CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 gennaio 2020, n. 1961
Tributi – IVA – Eccedenza risultante dalla dichiarazione annuale – Rimborso – Accertamento in rettifica della stessa dichiarazione che, accertando un debito d’imposta, comporti il disconoscimento del credito per l’eccedenza – Impugnazione – Effetti – Interruzione del termine di prescrizione decennale per l’esercizio del diritto al rimborso – Sospensione del termine fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo
Fatti di causa
La vicenda trae origine da un avviso di accertamento per l’anno 1998 emesso a seguito della mancata risposta a questionario, con il quale l’Ufficio accertava un maggior reddito a fini irpeg, irap e iva oltre a interessi ed irrogava le relative sanzioni.
Le operazioni contestate, per quanto qui rileva, riguardavano principalmente la cessione di un immobile strumentale all’esercizio di impresa per il corrispettivo di lire 132.000.000,00 stipulata con atto notarile del 16.11.1998, in forza della quale l’Amministrazione Finanziaria recuperava a tassazione la relativa plusvalenza, in quanto non dichiarata e il riconoscimento di un credito iva di euro 41.887,00 derivante dall’anno precedente per il quale era stata omessa la presentazione della dichiarazione, fatto che secondo l’Ufficio comportava la perdita del diritto alla detrazione.
La società ricorrente impugnava l’atto di cui sopra di fronte alla CTP competente, svolgendo eccezioni sia in rito, con riferimento alla notifica dell’atto, sia nel merito, in particolare eccependo quanto al primo dei due rilievi sopraindicati come la cessione dell’immobile fosse stata rilevata all’atto dell’incasso degli acconti, oggetto di emissione delle relative fatture, negli anni precedenti alla stipula dell’atto notarile (1986 e 1987) e conseguentemente correttamente sottoposta a imposizione nei periodi d’imposta relativi e alla propria posizione di successore nel debito del proprio dante causa a seguito della scissione di cui si è detto, sia in merito.
La CTP accoglieva l’impugnazione.
Appellava l’Agenzia delle Entrate di fronte alla CTR, che confermava la sentenza impugnata.
Ricorre a questa Corte di cassazione l’Erario con atto affidato a sette motivi; la società contribuente resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c. ed all’art. 62 c. 1 d. Lgs. n. 546 del 1992 per avere la CTR ecceduto dal thema decidendum avendo preteso di individuare il momento impositivo dell’operazione di vendita del bene di cui alla narrativa in anni precedenti il 1988, anno di stipula del contratto notarile di compravendita.
Il motivo è infondato.
Invero, avendo la società contribuente contestato la rilevanza a fini Iva dell’operazione di cessione, sostenendo che in forza del versamento del prezzo essa non rilevava nel 1988 poiché di tali operazioni attive si era tenuto in debito conto negli anni precedenti, essa ha implicitamente contestato – e la CTR ha quindi affrontato e risolto – anche il connesso profilo ai fini dell’imposizione sul reddito.
Difatti, sorte connessa alla qualificazione ed all’apprezzamento delle operazioni attive appena citate ha, ai diversi fini dell’imposizione reddituale, la contestazione relativa alla plusvalenza emergente secondo l’Erario dalla cessione del bene strumentale.
Il secondo motivo di ricorso censura la gravata sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 75 d.P.R. n. 917 del 1986 (c.d. TUIR) nel testo applicabile ratione temporis in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. ed all’art. 62 c. 1 d. Lgs. n. 546 del 1992 per avere la CTR erroneamente ritenuto che i componenti positivi del reddito d’impresa costituiti dall’intero prezzo versati alla contribuente anteriormente al 1998 fossero elementi di competenza, ai fini impositivi, di tali anni e non del 1998, anno di stipulazione dell’atto notarile di compravendita, in violazione quindi del principio di competenza.
Il motivo non ha fondamento.
Risultando pacifica la corretta emissione delle fatture negli anni 1996 e 1997, a fronte e in corrispondenza del versamento del prezzo interamente pagato anteriormente la stipula dell’atto, la Corte deve fare applicazione del principio, ormai consolidato, secondo il quale In tema di IVA, il versamento di un acconto sul prezzo con emissione della relativa fattura in relazione ad un contratto di compravendita immobiliare costituisce operazione imponibile ai sensi dell’art. 6, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, come modificato dal d.P.R. 30 dicembre 1981 n. 793. Tal disposizione, con riferimento invero non solo al versamento di caparre o acconti, ma a tutti i casi di cessioni di beni immobili in cui l’emissione della fattura o il pagamento, in tutto o in parte, del corrispettivo avvengano prima della stipulazione dell’atto di trasferimento del diritto, dispone che l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato o pagato, alla data della fattura o a quella del pagamento.
