CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 maggio 2018, n. 13483
Collocamento obbligatorio – Atto di avviamento illegittimo – Conseguenze – Risarcimento del danno
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Roma ha accolto parzialmente l’appello di A. P. avverso la sentenza del locale Tribunale che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti del Ministero del Lavoro ed ha condannato l’appellato al pagamento della somma di € 40.288,15, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria.
2. La Corte territoriale ha premesso che il P., iscritto nelle liste del collocamento obbligatorio, era stato avviato al lavoro il 3 ottobre 1997 e, a seguito del rifiuto opposto dalla Società T., aveva agito nei confronti di quest’ultima per ottenere l’assunzione ed il risarcimento dei danni, ma il giudizio si era concluso negativamente, perché la Corte di Appello di Roma aveva accertato che nessuna richiesta di avviamento era stata formulata dalla società. Ha aggiunto che il Ministero, dopo avere illegittimamente avviato l’appellante al lavoro, lo aveva cancellato dalle liste, sicché il P. era rimasto disoccupato, anche perché non aveva, dopo il rifiuto, sollecitato la reiscrizione, pur potendo farlo quanto meno a far tempo dall’entrata in vigore della legge n. 68/1999, che aveva soppresso il limite del compimento del 55° anno di età.
3. Il giudice di appello ha evidenziato che il lavoratore iscritto nelle liste del collocamento obbligatorio, se erroneamente avviato al lavoro dal competente ufficio ministeriale e non automaticamente reiscritto, ha diritto al risarcimento del danno derivato dalla mancata reiscrizione e dalla conseguente perdita di chances. Ha però osservato che il P., seppure in pendenza del giudizio contro la società T., avrebbe potuto attivarsi, quanto meno a far tempo dal gennaio 2000, e se lo avesse fatto verosimilmente nell’arco di un anno sarebbe stato nuovamente avviato al lavoro. Ha quindi ritenuto di limitare il risarcimento al periodo novembre 1997/dicembre 2000, perché il danno risarcibile è solo quello riconducibile in modo immediato e diretto al comportamento illegittimo e perché ai sensi dell’art. 1227, comma 1, cod. civ. il concorso del creditore nella causazione del danno riduce proporzionalmente la responsabilità del debitore.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla base di quattro motivi, ai quali ha resistito con controricorso A. P., che ha proposto ricorso incidentale affidato ad un’unica censura.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso principale il Ministero denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ., perché la Corte di Appello di Roma, nel ritenere pacificamente acquisita al giudizio l’illegittimità dell’atto di avviamento al lavoro, non ha considerato che il giudicato non può fare stato nei confronti di soggetto che non sia stato parte del giudizio.
2. La seconda censura del ricorso principale denuncia, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti e rileva che il giudice di appello avrebbe dovuto esaminare la nota del 26 novembre 1996, con la quale la società Nuova T. aveva richiesto all’Ufficio Provinciale del Lavoro che «in ragione della specificità dell’attività svolta dall’azienda, fossero avviati al lavoro soltanto laureati in ingegneria elettronica e in ingegneria fisica». In tal modo la società aveva espresso la volontà di ottenere l’avviamento, sicché nessun addebito poteva essere mosso al Ministero.
3. Con la terza critica il ricorrente principale si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 cod. civ. in quanto la costituzione tardiva non impediva al giudice di tener conto della colpevole inerzia del creditore nell’evitare l’aggravamento del danno. L’eccezione di cui al secondo comma della norma richiamata non è riservata al debitore, ma può essere rilevata d’ufficio, giacché il potere/dovere del giudice di considerare i fatti estintivi, impeditivi e modificativi del diritto azionato si estende a tutti i fatti che risultino dagli atti del processo, salve deroghe espresse del legislatore.
