CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 maggio 2019, n. 14778
False fatturazioni e alterazioni del bilancio – Atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore – Domanda di risarcimento di danni indiretti
Fatti di causa
F.M. ha agito nei confronti di F.B., P.B., V.G., A.L., per vedersi riconosciuti i danni conseguenti ad attività di mala gestione che questi ultimi avevano causato nell’amministrazione della società I. srl, di cui il M. era socio.
Il ricorrente, in passato, aveva tentato la costituzione di parte civile nei procedimenti penali iniziati a carico dei convenuti, che, in alcuni casi, si erano conclusi con la dichiarazione di prescrizione, ed in altri con l’assoluzione.
Il Tribunale in primo grado ha ritenuto prescritta l’azione, in difetto di atti interruttivi idonei, relativamente ai fatti accaduti tra il 1991 ed il 1998, mentre ha stimato come infondata la domanda di risarcimento dei danni derivanti dalle false fatturazioni e dalle alterazioni del bilancio, in quanto avente ad oggetto danni indiretti non risarcibili ex articolo 2395 cod. civ.
La sentenza di primo grado è stata integralmente, e con le medesime argomentazioni, confermata in appello.
Il M. propone ricorso per Cassazione con tre motivi, con cui denuncia contraddittorietà della motivazione, omesso esame di un fatto interruttivo della prescrizione, ed erronea interpretazione dell’articolo 2395 cod. civ.
V’è costituzione delle controparti, che depositano controricorso e successiva memoria.
Ragioni della decisione
1.- V’è da tenere conto del fatto che la decisione di secondo grado ha sostanzialmente ritenuto infondata la domanda sul presupposto che il ricorrente chiede il risarcimento di danni indiretti, ossia di un tipo di danni che l’articolo 2395 cod. civ. esclude possa esser fatto valere dal socio personalmente.
E’ solo in quanto l’eccezione di prescrizione era stata riprodotta in appello, che la corte di secondo grado la prende in considerazione ritenendola tuttavia “del tutto assorbita” alla luce della infondatezza nel merito della domanda.
Ciò incide necessariamente sull’esame dei motivi di ricorso.
1.- Con i primi due motivi il ricorrente censura proprio il capo di sentenza relativo alla prescrizione. Con il primo motivo assume nullità della sentenza per contraddittorietà evidente della motivazione (art. 360 n. 4 cod. proc. civ.).
Secondo il ricorrente la contraddizione starebbe nel fatto che, mentre nella parte motiva la sentenza ritiene che l’atto interruttivo della prescrizione, consistente nella costituzione di parte civile, non sia stato fatto per i danni patrimoniali (p. 11), ma solo per quelli morali, nella parte in fatto, invece (p. 3), dà atto che la richiesta di risarcimento riguarda anche quelli non patrimoniali.
Questa contraddizione sarebbe rilevante perché, secondo la corte di merito, la pretesa di pagamento di un tipo di danni (non patrimoniali) non vale ad interrompere la prescrizione per altro tipo (danni patrimoniali).
Il motivo tuttavia è infondato, intanto, per quanto si è già detto: la decisione contiene una pronuncia sulla prescrizione solo quale obiter, mentre la vera ratio è nella statuizione secondo cui l’azione per danni indiretti non è proponibile, e che in ciò sta il difetto del diritto, a prescindere dalla sua prescrizione.
Con la conseguenza che, se anche si potesse ritenere la sentenza contraddittoriamente motivata, il vizio riguarderebbe un capo di decisione assolutamente irrilevante, posto che, nella ratio della sentenza di merito, ciò che fonda il rigetto della domanda è che essa riguarda danni indiretti non risarcibili, per via del disposto dell’articolo 2395 cod. civ.
Ma, soprattutto, l’eccezione è infondata, in quanto a prescindere dal tipo di danno per cui era fatta domanda di risarcimento, la decisione impugnata tiene conto del fatto che la costituzione di parte civile non è stata ammessa, con la conseguenza che l’atto di costituzione ha efficacia interruttiva istantanea e non permanente (come sarebbe stato se fosse stata ammessa), così che il corso della prescrizione riprende dal momento del provvedimento che, non ammettendo la detta costituzione di parte civile, priva di efficacia interruttiva o sospensiva la relativa richiesta di risarcimento.
Infondato è anche il secondo motivo, con il quale il ricorrente si duole di una omessa pronuncia (violazione dunque dell’articolo 112 cod. proc. civ.) sulla prospettata esistenza di un atto interruttivo del 2000, di cui la corte non si sarebbe occupata. Si tratta in realtà di un vizio di omesso esame di un fatto controverso, più che di omessa pronuncia, che però ha la sorte del precedente, proprio perché attiene ad un capo di sentenza non rilevante per la decisione.
Ma, a prescindere da ciò, il fatto invocato dal ricorrente non è rilevante per la decisione, nel senso che non avrebbe portato, anche se esaminato, ad una soluzione diversa.
Infatti, con quell’atto, il ricorrente esercitava un’azione surrogatoria per conto di una creditrice della società, e dunque quella pretesa, facendo valere un diritto altrui, non poteva utilmente servire ad interrompere la prescrizione di un diritto proprio.
3.- Con il terzo motivo il ricorrente si duole di una erronea interpretazione dell’articolo 2395 cod. civ.
La tesi dominante in giurisprudenza è che in tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, a norma dell’art. 2395 cod. civ., il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l’azione, contrattuale, di cui all’art. 2394 cod. civ., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell’art. 146 della legge fall. (Cass. 8458/ 2014; Cass. 2157/2016).
La regola costituisce specificazione del principio per cui i soci di una società di capitali non hanno titolo al risarcimento dei danni che costituiscano mero riflesso del pregiudizio arrecato da terzi alla società, in quanto siano una mera porzione di quello stesso danno subito dalla (e risarcibile in favore della) stessa, con conseguente reintegrazione indiretta a favore del socio. (Cass. 27733/2013).
Ciò nel senso che delle condotte che arrecano danno alla società è quest’ultima (o la sua curatela) a doversi dolere, e che la reintegrazione della società nel valore perduto è conseguentemente reintegrazione del socio, per la sua parte.
La corte di appello ha fatto applicazione di tale regola, ritenendo infondata la richiesta di risarcimento in quanto relativa a danni fatti dagli altri soci alla società, attraverso le false fatturazioni e le falsità in bilancio, che solo indirettamente potrebbero costituire pregiudizio per il socio.
Il ricorrente si duole della mancata rivisitazione da parte della corte di appello di un tale consolidato orientamento.
Ma il fatto che la corte lo abbia invece seguito non è di certo censurabile come violazione di legge.
Il ricorso va respinto e le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di lite nella misura di 10.000 euro, oltre 200,00 euro per spese generali.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.
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