CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 luglio 2019, n. 20480
Tributi – Indennità di espropriazione terreno – Ente ecclesiastico dotato di personalità giuridica civile – Rivalutazione del terreno con opzione per l’applicazione dell’imposta sostitutiva sulla plusvalenza – Legittimità – Rimborso della ritenuta d’acconto operata sull’indennità
Fatti di causa
1. L’Istituto diocesano per il sostentamento del clero propone ricorso per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 3250/46/14, depositata l’11 aprile 2014, che ha rigettato l’appello dello stesso contribuente avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli, che aveva rigettato il ricorso del medesimo ente contro il silenzio-rifiuto serbato dall’Amministrazione finanziaria sulla sua istanza di rimborso delle ritenute erariali d’acconto, trattenute dallo I.A.C.P. di Napoli sull’indennità di espropriazione convenuta con l’Istituto diocesano e pagata a quest’ultimo.
2. Infatti, il contribuente aveva proposto all’Agenzia delle Entrate istanza di rimborso dell’importo di euro 142.767,80, trattenuto dallo I.A.C.P., quale sostituto d’imposta ed a titolo di ritenuta d’acconto, sull’indennità dovuta allo stesso Istituto diocesano come indennità, convenuta tra le parti, per l’espropriazione di un terreno di proprietà di quest’ultimo.
Assumeva infatti il contribuente (così come risulta dalla sentenza impugnata) che l’importo in questione era stato indebitamente trattenuto, atteso che lo stesso Istituto diocesano aveva in precedenza optato per la rivalutazione del medesimo immobile oggetto dell’espropriazione, pagando la relativa imposta sostitutiva del 4%, oltre agli interessi, di cui all’art. 1, comma 91, della legge del 24 dicembre 2007, n. 244. Aggiungeva inoltre di non aver riportato il relativo credito, del quale chiedeva il rimborso, nella dichiarazione dei redditi per l’anno 2009.
3. Proposto dal contribuente ricorso, presso la Commissione tributaria provinciale di Napoli, avverso il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione, quest’ultima si era costituita, eccependo (così come risulta dalla sentenza impugnata) che il terreno in questione non poteva essere legittimo oggetto della rivalutazione, ai fini dell’applicazione dell’imposta sostitutiva di cui al citato art. 1, comma 91, della legge n. 244 del 2007, in quanto si trattava di un bene destinato ad attività commerciale ed appartenente ad un ente non commerciale.
Aveva infatti dedotto l’Agenzia delle Entrate che la disciplina applicabile in materia era dettata dall’art. 15, comma 16, del d.l. del 29 novembre 2008, n. 185, convertito, senza modifiche, dalla legge del 28 gennaio 2009, n. 2, e dall’art. 15 della legge del 21 novembre 2000, n. 342, in base ai quali possono beneficiare della rivalutazione i soggetti titolari di reddito d’impresa; ovvero, ma limitatamente ai beni relativi all’attività commerciale, gli enti non commerciali, i quali, pur svolgendo attività commerciali, non abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di queste ultime.
Inoltre, l’Ufficio aveva altresì eccepito che, ove pure il contribuente avesse avuto diritto al rimborso domandato, avrebbe dovuto richiederlo riportando il relativo importo a credito, ciò che non era avvenuto nella dichiarazione dei redditi presentata dall’Istituto diocesano per l’anno 2009.
La CTP ha rigettato il ricorso ritenendo quest’ultima eccezione, relativa alle modalità di esercizio dell’eventuale diritto del contribuente al rimborso, fondata ed assorbente rispetto a quella dell’ammissibilità, nel caso di specie, della rivalutazione del terreno de quo.
4. Avverso la sentenza di primo grado ha proposto appello, dinnanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania, il contribuente, riaffermando il suo diritto al rimborso e la proponibilità della relativa istanza nelle forme di cui all’art. 38 del d.P.R. del 29 settembre 1973, n. 602.
All’esito del contraddittorio con l’Ufficio, la CTR ha rigettato l’appello, ritenendo che, in forza delle disposizioni normative già invocate in primo grado dall’Agenzia delle Entrate, non ricorressero i presupposti soggettivi della rivalutazione del terreno in questione, ai fini dell’applicazione della relativa imposta sostitutiva, non rientrando l’istituto diocesano tra gli enti legittimati ad accedere a tale regime fiscale.
