CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 settembre 2022, n. 28296
Licenziamento – Dirigente – Obblighi di comunicazione nella gestione dei beni dell’unità produttiva – Violazione – vizio di violazione di legge – vizio di falsa applicazione di legge
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Bologna ha respinto l’appello di L.V., confermando la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata la domanda volta alla declaratoria di nullità o illegittimità del licenziamento intimatogli il 7.5.2012 dalla D.I. s.r.l. e all’accertamento di un unico rapporto di lavoro subordinato, con qualifica dirigenziale, svolto dall’1.3.2000 fino al 7.5.2012, con condanna della citata società a regolarizzare la posizione contributiva e a risarcire il danno pensionistico per il periodo 2002 – 2008 durante il quale era il V. stato costretto ad assumere il ruolo di consigliere del Consiglio di amministrazione.
2. La Corte territoriale ha dato atto che il V. era stato assunto nel 1995 dalla I. s.r.l., poi denominata W.I. s.r.l., con qualifica di impiegato tecnico e che dall’1.3.2000 era stato inquadrato come dirigente; che nel 2002 il rapporto di lavoro era cessato per dar luogo al suo ingresso nel Consiglio di amministrazione come consigliere, con contestuale stipula di un rapporto di collaborazione autonoma; che nel 2007 la W.I. s.r.l. era stata rilevata dalla D.G. e il V. era stato nuovamente assunto come lavoratore subordinato con qualifica di dirigente.
3. La sentenza impugnata ha escluso l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, con mansioni dirigenziali, nel periodo dal 2002 al 2008, rilevando come in base alle prove documentali e testimoniali raccolte il mutamento di qualifica, da dipendente a consigliere del C.d.A., fosse stato effettivo e non solo formale, con concreto esercizio da parte del V. delle nuove funzioni.
4. Ha dato atto della contestazione disciplinare mossa al V. con lettera del 21.3.2012, per essere venuto meno agli obblighi di comunicazione nella gestione dei beni dell’unità produttiva di N., della cui chiusura e liquidazione era stato incaricato; ha accertato come la contestazione disciplinare fosse stata preceduta da un prolungato e cospicuo scambio di mail tra la società e il V. finalizzato a ricostruire la destinazione di numerosi beni presenti presso lo stabilimento di N. e di cui non era stata fornita alcuna documentazione; ha rilevato come gli accertamenti che avevano portato al licenziamento fossero stati avviati in epoca ben precedente rispetto all’invio da parte del dipendente di una lettera all’Inps (del 28.12.2011) diretta a rivendicare la natura subordinata del rapporto di lavoro svolto dal 2002 al 2008 e ad interrompere i termini di prescrizione dei contributi; ha quindi escluso che il licenziamento avesse carattere ritorsivo rispetto a tale iniziativa del lavoratore; ha ritenuto sussistente la giusta causa di recesso atteso che neanche nel corso del giudizio il V. aveva fornito contezza documentale della destinazione dei beni della citata unità produttiva, numerosi e aventi un complessivo valore rilevante, e che ciò facesse emergere una inaffidabilità incompatibile con la prosecuzione del rapporto.
5. Avverso tale sentenza L.V. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La D.I. s.r.l. ha resistito con controricorso.
6. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte ed entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
7. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. in relazione alla surrogabilità del rapporto di lavoro subordinato e dell’incarico di amministratore di società come contenitori giuridici di svolgimento della medesima attività.
8. Si sostiene che la Corte d’appello, pur avendo accertato come il V. avesse sempre svolto le stesse mansioni sia quando era dirigente e sia nel periodo oggetto di causa, abbia ritenuto che una medesima attività potesse costituire oggetto sia di lavoro subordinato e sia dell’incarico di amministratore (rectius, di consigliere del Consiglio di amministrazione), che invece comprende le attività che comportano formazione della volontà dell’ente o esecuzione della medesima volontà e che si distinguono anche dal lavoro autonomo.
9. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. in ordine alla configurabilità come giusta causa di licenziamento in tronco delle contestazioni mosse al lavoratore.
10. Premesso che l’addebito contestato attiene alla insufficiente documentazione o registrazione dei beni esistenti presso l’unità produttiva dismessa, la parte ricorrente deduce che la società avrebbe dovuto indicare quale fosse la documentazione mancante, mentre l’accusa sul punto era stata formulata in termini generici; che l’addebito di insufficiente documentazione risultasse depotenziato e non adeguatamente provato e che non fosse configurabile una giusta causa di recesso atteso che per tutti i 26 tipi di beni si era conosciuta la sorte finale, risultata legittima; che dal 21.11.2011 l’ufficio amministrativo aveva contestato al lavoratore la mancata documentazione sulla destinazione dei beni, mentre la lettera di contestazione disciplinare era del 3.3.2012; il fatto che il V. avesse continuato ad operare per la società per ulteriori quattro mesi dopo i rilievi dell’ufficio amministrativo dimostrava l’insussistenza di una giusta causa di licenziamento che è tale se non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto.
