, n. 241: il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia, rinvio nell’atto impositivo e sol perché ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore “narrativo”), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto. Pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione» (Cass. n. 2614 del 10/02/2016; Cass. n. 26683 del 18/12/2009; v. anche Cass. n. 24417 del 05/10/2018).
7.3. Orbene, l’avviso, per la parte riprodotta per autosufficienza, pone in risalto l’attività istruttoria generale effettuata dall’Ufficio in relazione alle attività contrattuali poste in essere dalla società Czeh D. con svariate compagini nazionali, nella prospettiva della valutazione della consistenza della prima e delle caratteristiche del fenomeno economico correlato alla stipula di contratti di stock lending.
Il rilievo di tali circostanze – neppure specificato da parte della contribuente – si esauriva, in evidenza, nella enunciazione delle ragioni per le quali l’Amministrazione aveva avviato una generale attività di accertamento, senza tradursi in un fondamento della specifica ripresa, traendo questa – come rilevato al punto 5 – la sua consistenza esclusivamente dallo specifico accordo concluso con la contribuente e dalla violazione dei criteri di deducibilità dei costi ex art. 109 tuir.
7.4. La doglianza, dunque, è generica e priva di decisività.
8. Anche il quinto motivo è inammissibile.
La CTR, infatti, dall’esame del pvc e degli atti emanati, ha valutato che «l’Amministrazione ha accertato il maggior reddito ai fini Ires ai sensi dell’art. 41 bis dei d.P.R. 600/73» poiché «l’imputazione del maggior reddito alla società è scaturita dalle risultanze dell’accesso effettuato dall’Ufficio che, alla luce della documentazione concernente l’operazione finanziaria operata dalla società nonché dall’analisi delle scritture contabili (da cui è scaturito il pvc notificato alla parte) ha ritenuto che sussistessero gli elementi probatori di una frode fiscale».
Il concreto riscontro in fatto operato dalla CTR sulla natura dell’accertamento, neppure contestato dalla ricorrente, rende privo di ogni rilievo che nell’avviso non sia stata espressamente indicata la norma in base alla quale è stato effettuato l’accertamento.
9. Il sesto motivo è inammissibile.
9.1. La ricorrente, infatti, denuncia, in realtà, ai sensi dell’art. 360 n. 3 anziché n. 4 c.p.c., una omessa pronuncia, in realtà insussistente avendo la CTR espressamente statuito sulla regolarità formale dell’avviso.
9.2. L’inammissibilità discende altresì dalle stesse ragioni già evidenziate con riguardo al quarto motivo. Le questioni dedotte, infatti, non sono incidenti, né in fatto né in diritto, sulla ripresa. Ciò, del resto, emerge, ulteriormente, dall’asserito contenuto del documento relativo allo scambio di informazioni (inammissibilmente indicato in difetto di autosufficienza non essendo stato riprodotto in ricorso) che attiene alla condizione della Czech CFD e, dunque, ad un aspetto privo di ogni rilievo quanto alla non deducibilità dei costi.
9.3. Giova comunque sottolineare, sul punto, che rispetto a tale documentazione la contribuente aveva la facoltà di chiedere l’accesso e il rilascio di copie degli atti, facoltà che, invece, non è stata esercitata.
10. Il settimo motivo è parimenti inammissibile, denunciando, anche in questo caso, una omessa pronuncia ai sensi dell’art. 360 n. 3 anziché n. 4 c.p.c.
Sotto altro profilo, inoltre, va rilevato che la ricorrente trascura la distinzione tra la questione dell’esistenza della motivazione dell’atto impositivo, requisito formale di validità, e quella concernente, invece, indicazione ed effettiva esistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria, che non è prescritta quale elemento costitutivo della validità dell’atto impositivo ma è disciplinata dalle regole processuali dell’istruzione probatoria da applicarsi nello svolgimento del giudizio (Cass. n. 8399 del 05/04/2013).
Non si pone, dunque, un profilo di legittimità dell’atto impositivo ma di accertamento giudiziale della fondatezza del rilievo, profilo esaminato dalla CTR alla luce delle risultanze probatorie acquisite in giudizio, la cui contestazione da parte della ricorrente si risolve, dunque, in una inammissibile revisione del giudizio di merito.
11. I motivi ottavo e nono, che possono essere esaminati unitariamente, sono inammissibili.
Entrambe le doglianze, infatti, si fondano su un presupposto di fatto in realtà inesistente, ossia che l’operazione di stock lending sia ascrivibile nel fenomeno dell’elusione, con applicazione, dunque, dell’art. 37 bis d.P.R. n. 600 del 1973.
La vicenda in giudizio, invece, integra una evasione d’imposta, da cui l’inammissibilità delle censure.
12. Il decimo motivo va disatteso in entrambe le sue articolazioni.
12.1. Quanto all’asserito difetto dell’elemento soggettivo, la censura sconta le medesime insufficienze dei motivi sopra esaminati essendo la prospettazione legata alla qualificazione della condotta come elusiva e non come evasione, sicché la doglianza è, in parte qua, inammissibile.
12.2. Neppure sussiste la lamentata incertezza normativa.
L’art. 109, comma 8, tuir, nell’affermare l’indeducibilità dei costi, è chiaro nell’enucleare le fattispecie rilevanti nell'<<acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’articolo 89>>, da cui, come rilevato, l’inclusione del contratto di stock lending nella sua portata.
13. Il ricorso va pertanto rigettato e le spese liquidate, come in dispositivo, per soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la società B.P. Spa al pagamento delle spese a favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in € 11.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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