4. Il quarto motivo del ricorso principale addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1225 e 1227 cod. civ. e rileva che ai fini della quantificazione del danno non potevano essere utilizzati i criteri seguiti dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi dell’inadempimento all’obbligo di assunzione. Infatti in caso di errato avviamento al lavoro l’amministrazione può rispondere solo di un danno da perdita di chances, da liquidare equitativamente sempre che la parte fornisca la prova dell’esistenza di un pregiudizio subito. In particolare era onere del P. dimostrare che in assenza della condotta postulata illegittima, si sarebbe addivenuti alla costituzione di un rapporto di lavoro, con margini di assoluta certezza. Andava, inoltre, valutata l’incidenza di eventi capaci di incidere sul trattamento retributivo e sulla durata del rapporto di lavoro. La Corte inoltre avrebbe dovuto considerare che a fronte di un atto di avviamento dell’ottobre 1997 solo nel luglio 2008 l’attore, che non aveva mai impugnato la cancellazione né chiesto il ripristino della iscrizione, aveva agito in giudizio.
5. Il ricorso incidentale denuncia «violazione e falsa applicazione di norme di diritto I. 12/3/1999 n. 68; insufficiente e contraddittoria motivazione» e rileva che la Corte avrebbe dovuto considerare che solo a seguito della pubblicazione della sentenza n. 2003/2005 della Corte di Appello di Roma il P. aveva acquisito consapevolezza della illegittimità dell’atto di avviamento al lavoro che lo riguardava, sicché prima del 4 gennaio 2006 non gli sarebbe stato possibile richiedere una nuova iscrizione nelle liste. Il danno doveva essere quantificato in misura corrispondente alle retribuzioni maturate quanto meno sino al gennaio 2006 ed inoltre doveva tener conto anche del mancato versamento dei contributi previdenziali obbligatori per legge necessario ai fini della costituzione della pensione.
6. Il primo motivo di ricorso è inammissibile perché non coglie la ratio della decisione, fondata non sulla efficacia vincolante del giudicato, bensì sul principio di non contestazione.
La Corte territoriale, infatti, ha precisato che le circostanze emerse nel giudizio intentato dal P. nei confronti della T., poste dall’appellante anche a fondamento della diversa azione intentata nei confronti del Ministero, potevano ritenersi pacifiche, in quanto da quest’ultimo non contestate ( pag. 2 della sentenza).
La censura, con la quale si denuncia la violazione dell’art. 2909 cod. civ. e si sostiene che il giudice di appello non avrebbe considerato che il Ministero era rimasto estraneo a quel giudizio, difetta della necessaria riferibilità alla motivazione della sentenza impugnata e, pertanto, non può essere scrutinata giacché «la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366, comma primo, n. 4 cod. proc. civ..» (Cass. n. 17125/2007, Cass. n. 20652/2009, Cass. n. 4036/2011 e fra le più recenti Cass. nn. 3331 e 5993/2018).
7. Parimenti inammissibile è il secondo motivo, formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n.6 e 369 n. 4 cod. proc. civ..
Il ricorrente, infatti, pone a fondamento della doglianza la nota inviata dalla società T. all’Ufficio Provinciale del Lavoro di Roma in data 26 novembre 1996, ma non riproduce nel ricorso il contenuto del documento né indica da chi, quando e con quali modalità il documento stesso è stato prodotto.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che l’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006, oltre a richiedere l’indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto; tale prescrizione va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., per cui deve ritenersi, in particolare, soddisfatta: a) qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purché nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile; b) qualora il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l’indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di controparte, pur se cautelativamente si rivela opportuna la produzione del documento, ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., per il caso in cui la controparte non si costituisca in sede di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o lo produca senza documento; c) qualora si tratti di documento non prodotto nelle fasi di merito, relativo alla nullità della sentenza od all’ammissibilità del ricorso (art. 372 p.c.) oppure di documento attinente alla fondatezza del ricorso e formato dopo la fase di merito e comunque dopo l’esaurimento della possibilità di produrlo, mediante la produzione del documento, previa individuazione e indicazione della produzione stessa nell’ambito del ricorso (Cass. S.U. 2.10.2008 n. 28547, Cass. S.U. 25.3.2010 n. 7161 e negli stessi fra le più recenti Cass. n. 27475/2017 e Cass. n. 5478/2018).
In difetto di dette necessarie specificazioni la censura non può essere valutata.
7.1. Si deve poi aggiungere che all’esito delle modifiche apportate all’art. 360 cod. proc. civ. dal d.l. n. 83 del 2012 «il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante.» ( Cass. n. 11892/2016).