11. Il primo motivo di ricorso non può trovare accoglimento.
12. Premesso che, come accertato nella sentenza d’appello, il V. è stato nominato consigliere del Consiglio di amministratore e amministratore delegato, la Corte di merito ha ritenuto non raggiunta la prova, di cui l’attuale ricorrente era onerato, dello svolgimento di attività, durante il periodo in contestazione, con le caratteristiche proprie del lavoro subordinato, sia pure dirigenziale.
13. La sentenza impugnata ha escluso che il “mutamento di qualifica sia stato meramente formale […] e che (il V.) non abbia esercitato le nuove e diverse mansioni”, dovendosi avere riguardo ai compiti del consigliere di amministrazione, delegato anche per settori diversi da quelli che aveva curato nel ruolo di dirigente, ed ha rilevato come dalle prove raccolte non fosse emerso in capo al V. “nessuno degli indici propri della subordinazione”, ad esempio, riguardo alla concreta organizzazione del lavoro, alla sottoposizione al potere disciplinare, alla necessità di riporto della propria attività a terzi.
14. La censura oggetto del primo motivo prospetta il vizio di violazione di legge, ed esattamente dell’art. 2094 cod. civ., sul presupposto della identità delle mansioni svolte dal V. prima come dirigente e poi quale consigliere del Consiglio di amministrazione, ma un simile accertamento non solo non esiste nella sentenza impugnata ma è contraddetto dalla stessa sotto il duplice profilo sopra evidenziato: effettività del ruolo di consigliere e assenza di prova della natura subordinata dell’attività svolta.
15. L’esistenza di un simile accertamento in fatto impedisce di ritenere integrata la dedotta violazione di legge, risolvendosi le censure mosse in una critica alla ricostruzione fattuale compiuta dai giudici di appello attraverso la valutazione del materiale probatorio raccolto, critica che non può avere ingresso in questa sede di legittimità.
16. Questa Corte (v. Cass. n. 3340 del 2019; n. 640 del 2019; n. 10320 del 2018; n. 24155 del 2017; n. 195 del 2016) ha più volte definito i confini in cui si articola il giudizio di diritto che l’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. descrive attraverso le espressioni di violazione o falsa applicazione di legge; il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione; si è parallelamente precisato che non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità; il discrimine tra la violazione o falsa applicazione di norme e l’erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa. Ed è quanto accade nel caso di specie.
17. Né l’affermazione contenuta nella pronuncia d’appello, secondo cui ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, sia pure impropria rispetto alla fattispecie oggetto di causa in cui si discute delle funzioni di consigliere di amministrazione, appare dirimente nel senso voluto da parte ricorrente atteso che la stessa è posta quale premessa dell’accertamento sulla mancata prova, nel caso in esame, dei necessari indici di subordinazione.
18. Gli stessi difetti si rinvengono nel secondo motivo di ricorso, in cui la contestazione della idoneità dell’addebito ad integrare una giusta causa di licenziamento poggia su dato secondo cui “di tutti i 26 tipi di beni si è conosciuta la sorte finale e legittima”, là dove la sentenza d’appello (pag. 11) ha accertato che il V. non era stato “in grado di documentare il destino di numerosi beni di complessivo rilevante valore economico di cui non si è potuto in alcun modo, da parte della società, nonostante numerosi solleciti, avere idonea documentazione rispetto al destino dato” ed ha evidenziato (pag. 10) come il predetto “non (avesse) neppure in giudizio fornito contezza documentale della destinazione dei beni, manifestando una gestione di essi inidonea a supportare gli oneri documentali e gestori della società tenuta alla compilazione delle scritture contabili secondo criteri di tracciabilità delle operazioni e di assolvimento delle normative speciali anche in materia di smaltimento e rottamazione dei materiali”.
19. La deduzione di genericità della contestazione disciplinare non può essere esaminata poiché non è indicato in che termini e in quali atti processuali tale questione sia stata posta nei gradi di merito, dato che la sentenza d’appello non contiene alcuna statuizione sul punto.
20. Questa Corte ha chiarito che, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito e di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del 2018).
21. Per le ragioni esposte il ricorso va dichiarato inammissibile, con assorbimento di ogni altro profilo di censura in rito del ricorso medesimo.
22. La regolazione del le spese, liquidate come in dispositivo, segue il criterio di soccombenza.
23. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.