Ritenuto tale motivo ostativo all’accesso alla rivalutazione dell’immobile ed alla relativa imposta sostitutiva, e quindi preclusivo del sorgere del diritto del contribuente al rimborso delle somme trattenute dal sostituto d’imposta sull’indennità incassata dall’Istituto diocesano per l’espropriazione dello stesso bene, la CTR, nella motivazione, ha dichiarato prima esplicitamente assorbita la questione relativa alla forma con la quale l’eventuale rimborso avrebbe dovuto essere richiesto, immediatamente dopo definendo «condivisibile» l’«indicazione … effettuata dalla sentenza di primo grado» sul punto, secondo la quale il contribuente avrebbe necessariamente dovuto riportare il relativo importo a credito nella successiva dichiarazione.
5. Il contribuente propone quindi ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, affidato a due motivi.
6. L’Agenzia delle Entrate è rimasta intimata.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 15 e 16 della legge del 20 maggio 1985, n. 222; dell’artt. 15, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla legge n. 2 del 2009; e dell’art. 15 della legge n. 342 del 2000.
Sostiene il ricorrente che avrebbe errato il giudice a quo nell’escludere, in base alle citate norme, che l’istituto diocesano per il sostentamento del clero fosse legittimato ad accedere alla rivalutazione del terreno in questione, al fine dell’applicazione opzionale dell’imposta sostitutiva della tassazione della plusvalenza successivamente realizzata con l’incasso dell’indennità di espropriazione dello stesso bene, con conseguente diritto dell’espropriato al rimborso della ritenuta d’acconto trattenuta dall’espropriante su tale attribuzione patrimoniale.
1.1. Infatti, secondo il ricorrente, il giudice a quo non avrebbe considerato la natura giuridica dello stesso Istituto diocesano per il sostentamento del clero, che costituisce un ente ecclesiastico dotato di personalità giuridica civile che, proprio ai sensi degli artt. 15 e 16 della legge n. 222 del 1985, annovera tra i suoi compiti sia attività di religione o di culto, sia attività diverse, tra le quali anche quelle commerciali o a scopo di lucro. Invece, sostiene il ricorrente, il giudice a quo, si sarebbe limitato a valutare unicamente lo scopo non dichiaratamente commerciale dell’Istituto, ritenendolo sufficiente ad escludere la sua inclusione sia tra i soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lett. a) e b) del d.P.R. del 22 dicembre 1986, n. 917, richiamato dall’art. 15, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla legge n. 2 del 2009; sia tra i soggetti menzionati nell’art. 15 della legge n. 342 del 2000.
1.2. Il motivo è fondato e va accolto, nei termini che seguono. Al fine dell’inquadramento giuridico della fattispecie, occorre muovere dalla premessa che, come ha dedotto lo stesso ricorrente, gli Istituti diocesani per il sostentamento del clero fanno parte degli enti ecclesiastici che possono essere civilmente riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili, ai sensi degli artt. 21, 22 ed 1-5, della legge n. 222 del 1985.
Il successivo art. 24, comma 1, determina le attività demandate agli Istituti per il sostentamento del clero, stabilendo, per quanto qui interessa, che, dall’ 1 gennaio 1987, ognuno di essi provveda, in conformità allo statuto, ad assicurare, nella misura periodicamente determinata dalla Conferenza episcopale italiana, il congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore della relativa diocesi.
L’art. 27, inoltre, aggiunge che l’istituto centrale e gli altri Istituti per il sostentamento del clero possono svolgere anche funzioni previdenziali integrative autonome per il clero, prevedendo altresì che ogni Istituto diocesano destini, in conformità ad apposite norme statutarie, una quota delle proprie risorse per sovvenire alle necessità che si manifestino nei casi di abbandono della vita ecclesiastica da parte di coloro che non abbiano altre fonti sufficienti di reddito.
Gli artt. 33-36 prevedono ulteriori compiti degli Istituti diocesani per il sostentamento del clero e regolano il funzionamento di questi ultimi sotto diversi aspetti. Appare utile evidenziare, per quanto qui interessa, che l’art. 35, comma 1, in materia di aspetti economici riguardanti il funzionamento dell’Istituto, stabilisce che esso provveda all’integrazione economica eventualmente spettante ai sacerdoti della diocesi con i redditi del proprio patrimonio, salvo l’intervento dell’Istituto centrale nel caso in cui questi ultimi fossero insufficienti. Gli artt. 36-38, infine, disciplinano l’alienazione di beni, ed in particolare anche di immobili, da parte degli Istituti per il sostentamento del clero.
Dal complesso di tali disposizioni si evince pertanto che il legislatore non ha escluso, ed anzi ha presupposto, che l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero possa svolgere, accanto ad attività di religione o di culto, anche ulteriori compiti, ed in particolare anche attività di natura e rilevanza economica e commerciale, finalizzate alla produzione di quei redditi del proprio patrimonio attraverso i quali provvedere ad integrare, se necessario, la remunerazione spettante al clero che svolge servizio in favore della diocesi, per assicurare il congruo e dignitoso sostentamento di ogni sacerdote.
