CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 luglio 2019, n. 20414
Appalto vietato di manodopera – lngresso in Italia di soggetti extra-comunitari per lavoro dipendente – Scissione tra titolarità del rapporto di lavoro ed utilizzo delle prestazioni lavorative – Irrilevanza della circostanza che capitali, macchine o attrezzature siano fornite dall’appaltante – Appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera può essere lecito – Necesario il requisito della organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore – Assenza dell’esercizio da parte dell’appaltante di diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell’appaltatore
Fatti di causa
a seguito di verbale di accertamento congiunto, eseguito dall’INPS e dalla Direzione Provinciale del lavoro di Udine il 14 maggio 2008, sulla scorta di un verbale della Guardia di finanza del 28 febbraio 2008, con il quale era stata contestata a carico della società la violazione delle disposizioni contenute nell’art. 18, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003 sull’appalto vietato di manodopera, per il periodo aprile 2003 – dicembre 2005 quanto ai lavoratori ivi indicati ed in relazione ai rapporti intercorsi con le società croate K.M. e K. nell’anno 2003 e con le società K.I., K. e T. nell’anno 2005.
2. Sia il Tribunale di Udine che la Corte d’Appello di Trieste hanno rigettato la tesi della opponente tendente a dimostrare la genuinità degli appalti stipulati ed hanno, quindi, accertato la sussistenza della intermediazione illecita di manodopera.
3. La Corte d’appello, con la sentenza n. 540 del 2014, ha ritenuto, ai fini degli obblighi contributivi in oggetto, non significativo che la Provincia di Udine avesse autorizzato l’ingresso in Italia per lavoro ai dipendenti ai sensi dell’art. 27 comma 1 lett. g) ed i) d.lgs. n. 286 del 1998; neppure ha ritenuto rilevante che i medesimi lavoratori avessero optato per il mantenimento della propria posizione assicurativa in Croazia. Inoltre, la Corte territoriale ha ritenuto che l’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003 vada interpretato nel senso che l’appalto di manodopera, se privo delle caratteristiche individuate dalla stessa disposizione si riduce ad una somministrazione irregolare perché priva dei requisiti di cui agli artt. 20 e 21 del medesimo decreto legislativo e, pertanto, inidonea a produrre la scissione tra titolarità del rapporto di lavoro ed utilizzo delle prestazioni lavorative. Nel caso di specie non era emerso che l’appaltatore avesse fornito alcun apporto diverso dalla mera messa a disposizione dei proprio personale, non importa se esperto. Neppure era stato provato che ricorresse la figura del distacco di personale per difetto dei requisiti richiesti dall’art. 30 del d.lgs. n. 276 del 2003; ancora, la Corte territoriale non ha ritenuto che il disposto dell’art. 1, comma 44 I. n. 296 del 2006 fosse rilevante attesa la sua valenza solo in ambito tributario. Infine, la Corte ha ricordato il complesso del materiale istruttorio, derivato anche dal procedimento penale svolto a carico di taluni soggetti, la cui valutazione pure supportava la propria decisione.
4. Avverso tale sentenza, propone ricorso per cassazione P. s.r.l. in liquidazione sulla base di due motivi illustrati da memoria.
5. L’Inps resiste con controricorso. Equitalia Nord s.p.a. è rimasta intimata.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e o falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ. e degli artt. 2697 e 2729 cod. civ. con riferimento agli artt. 29 e 30 d.lgs. n. 276 del 2003 ed agli artt. 2094, 1655 e 2082 cod. civ. ravvisando tali violazioni nel passo della motivazione che ha disatteso la tesi della società tendente a dimostrare che la pretesa dell’Inps era priva di concreta base probatoria essendo incentrata solo sulle vicende personali del consulente della società, L.D.G., vicende che non erano pertinenti rispetto ai presupposti degli obblighi contributivi pretesi dall’Inps; quindi i presupposti di tali obblighi non sarebbero stati provati in concreto ma solo per via di ragionamenti presuntivi.
1.1. Sotto altro profilo, si deduce la violazione dell’art. 2094 cod. civ. con riferimento agli artt. 112 e 115 cod. proc. civ. in quanto l’INPS non avrebbe fornito la prova della sussistenza dei rapporti di lavoro a cui accedono le pretese contributive.