Sul punto questa Corte ha stabilito chiaramente come “ai fini della determinazione del periodo d’imposta cui riferire il versamento dell’acconto sul corrispettivo di un contratto preliminare di compravendita immobiliare assume rilievo il momento del versamento della somma con emissione della relativa fattura che costituisce operazione imponibile ai sensi dell’art. 6, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (come modificato dal d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 793), il quale, in tali ipotesi, prevede che l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato o pagato, alla data della fattura o del pagamento.» (Cass., 26/11/2014, n. 25088). E ancora, si è nuovamente ritenuto che (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1320 del 22/01/2007; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8792 del 10/04/2009) in tema di IVA, nella cessione di immobili il presupposto impositivo si verifica, ai sensi dell’art. 6, primo e quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, al momento del passaggio di proprietà degli stessi, e, qualora venga versato un anticipo del prezzo in previsione degli effetti reali, alla data del pagamento di questo e limitatamente all’importo a tal fine destinato. Ciò comporta che il pagamento di somme di denaro (o la dazione di cose fungibili) effettuato a titolo di caparra confirmatoria di un contratto di compravendita di immobile è soggetto all’imposta ed all’obbligo di fatturazione solo nella misura in cui tali somme (o cose fungibili) sono destinate, per volontà delle parti, accertabile dal giudice di merito in base ad elementi intrinseci ed estrinseci del contratto, ad anticipazione del prezzo per l’acquisto del bene.
Esattamente in termini con la presente fattispecie, in ultimo, risulta una non più recente pronuncia di questa Corte (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6487 del 19/03/2007), secondo la quale “in tema di IVA, nell’ipotesi di cessione di immobili, ai sensi dell’art. 6, primo e quarto comma, del d. P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, il presupposto impositivo si verifica al momento del passaggio di proprietà degli stessi e, qualora il corrispettivo venga versato, in tutto o in parte, anteriormente al verificarsi di tale evento, l’operazione si considera effettuata alla data del pagamento, ma solo limitatamente all’importo pagato”), e non v’è ragione per discostarsi da tal orientamento che merita qui adesione e conferma.
Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione dell’art. 112 c. 2 n. 4 c.p.c., dell’art. 36 d. Lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c. ed all’art. 62 c. 1 d. Lgs. n. 546 del 1992 per avere la CTR omesso di pronunciarsi sull’eccezione dell’Ufficio relativa alla inutilizzabilità ex art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 della documentazione prodotta in primo grado dalla contribuente società in allegato alla memoria datata 3 maggio 2006 sulla base della quale si è ritenuta insussistente la contestata plusvalenza relativa alla cessione dell’immobile di cui si è detto.
Il motivo non ha fondamento; invero correttamente la CTR ha ammesso tal produzione in forza delle ragioni riportate al terzo paragrafo della parte dedicata allo svolgimento del processo, che costituisce – sia pur implicitamente – parte della motivazione del provvedimento impugnato; è infatti evidente come la CTR abbia ritenuto, con accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, che il contribuente fosse nelle condizioni di avvalersi della deroga prevista ai sensi dell’art. 32, quinto comma, del DPR n. 600/1973; deroga che consente in sostanza il deposito nel giudizio di primo grado in sede contenziosa delle notizie, dei dati, dei documenti, dei libri e dei registri non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio ove il contribuente dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile.
Sul punto, la giurisprudenza di questa Corte è chiara nel ritenere comunque che (Cass. Sez. 6-5, Ordinanza n. 30537 del 19/12/2017) “in tema di contenzioso tributario, l’irrituale produzione di un documento nel giudizio di primo grado non assume rilievo nella definizione della controversia, salvo eventualmente per quanto riguarda la regolamentazione delle spese processuali, in quanto, comunque, il documento può essere legittimamente valutato dal giudice di appello, in applicazione dell’art. 58, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992. Correttamente, quindi, la CTR ha valutato e deciso tenendo conto delle produzioni di cui alla memoria del 3 maggio 2006 del contribuente.
