CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 giugno 2020, n. 13101
Tributi – IVA – Credito indicato in dichiarazione in misura eccedente quella spettante – Mancato utilizzo – Assenza del danno erariale – Sanzioni – Esclusione
Fatti di causa
Dalla esposizione in fatto della pronuncia censurata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a D.N.C. s.r.I., una cartella di pagamento con la quale era stato contestato, relativamente all’anno di imposta 2005, l’omesso versamento Ires e Iva, con conseguente richiesta di pagamento delle maggiori imposte dovute, oltre sanzioni e interessi; avverso il suddetto atto impositivo la società contribuente aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Milano; avverso la suddetta pronuncia l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: con riferimento alla maggiore Ires, la pretesa era fondata in quanto la società contribuente aveva omesso di dichiarare l’utilizzo dell’eccedenza di imposta mediante modello F24, indicando, quindi, un credito superiore rispetto a quello effettivamente spettante; con riferimento alla maggiore Iva, la società aveva dichiarato un totale a credito superiore rispetto a quello versato, avendo omesso il versamento dell’Iva a debito relativa al mese di dicembre 2005; non potevano essere oggetto di esame questioni relative ad ulteriori errori commessi dalla società contribuente nelle successive dichiarazioni in quanto non erano state dedotte in primo grado sicchè le relative eccezioni erano da considerarsi inammissibili; non interessava il merito della vicenda la prospettata possibilità che si sarebbe potuto rettificare al ribasso l’ultimo credito Iva spettante alla contribuente o il rimborso richiesto con il modello VR relativo all’anno 2008.
Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso D.N.C. s.r.I., liquidata e cancellata, in persona del legale rappresentante pro tempore e del procuratore alle liti del socio unico C. INT PLC, affidato a quattro motivo di censura, illustrati con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Con ordinanza del 10 luglio 2019 la Corte ha disposto il rinvio a nuovo ruolo per la eventuale trattazione della causa in pubblica udienza.
Ragioni della decisione
Preliminarmente, va disattesa l’eccezione dell’Agenzia delle entrate di inammissibilità del ricorso in quanto proposto da soggetto non più esistente poichè cancellato dal registro delle imprese e quindi estinto, atteso che il ricorso risulta proposto dal socio unico C. INT PLC della società D.N.C. s.r.I., con conseguente applicazione del principio, più volte affermato da questa Corte (Cass. civ., 5 dicembre 2018, n. 31442) secondo cui, «Avuto riguardo alla legittimazione ad impugnare, in tema di contenzioso tributario, qualora l’estinzione della società di capitali, all’esito della cancellazione dal registro delle imprese, intervenga in pendenza del giudizio di cui la stessa sia parte, l’impugnazione della sentenza resa nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta, in quanto il limite di responsabilità degli stessi di cui all’art. 2495 c. c. non incide sulla loro legittimazione processuale ma, al più, sull’interesse ad agire dei creditori sociali).
Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, nonché ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 30, d.P.R. n. 633/1972, per non avere considerato che la società contribuente aveva provveduto ad una ricostruzione del credito Iva da cui risultava che quello indicato nella dichiarazione era inferiore a quello effettivo, nonché per non avere considerato che, comunque, il credito Iva indicato non era stato utilizzato, sicché non era derivato alcun danno all’erario.
Con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma primo e terzo, della legge n. 212/2000, per non avere considerato che l’amministrazione finanziaria non aveva contestato la ricostruzione operata sull’effettiva entità del credito Iva operata dalla contribuente da cui risultava che il suddetto credito era più elevato di quello indicato nella dichiarazione.
I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla questione della legittimità della pretesa in relazione al mancato utilizzo del credito da parte della società contribuente, sono fondati.
Questa Corte (Cass. civ., 24 maggio 2019, n. 14178; Cass. civ. 3 febbraio 2017, n. 2882) ha affermato il principio per il quale «in tema di IVA, ove il contribuente, dopo aver utilizzato parzialmente un relativo credito mediante compensazione con altro tributo, negli anni successivi continui a dichiararlo in misura superiore alla residua parte spettante, non è configurabile una violazione equiparabile all’indebito o fraudolento uso di tale credito se all’irregolarità formale della dichiarazione non segua il mancato versamento di imposte, cui solo è riconducibile un concreto danno erariale, non potendo ipotizzarsi un tentativo di illecito fiscale qualora il contribuente tenga una condotta in buona fede e non ponga in essere atti diretti all’utilizzo del maggior credito erroneamente riportato nelle dichiarazioni successive».