2. Con il secondo motivo, si denuncia la mancata valutazione del fatto controverso, allegato in atti, costituto dalla valutazione della liceità dell’appalto. In particolare, la ricorrente deduce che con l’abolizione della legge n. 1369 del 1960 il legislatore avrebbe inteso e voluto ampliare il campo d’applicazione dell’appalto lecito di manodopera, imponendo con l’art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003, al fine di individuare l’appalto lecito, due criteri flessibili di valutazione costituiti dall’accertamento della presenza dell’organizzazione dei mezzi produttivi e del rischio d’impresa. Pertanto, nel caso di specie, (appalto endoaziendale con prevalente apporto di manodopera) il mero elemento organizzativo non avrebbe dovuto assumere rilievo determinante dovendosi, invece, guardare anche all’altro elemento essenziale del rischio d’impresa; dunque, nonostante fosse stato provato attraverso la prova testimoniale che i lavoratori, dipendenti da reali imprese straniere, lavoravano in zone dedicate del cantiere e con orari differenti dal resto del personale, la sentenza impugnata avrebbe del tutto trascurato tali elementi.
3. I tre motivi, connessi e quindi da trattare congiuntamente, sono infondati.
3.1. E’ opportuno precisare i termini con i quali la giurisprudenza di legittimità ha delineato i contenuti della disciplina degli appalti di manodopera a seguito della introduzione del decreto legislativo n. 276 del 2003 e dell’abrogazione della legge n. 1369 del 1960. In particolare, (Cass. n. 15557 del 2019; Cass. 12664 del 2003; Cass. 30694 del 2018) si è affermato che:
l’art. 29, primo comma, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, pur nella ridefinizione dei confini del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, esteso ad ogni attività di lavoro subordinato dalla legge 23 ottobre 1960 n. 1369, art. 1 (poi abrogata dall’art. 85, comma 1, lettera c, del d.lgs. n. 276 del 2003), ha ribadito la sostanza del divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, dettando la disciplina degli strumenti leciti all’interno della vicenda interpositoria (appalti, somministrazione, distacco), nonché quella sanzionatoria nelle ipotesi di somministrazione irregolare e appalto non genuino;
l’impianto sanzionatorio previsto dal d.lgs. n. 276 del 2003 consente al lavoratore, sia nelle ipotesi di somministrazione irregolare (stipulata “al di fuori dai limiti e delle condizioni” previste, art. 27), sia nelle ipotesi di appalto fittizio (“stipulato in violazione” di legge, art. 29, comma 3-bis), la proposizione di un ricorso giudiziale notificato, anche soltanto nei confronti del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, con cui richiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione o dell’appalto non genuini (Cass. S.U. n. 2990 del 2018, in motivazione);
pur a seguito dell’abrogazione espressa della legge n. 1369 del 1960, ad opera dell’art. 85 d. lgs. n. 276 del 2003, che ha introdotto una regolamentazione dettagliata della somministrazione di lavoro, permane l’impianto fondamentale del divieto di interposizione al di fuori dei casi consentiti e così il primo comma dell’art. 29, primo comma, del d. lgs. 276 del 2003 nei definire il contratto di appalto (genuino) rispetto a quello di somministrazione di lavoro, disciplinato dagli artt. 20-28 dello stesso decreto, richiama i due principali elementi che per la disciplina di cui all’art. 1655 cod. civ. caratterizzano il contratto di appalto, ossia la permanenza in capo all’appaltatore dell’esercizio dei potere direttivo e organizzativo nei confronti dei dipendenti utilizzati nell’appalto e l’assunzione del rischio di impresa;
del resto, effettivamente, con l’abrogazione della I. n. 1369/1960 ad opera dell’art. 85 lett. c) del d.lgs. n. 276/2003, ha perso rilievo essenziale la circostanza che capitali, macchine o attrezzature siano fornite dall’appaltante, circostanza cui in precedenza la legge n. 1369/60 collegava la presunzione assoluta in ordine alla sussistenza di un’interposizione vietata di manodopera, presunzione che operava solo quando il conferimento di mezzi fosse di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l’apporto dell’appaltatore, con la conseguenza che, come ora previsto dall’art. 29, co. 1, del d.lgs. n. 276/2003, l’organizzazione dei mezzi può risultare anche dal mero esercizio del potere organizzativo e del potere direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto per la realizzazione dell’opera o per la effettuazione del servizio;
dunque, l’appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, previsto dall’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza che l’appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell’appaltatore; per verificare la genuinità del contratto d’appalto, possono senz’altro richiamarsi i principi espressi dalla giurisprudenza formatasi nella vigenza della legge n. 1369 del 1960, ed in particolare,va ricordato che questa Corte ha affermato che, qualora venga prospettata una intermediazione vietata dì manodopera nei rapporti tra società dotate entrambe di una propria organizzazione, ciò che è essenziale, per la sussistenza di un vero e proprio contratto di appalto, è che i lavori appaltati siano effettivamente svolti da un soggetto che abbia concretamente la forma e la sostanza di una impresa, sia con riguardo al profilo tecnico, sia sotto l’aspetto strettamente economico ed organizzativo.