Infatti, in relazione alle sentenze pronunciate dopo l’entrata in vigore del d.l. 22.6.2012 n. 83, convertito nella legge 7.8.2012 n. 134, l’errore commesso nella valutazione delle risultanze di causa è rilevante solo qualora si sia tradotto nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione fra le parti, che il ricorrente è tenuto a denunciare, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., indicando il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” ( Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053).
Nel caso di specie il ricorrente, pur denunciando nella rubrica l’omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio, in realtà si duole della mancata considerazione del contenuto di un documento, ritenuto idoneo a provare la richiesta di avviamento inoltrata dalla società T., richiesta che, invece, la Corte territoriale ha escluso per le ragioni evidenziate nel punto che precede.
La censura confonde il «fatto», esaminato dalla Corte territoriale, con il mezzo istruttorio destinato a provarlo, la cui omessa considerazione non rileva ai fini della configurabilità del vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.
8. Il quarto motivo va esaminato con priorità rispetto al terzo, perché sollecita una pronuncia sulla natura del danno che deriva dall’illegittimità dell’atto di avviamento al lavoro e dalla conseguente cancellazione dalle liste.
La censura, con la quale si addebita alla Corte territoriale di non avere tratto le giuste conseguenze dalla pur corretta qualificazione del danno in termini di perdita di chance, è fondata.
Occorre premettere che in materia di assunzione obbligatoria la posizione giuridica dell’invalido che lamenti, nei confronti della P.A., di essere stato illegittimamente cancellato dalle liste, o di non essere stato reiscritto tempestivamente, non può essere confusa con quella del soggetto che, avviato al lavoro, faccia valere l’illegittimità del rifiuto all’assunzione, perché solo in quest’ultimo caso, nel quale si configura una responsabilità contrattuale, l’inadempienza consiste nella mancata instaurazione del rapporto ed il pregiudizio patrimoniale sofferto dal lavoratore può essere in concreto determinato, senza bisogno di una specifica prova, sulla base delle utilità economiche che l’avviato al lavoro avrebbe potuto conseguire, ove tempestivamente assunto.
Il danno conseguente alla illegittima cancellazione dalle liste, invece, è un tipico danno da perdita di chance, perché il comportamento illegittimo della P.A. incide sulla possibilità del soggetto di ottenere un nuovo avviamento ( Cass. n. 9472/2003 e Cass. 18207/2014).
Questa Corte ha da tempo evidenziato che la chance, intesa come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, per cui se, da un lato, la perdita di chance configura un danno concreto ed attuale, dall’altro, però, detto danno non coincide con il risultato utile al quale si aspirava e va, quindi, commisurato alla probabilità di conseguire il bene al quale aspirava il danneggiato (cfr. Cass. n. 4400/2004 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione).
Ciò comporta che grava sul ricorrente l’onere di provare, anche per mezzo di dati valorizzabili ai fini del ragionamento presuntivo, la probabilità di ottenere il risultato utile sperato (cfr. in motivazione Cass. n. 9472/2003, Cass. S.U.23.9.2013 n. 21678, Cass. 1.3.2016 n. 4014). Ove detto onere sia stato assolto il danno, che non coincide con le retribuzioni perse, va liquidato in via equitativa (cfr. Cass. n. 9392/2017; Cass. n. 24295/2016; Cass. n. 10030/2015; Cass. n. 18207/2014) ed a tal fine l’ammontare delle retribuzioni perse può costituire un parametro ( Cass. n. 18207/2014 cit.), ma occorre comunque tener conto del grado di probabilità (Cass. nn. 4014/2016; 5119/2010; 14820/2007; 2167/1996) e della natura del danno da perdita di chance che «è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale» ( Cass. n. 2737/2015).
A detti principi di diritto non si è attenuta la Corte territoriale che ha fatto discendere automaticamente il diritto al risarcimento del danno dalla ritenuta illegittimità del provvedimento di cancellazione, senza fare cenno alle probabilità di impiego che il P. avrebbe avuto qualora fosse rimasto iscritto, ed inoltre ha ritenuto che il danno coincidesse con le retribuzioni perse.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto sopra richiamati e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Restano conseguentemente assorbiti il terzo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale.
Non sussistono le condizioni richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
Accoglie il quarto motivo del ricorso principale, assorbito il terzo, e rigetta gli altri motivi. Assorbe il ricorso incidentale.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso ed al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
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