Pertanto, così come dedotto dal ricorrente, l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero si inserisce tra gli enti ecclesiastici, civilmente riconosciuti, che, come previsto dall’art. 15 della legge n. 222 del 1985, possono svolgere, oltre alle attività di religione o di culto descritte dal successivo art. 16, lett. a), ovvero «quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana», anche quelle diverse di cui all’art. 16, lett. b), ovvero «quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro».
L’individuazione delle due categorie di attività, ai fini della relativa disciplina nell’ordinamento civile, ed in particolare per quanto riguarda l’aspetto tributario, deve peraltro tener conto anche di quanto previsto dall’articolo 7, n. 3, dell’accordo del 18 febbraio 1984 tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, cui ha dato ratifica ed esecuzione , con protocollo addizionale, la legge del 25 marzo 1985, n. 121.
Infatti, con riferimento alle attività di religione o di culto, il primo comma di tale disposizione pattizia dispone che: «Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione».
Riguardo invece alle ulteriori attività, il secondo comma dell’art. 7, n. 3, dell’accordo del 18 febbraio 1984, espressamente richiamato dall’ art. 15 della legge n. 222 del 1985, stabilisce che: « Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime».
1.3. Tanto premesso in ordine alla natura ed alle funzioni dell’Istituto ricorrente, deve rilevarsi che, in materia di rivalutazione di beni immobili, l’art. 15, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla legge n. 2 del 2009, dispone che: «I soggetti indicati nell’articolo 73, comma 1, lettere a) e b), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, nonché le società in nome collettivo, in accomandita semplice ed equiparate, che non adottano i principi contabili internazionali nella redazione del bilancio, possono, anche in deroga all’articolo 2426 del codice civile e ad ogni altra disposizione di legge vigente in materia, rivalutare i beni immobili, ad esclusione delle aree fabbricabili e degli immobili alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività di impresa, risultanti dal bilancio in corso al 31 dicembre 2007».
Il successivo comma 19 prevede poi che il saldo attivo della rivalutazione può essere affrancato con l’applicazione di un’ imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, dell’imposta sul reddito delle società, dell’imposta regionale sulle attività produttive e di eventuali addizionali nella misura del 10 per cento da versare con le modalità indicate al comma 23; mentre il comma 20 stabilisce che il maggior valore attribuito ai beni in sede di rivalutazione può essere riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive a decorrere dal quinto esercizio successivo a quello con riferimento al quale la rivalutazione è stata eseguita, con il versamento di un’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, dell’imposta sul reddito delle società, dell’imposta regionale sulle attività produttive e di eventuali addizionali con la misura del 3 per cento per gli immobili ammortizzabili e dell’ 1,5 per cento relativamente agli immobili non ammortizzabili, da computare in diminuzione del saldo attivo della rivalutazione.
I soggetti indicati nell’articolo 73, comma 1, lettere a) e b), del testo unico delle imposte sui redditi, richiamati dalla disposizione appena citata, coincidono con:
a) le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le società europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato;
b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali.
Ovvia l’estraneità dell’Istituto ricorrente rispetto ai soggetti di cui alla lettera a), lo stesso deve dirsi rispetto a quelli di cui alla lettera b), ed in particolare con riferimento agli enti, diversi dalle società, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali.
Infatti, come risulta dalla premessa ricostruzione normativa della natura del ricorrente, e come del resto dedotto espressamente nello stesso ricorso, l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero è un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, che, accanto allo svolgimento di compiti di religione o di culto (o, quanto meno, «di attività dirette a tali scopi», come declina I’ art. 7, n. 3, comma 1, dell’accordo del 18 febbraio 1984), annovera attività diverse, che possono comprendere anche quelle commerciali, che tuttavia non sono esclusive, né prevalenti.
Pertanto, non appare errata la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’applicabilità dell’art. 15, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla legge n. 2 del 2009, in considerazione dell’ estraneità dell’appellante Istituto rispetto ai soggetti legittimati alla rivalutazione da tale disposizione.
1.4. Tuttavia, il comma 23 dell’art. 15 del d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla legge n. 2 del 2009, dispone che per l’attuazione della rivalutazione si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 11, 13 e 15 della legge 21 novembre 2000, n. 342, quelle del decreto ministeriale 13 aprile 2001, n. 162 (attuativo della legge n. 342 del 2000), nonché quelle previste dal decreto ministeriale 19 aprile 2002, n. 86 (emanato in attuazione della disciplina di rivalutazione prevista dall’art. 3, commi 1, 2 e 3 della legge 28 dicembre 2001, n. 448).