4. Ciò premesso, avendo riguardo alla fattispecie in esame, la sentenza impugnata, rispettando gli arresti della giurisprudenza in materia, pur convenendo sulla diversità dell’oggetto delle responsabilità penali del consulente della società ricorrente (L.D.G.) rispetto all’accertamento della fattispecie di interposizione, ha ricavato il giudizio sulla esistenza di tale fattispecie, escludendo anche che ricorresse una forma di distacco del personale per il quale non si era evidenziato alcun interesse delle imprese asseritamente distaccanti, attraverso una corretta interpretazione della normativa ed una ragionata e logica disamina degli elementi di prova acquisiti ai giudizio; in particolare, è stato messo in luce come la fattispecie vietata emergesse dal complesso quadro probatorio, a partire già dalla disamina delle dichiarazioni, rese dallo stesso D.G. nel corso dell’interrogatorio penale del 18 marzo 2008, relative alle richieste di vari imprenditori italiani (tra i quali R.F., liquidatore della ricorrente) al fine di mascherare con apparenti contratti d’appalto le forniture di manodopera; la sentenza ha pure valutato il contenuto della intercettazione telefonica intercorsa con lo stesso R.F., nonché le dichiarazioni, rese a verbale il 17 febbraio 2006, dalla signora S.V. che hanno reso evidente l’inconsistenza di una effettiva organizzazione d’impresa in Croazia della società P.F., e delle società ulteriori tutte riconducibili oltre che al D.G. a tale sig. K., posto che non vi era una sede, né uno stabilimento produttivo, né macchinari, attrezzature o dipendenti sia tecnici che amministrativi.
4.1. La sentenza si è, inoltre, soffermata sulla inopponibilità all’Inps della scelta dei lavoratori, in fatto dipendenti della odierna ricorrente, di non chiedere l’accertamento giudiziale ex art. 27, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003, della sussistenza di tale rapporto di lavoro e, comunque, sulla nullità dell’ipotetico rapporto di somministrazione di lavoro in quanto privo di forma scritta. Ha pure esaminato in dettaglio le dichiarazioni rese alla Guardia di finanza da I.S., C.V., A.Z., M.F., G.V. e M.C., sentiti in epoca vicina ai fatti di causa e poi,almeno alcuni degli stessi, nuovamente come testi in primo grado; da tali dichiarazioni la sentenza impugnata ha tratto conferma del fatto che i lavoratori stranieri inviati formalmente da P. o dalle società dei gruppo K. erano inseriti nei ciclo produttivo delle ditte facenti capo a R.F., tra I quali P. s.r.l., e che erano i responsabili dei vari reparti di tale società a decidere quali operai destinare alle varie lavorazioni, scegliendoli in base alle specifiche professionalità di ciascuno ed ai tempi di realizzazione della commessa, secondo le richieste dei responsabili della medesima società; peraltro, l’unico dato rilevante nel rapporto tra P. s.r.l. e le ditte straniere era costituito dalle ore di lavoro effettivamente prestate dai lavoratori formalmente dalle stesse dipendenti, senza che fossero mai state eseguite misurazioni di opere realizzate o redatti stati di avanzamento.
Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto nel terzo motivo di ricorso, la Corte territoriale ha espressamente considerato l’irrilevanza della circostanza che i dipendenti stranieri operassero di solito in una zona specifica del capannone, posto che si tratta di un dato meramente spaziale riferito al tipo di lavorazione svolta, e che svolgessero orari in parte diversi, dato l’interesse ad intensificare la prestazione per far ritorno in patria, o, ancora, che le società straniere possedessero alcune saldatrici, peraltro vecchie ed in disuso, e che fossero obbligate e rimediare ad eventuali errori esecutivi dei lavoratori in questione, non risolvendosi tale circostanza con il rischio d’impresa.
5. A fronte di tale analitica disamina delle fonti di prova acquisite, è evidente che con i motivi di ricorso sostanzialmente si sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda (non consentita in sede di legittimità) affinché si fornisca un diverso apprezzamento delle prove (e così in particolare di talune deposizioni testimoniali) ed in particolare si addivenga ad una differente valutazione (nel senso auspicato dalla ricorrente) dell’importanza attribuita, nel contesto della regolamentazione dei rapporti intercorsi tra la P. s.r.l. e le società straniere, alla prevista utilizzazione da parte della società appaltatrice dei mezzi forniti dall’appaltante.
6. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo in favore del contro ricorrente.
Non si deve, invece, provvedere nei riguardi di Equitalia Nord s.p.a. rimasta intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 11000,00 per compensi, oltre ad euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, d.P.R.115/2002, dichiara sussistenti i presupposti per il versamento, a carico della ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art. 13, comma 1-bis.
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