Il quarto motivo si incentra sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. ed all’art. 62 d. Lgs. n. 546 del 1992 per aver ritenuto la CTR utilizzabili i documenti di cui al motivo che precede anche se non resi disponibili all’Ufficio nel corso dell’attività di controllo, avendo peraltro l’Amministrazione debitamente avvisato il contribuente in ordine alle conseguenze della mancata esibizione.
Il motivo è infondato, in parte per le ragioni di cui si è detto nella disamina del motivo che lo precede, e in parte per le ragioni che ora si espongono.
La disposizione di cui all’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, nei sui commi quarto e quinto, La disposizione deve essere letta ed interpretata in coerenza ed alla luce del diritto alla difesa di cui all’art. 24 Cost., e del principio della capacità contributiva scolpito nell’art. 53 Cost. Le norme costituzionali non impediscono certo di porre ragionevoli limiti al diritto alla prova, con conseguente tassazione di cespiti che il contribuente potrebbe dimostrare inesistenti; ma impongono di procedere ad una interpretazione rigorosa di disposizioni quale anche l’art. 52 comma 5 del d.P.R. nm. 633 del 1972, che è omologo della disposizione che qui si invoca.
Appare, in proposito, di particolare rilievo l’esigenza che vi sia stata una attività di ricerca della documentazione da parte della Amministrazione ed un “rifiuto” da parte del contribuente (rifiuto cui è equiparata la dichiarazione di non possedere i documenti, o la sottrazione dolosa di essi al controllo). Ed è ovvio come simile procedura di “richiesta” o “ricerca” da parte della Amministrazione e di rifiuto (o occultamento) da parte del contribuente sia in concreto concepibile quasi esclusivamente in riferimento ai documenti di cui è obbligatoria la tenuta. In altre parole, la limitazione alla possibilità della prova è collegata ad uno specifico comportamento del contribuente, che si sottrae volontariamente alla prova stessa, e dunque fornisce validi elementi sia all’Ufficio che li esamina sia al giudice che li valuta per dubitare della genuinità di documenti che abbiano a “riaffiorare” con un sostanziale effetto “sorpresa” per la controparte nel corso del giudizio. Ciò costituisce una giustificazione ragionevole della loro inutilizzabilità; del resto essa è adeguatamente temperata dalla possibilità riconosciuta al contribuente di dimostrare la “non volontarietà della sottrazione originaria della documentazione” (così come affermato da sin da Cass. 28 gennaio 2002, n. 1030). La preclusione alla produzione in giudizio di tali documenti trova quindi applicazione solo quando si sia in presenza in primo luogo di una specifica richiesta o ricerca da parte della Amministrazione – che certamente nel presente caso è esistita, come dimostra parte ricorrente trascrivendo in ricorso il questionario correttamente notificato anche al legale rappresentante della società contribuente – e secondariamente di un rifiuto o di un occultamento volontario da parte del contribuente. E, a tal fine, non è sufficiente che il contribuente non abbia esibito ai verbalizzanti i documenti in epoca successiva depositati in sede giudiziaria. Nel presente caso, poi, la circostanza della inoperatività della società da diversi anni e della necessità di interpellare vari consulenti per recuperare la documentazione richiesta sono elementi che ulteriormente rilevano per ritenere involontaria la sottrazione della documentazione all’attività di controllo.
Il quinto motivo censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 54 e dell’art. 75 d.P.R. n. 917 del 1986 (c.d. TUIR) nel testo applicabile ratione temporis e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. ed all’art. 62 c. 1 d. Lgs. n. 546 del 1992 per avere la CTR erroneamente ritenuto provato il difetto di sussistenza della contestata plusvalenza.
Il motivo è inammissibile; esso invero, a fronte di un preciso accertamento in fatto del giudice dell’appello, tende a chiedere in sostanza una nuova valutazione dei fatti processuali, qui evidentemente preclusa alla Corte.
Il sesto motivo deduce la violazione degli artt. 18 e 57 d. Lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c. ed all’art. 62 c. 1 d. Lgs. n. 546 del 1992 per avere la CTR omesso di pronunciarsi sull’eccezione di inammissibilità proposta dall’Ufficio con riguardo al recupero del credito Iva per l’importo di euro 41.887,00 proveniente dall’anno 1997, per il quale non era stata presentata la dichiarazione, che era stato oggetto di contestazione da parte del contribuente con le proprie controdeduzioni in appello e non con il ricorso introduttivo del giudizio avverso l’avviso di accertamento.