Il richiamato art. 15, comma 1, della legge n. 342 del 2000, intitolato «Ulteriori soggetti ammessi alle rivalutazioni», stabilisce che:
«1. Le disposizioni degli articoli da 10 a 14 si applicano, per i beni relativi alle attività commerciali esercitate, anche alle imprese individuali, alle società in nome collettivo, in accomandita semplice ed equiparate e agli enti pubblici e privati di cui all’articolo 87, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, nonché alle società ed enti di cui alla lettera d) del comma 1 dello stesso articolo 87 e alle persone fisiche non residenti che esercitano attività commerciali nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni».
Per effetto del rinvio all’articolo 15 della legge n. 342 del 2000, la rivalutazione deve pertanto ritenersi estesa anche ai soggetti di cui all’art. 87 (ora art. 73), comma 1, lett. c) e d) del TUIR, ovvero, rispettivamente, gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali; e le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato.
Dunque, in forza della norma appena richiamata, rientrano tra i soggetti beneficiari della rivalutazione in questione anche gli enti non commerciali, ovvero quelli che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, categoria dalla quale, per tutto quanto sinora argomentato, non può astrattamente ed apoditticamente sottrarsi, come ha invece ritenuto il giudice a quo, l’Istituto ricorrente, quanto meno nei limiti in cui esso effettivamente svolga anche attività di natura commerciale (quindi diverse da quelle a di religione o di culto, necessariamente proprie dell’ente ecclesiastico). Pertanto il giudice a quo ha errato nell’escludere, a priori e senza alcuna valutazione in concreto delle attività «diverse» che risultino effettivamente svolte dall’ente, il ricorrente dai soggetti ammessi a beneficiare della rivalutazione in questione.
Tuttavia, occorre anche precisare che, per gli enti non commerciali, l’ art. 15, comma 1, della legge n. 342 del 2000, limita, dal punto di vista oggettivo, il ricorso alla rivalutazione ai soli « beni relativi alle attività commerciali esercitate».
Pertanto, l’accertamento del giudice a quo avrebbe dovuto necessariamente estendersi, in concreto, anche all’oggettiva relazione tra il bene oggetto della rivalutazione e le attività commerciali che risultino effettivamente svolte dall’ente ricorrente, questione che peraltro già apparteneva al contraddittorio tra le parti, come risulta dalla stessa sentenza impugnata.
Per effetto dell’accoglimento del primo motivo, la sentenza impugnata va quindi cassata, con rinvio della causa al giudice a quo affinché, effettuati i necessari accertamenti in fatto, provveda a nuova decisione, in base ai principi già illustrati.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 38, comma 2, del d.P.R. del 29 settembre 1973, n. 602 e la falsa applicazione del paragrafo 2.2 della circolare del 6 novembre 2002, n. 81, dell’Agenzia delle Entrate, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3, cod. proc. civ., oltre al «difetto assoluto di motivazione» circa un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento all’art. 360, comma 1, num. 5, cod. proc. civ.
Sostiene il ricorrente che avrebbe errato il giudice a quo nel condividere, senza peraltro motivare le ragioni, l’appellata decisione della CTP, secondo la quale il contribuente avrebbe dovuto «portare a credito la ritenuta subita all’atto dell’erogazione dell’indennità», invece di proporre la domanda di rimborso de qua.
2.1. Il motivo è inammissibile, con riferimento a tutti i vizi e le censure che in esso il ricorrente ha formulato contestualmente.
Infatti, immediatamente dopo (e nonostante) la previa ed espressa dichiarazione di assorbimento della questione delle modalità di proposizione della domanda di rimborso, il giudice a quo, nella motivazione della sentenza impugnata, ha, definito «condivisibile» l’«indicazione [… ] effettuata dalla sentenza di primo grado» sul punto, secondo la quale il contribuente avrebbe necessariamente dovuto riportare il relativo importo a credito nella successiva dichiarazione.
In fattispecie analoga, nella quale il giudice dell’ appello aveva ritenuto assorbita una questione, pur reputandola incidentalmente fondata, questa Corte ha già avuto modo di precisare che è inammissibile, in sede di giudizio di legittimità, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam, e pertanto non costituente una ratio decidendi della medesima (Cass. 10/04/2018, n. 8755).
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo, nei limiti di cui in motivazione; dichiara inammissibile il secondo motivo;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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