Il principio in esame si fonda sulla considerazione che la mera irregolarità relativa alla dichiarazione del credito Iva non può concretizzare un effettivo illecito avente ad oggetto il mancato versamento di imposte, occorrendo che l’illecito sussista effettivamente e che abbia causato un concreto danno erariale.
Nella specie, il giudice del gravame ha affermato che la pretesa dell’amministrazione finanziaria era da considerarsi legittima per il solo fatto che la società contribuente aveva esposto un credito Ires e Iva maggiore di quello dovuto, quindi inesistente e soggetto a potenziale consolidamento, non rilevando la circostanza che la società contribuente potesse provvedere ad una rettifica al ribasso del credito o a un minore rimborso.
Si tratta di una motivazione chiaramente insufficiente alla luce del principio di diritto sopra affermato, in quanto la stessa non ha valutato le circostanze dedotte da parte ricorrente, in particolare il fatto se dalla documentazione prodotta nei gradi di merito, al di là dell’errore commesso, risultava un credito Iva maggiore di quello dichiarato e se, comunque, la società, in sede di liquidazione, aveva richiesto un rimborso per un credito inferiore a quello dichiarato (pag. 5, ricorso, primo periodo), in modo da accertare la condotta di buona fede della contribuente e l’insussistenza di un danno concreto, tenuto conto del fatto che il credito Iva illegittimamente esposto non sarebbe stato utilizzato dalla società contribuente.
Con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 57, decreto legislativo n. 546/1992, per avere ritenuto che la ricostruzione del credito per gli anni successivi a quello oggetto di controllo costituisse domanda nuova, mentre doveva essere considerato quale atto difensivo finalizzato a dar prova della propria buona fede e della correttezza del proprio operato.
Il motivo è fondato.
Nella sentenza del giudice del gravame, in sede di svolgimento del processo, si dà atto della circostanza che il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso avendo ritenuto accoglibili le giustificazioni rappresentate dalla ricorrente degli errori da essa commessi nella compilazione delle dichiarazioni.
La ricorrente, nel presente ricorso, in osservanza del principio di specificità, ha precisato che la ragione del ricorso originario proposto era relativo, fra l’altro, al mancato utilizzo del credito Iva e Ires indicato in dichiarazione, procedendo, a tal fine, ad una minuziosa ricostruzione del credito Iva dimostrando che il credito indicato in dichiarazione era anche più basso di quello effettivo. La circostanza, dunque, del mancato utilizzo del credito Iva nonché della insussistenza del danno erariale aveva costituito motivo di contestazione della pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria.
Sotto tale profilo, non correttamente il giudice del gravame ha ritenuto che le vicende relative a altri errori commessi nelle successive dichiarazioni da parte della ricorrente non potevano essere esaminate perché non dedotte in primo grado e le relative eccezioni sollevate per la prima volta nel giudizio di appello.
Ed invero, si ha domanda nuova o eccezioni nuove, inammissibili in appello, quando gli elementi dedotti in secondo grado comportano il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato ovvero delle eccezioni prospettate in primo grado, in quanto fondati su situazioni giuridiche prima non prospettate, poiché in tal caso si introduce, in modo inammissibile, un nuovo tema di indagine.
La circostanza, quindi, che, nell’ambito della ragione di doglianza proposta in primo grado, parte ricorrente aveva introdotto ulteriori elementi di prova al fine di sostenere la tesi, già proposta in primo grado, della sussistenza di un proprio credito effettivo in misura superiore a quello dichiarato e, quindi, della mancanza di danno erariale anche in relazione alla ricostruzione del proprio credito per gli anni successivi, non costituisce domanda nuova.
Con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per non avere pronunciato sulla eccezione di parte ricorrente in ordine alla illegittimità della cartella di pagamento per mancata indicazione delle modalità di calcolo degli interessi.
Il motivo di ricorso in esame è assorbito dalle considerazioni espresse in ordine ai precedenti motivi esaminati.
In conclusione, il primo, secondo e terzo motivo sono fondati, assorbito il quarto, con conseguente accoglimento del ricorso e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il primo, secondo e terzo motivo di ricorso, assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
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