Il motivo è strettamente congiunto con il settimo mezzo di gravame, con il quale si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 21 c. 2 d. Lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 2041 c.c. per avere la CTR ritenuto applicabile alla fattispecie il termine decennale di prescrizione del diritto al rimborso e non il termine biennale di decadenza da detto diritto.
Il motivo è infondato, sia pure con le precisazioni che seguono in ordine alle quali la motivazione della sentenza impugnata va corretta.
Riguardo al quadro legislativo modificatosi a partire dal 1997, si è affermato che, in tema di IVA versata in eccesso, poiché detrazione e rimborso d’imposta sono manifestazioni alternative del medesimo diritto, ancorché non subordinate ai medesimi presupposti, al contribuente che, entro il termine di decadenza, abbia esercitato il diritto alla restituzione con richiesta di detrazione contrastata dall’Amministrazione finanziaria per inosservanza dell’obbligo di presentare la dichiarazione annuale non può, in caso di esito negativo del giudizio sulla detrazione, ritenersi precluso il rimborso ex art. 30 cit., se richiesto entro il termine di prescrizione. (Cass. Sez.5, n. 20040 del 2011).
Questa Corte ha precisato poi ancora recentemente come (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 20466 del 30/07/2019) in tema di rimborso dell’eccedenza IVA risultante dalla dichiarazione annuale, l’impugnazione in sede giurisdizionale dell’avviso di accertamento in rettifica della stessa dichiarazione che, accertando un debito d’imposta, comporti il disconoscimento del credito per l’eccedenza, interrompe, ai sensi dell’art. 2943, comma 2, c.c., il termine di prescrizione decennale per l’esercizio del diritto al rimborso – che resta sospeso, ai sensi dell’art. 2945, comma 2, c.c., fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo – atteso che il giudizio devoluto al giudice tributario ha ad oggetto la verifica della sussistenza, in via alternativa, di una delle due contrapposte pretese di un debito d’imposta o del credito per l’eccedenza. Tal pronuncia conferma quindi la necessità di determinare unitariamente, stante l’unicità del periodo d’imposta a fini Iva, l’ammontare prima dell’imponibile e poi dell’imposta dovuta.
In ultimo, rileva poi la considerazione, pacifica in atti, secondo la quale – come ribadito da parte ricorrente a pag. 27 del ricorso nell’esordio del motivo qui esaminato – la pretesa di maggior imposta riguardava “l’ammontare complessivo dell’imposta…”. Trova quindi applicazione alla presente fattispecie l’orientamento giurisprudenziale già espresso da questa Corte secondo il quale (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 8004 del 21/03/2019) in tema di rimborso dell’eccedenza IVA, l’impugnazione dell’avviso di accertamento con il quale l’ufficio, a seguito di accertamento induttivo, abbia rideterminato l’intera cifra di affari della società contribuente, disconoscendo il credito fatto valere da quest’ultima, investe la totalità delle poste (attive o passive) rilevanti ex art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972, sicché l’effetto interruttivo e sospensivo del termine di prescrizione decennale ex artt. 2943 e 2945 c.c. opera sull’intero credito oggetto della richiesta di rimborso.
Conseguentemente, la formulazione di detta richiesta per mezzo delle controdeduzioni in appello da parte del contribuente in data 3 settembre 2007 deve ritenersi tempestiva.
Quanto poi alla sussistenza del credito, che non è contestato nella sua certezza, liquidità ed esigibilità, avendo l’Amministrazione unicamente contestato la tempestività dell’azione per il suo recupero, trova applicazione la nota giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. U, Sentenza n. 17757 del 08/09/2016) in forza della quale la neutralità dell’imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l’eccedenza d’imposta, che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, va riconosciuta dal giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, sicché, in tal caso, nel giudizio d’impugnazione dell’atto emesso dal fisco non può essere negato il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili.
La controversia quindi, alla luce anche di questa osservazione conclusiva, va decisa con il complessivo rigetto del ricorso.
La soccombenza regola le spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; liquida le spese in euro 5.600,00 oltre accessori di legge che pone tutte a carico di parte soccombente.
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