CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 maggio 2019, n. 14797
Rapporto di lavoro a tempo pieno – Difetto di forma scritta del contratto part-time – Retribuzioni proporzionate alle prestazioni in concreto eseguite
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 259 pubblicata il 17.3.14, la Corte d’appello di Bologna ha respinto l’appello principale della sig.ra B. e quello incidentale della G. N. F. di L. & C. s.n.c., confermando la sentenza di primo grado che aveva condannato la società datoriale al pagamento, in favore della ex dipendente, della somma di euro 15.410,34 per ferie e permessi non goduti, festività e lavoro domenicale, rigettando la domanda di ulteriori differenze retributive e di indennità di mancato preavviso per l’illegittimità del licenziamento.
2. La Corte territoriale ha accertato come tra le parti fosse intercorso un rapporto di lavoro a tempo pieno dal 21.6.78 al 30.4.94 e plurimi rapporti part-time dall’1.5.94 al 2.9.94. Ha dato atto della domanda della lavoratrice volta ad ottenere la retribuzione parametrata ad un orario full time in ragione del difetto di prova scritta dei rapporti a tempo parziale.
3. Ha affermato come, in ipotesi di nullità per difetto di forma scritta del contratto part-time, prevista ad substantiam dall’art. 5, D.L. n. 726 del 1984, convertito in L. n. 863 del 1984, la lavoratrice avesse unicamente diritto, ai sensi dell’art. 2126 c.c., alle retribuzioni proporzionate alle prestazioni in concreto eseguite, della cui prova dovesse considerarsi onerata, trovando applicazione la giurisprudenza in materia di lavoro straordinario. Ha considerato tale onere non assolto in base alle prove testimoniali raccolte in primo grado, comprensive di quelle rese nel procedimento di opposizione a ruolo ed acquisite dal primo giudice.
3. La Corte d’appello ha respinto la domanda di indennità sostitutiva del preavviso sul rilievo che le dimissioni della lavoratrice non fossero assistite da giusta causa, ed ha respinto la domanda di risarcimento del danno da mancata regolarizzazione contributiva in quanto legata al presupposto del raggiungimento dell’età pensionabile in concreto non realizzato.
4. Ha dichiarato infondato l’appello incidentale della società poiché le differenze retributive riconosciute derivavano da errori risultanti dalle buste paga, accertati contabilmente tramite c.t.u..
5. Avverso tale sentenza la sig.ra B. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, illustrati da successiva memoria.
6. La società è rimasta intimata.
7. La causa, originariamente fissata in adunanza camerale, è stata rinviata alla pubblica udienza.
Ragioni della decisione
1. Col primo motivo di ricorso la sig.ra B. ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c., anche in relazione all’art. 2697 c.c.
2. Ha sostenuto, richiamando precedenti di legittimità, come in caso di nullità del contratto part-time il lavoratore abbia diritto alla retribuzione commisurata al tempo pieno ove dimostri di aver messo a disposizione del datore di lavoro le proprie ulteriori energie lavorative (Cass. n. 4811 del 1991) e, comunque, che ove il lavoratore part-time abbia svolto un orario di lavoro superiore a quello indicato nel contratto, l’orario di lavoro debba essere considerato corrispondente a quello di un contratto full time (Cass. n. 12720 del 2006).
3. Ha criticato la decisione della Corte di merito laddove ha addossato alla lavoratrice l’onere di provare le prestazioni in concreto eseguite, come se si trattasse di dimostrare lo svolgimento di lavoro straordinario.
4. Col secondo motivo la ricorrente ha dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 24 Cost., sia separatamente che in combinato disposto, per avere la sentenza di primo grado, non emendata sul punto dalla sentenza d’appello, utilizzato elementi di prova raccolti nel separato procedimento (R.G. n. 500/2006) instaurato dalla società nei confronti dell’Inps per opposizione alla cartella di pagamento, in cui la B. non era parte; inoltre, per aver considerato la sentenza emessa nella suddetta causa previdenziale alla stregua di un giudicato esterno, in assenza dei necessari presupposti e in violazione del diritto di difesa della lavoratrice.
5. Col terzo motivo la ricorrente ha criticato la decisione di secondo grado, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la Corte di merito fatto leva sulla divergenza tra la versione dei fatti resa dalla B. dinanzi alla D.P.L. e quella riportata nel ricorso introduttivo della lite.
6. Col quarto motivo la ricorrente ha dedotto, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c.. Ha sostenuto che, ove anche si ritenesse che la Corte d’appello abbia utilizzato le testimonianze raccolte nel procedimento di opposizione a cartella di pagamento e il contenuto della richiesta di intervento alla D.P.L. quali meri elementi indiziari, risulterebbe comunque violato l’art. 2729 c.c. mancando i requisiti di gravità, precisione e concordanza necessari ad integrare la prova presuntiva.
7. Col quinto motivo la B. ha censurato la sentenza, sempre ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 C.C.N.L. Turismo e Servizi, e dell’art. 36 Cost.. Ha sostenuto come l’affermazione della Corte di merito, secondo cui “il giorno di riposo non goduto veniva retribuito”, si basasse unicamente sulle prove testimoniali contrarie alla tesi della lavoratrice e come tale affermazione fosse contraddetta dalle buste paga da cui non risultava il pagamento dei riposi non goduti.
8. Il primo motivo di ricorso è fondato e deve trovare accoglimento.
9. La questione oggetto di censura attiene alle conseguenze della nullità del contratto part-time per difetto di forma scritta ad substantiam, come prevista dall’art. 5, D.L. n. 726 del 1984, convertito in L. n. 863 del 1984, applicabile ratione temporis.
10. La Corte d’appello ha deciso aderendo ad un orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 4482 del 1991; n. 6487 del 1993; n. 5265 del 1994) che deve considerarsi superato alla luce delle pronunce della Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005 e delle più recenti pronunce di questa Suprema Corte, a cui questo collegio intende dare continuità.
11. La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 210 del 1992, nell’esaminare la questione specifica della nullità della clausola di distribuzione dell’orario part-time priva della necessaria determinatezza, ha affermato principi validi in generale a individuare le conseguenze della nullità del contratto part-time per difetto dei requisiti di contenuto o forma prescritti da norme imperative di legge.
12. Si legge nella sentenza n. 210 (confermata dalla successiva sentenza n. 283 del 2005) che “L’art. 1419, primo comma … non è applicabile rispetto al contratto di lavoro, allorquando la nullità della clausola derivi dalla contrarietà di essa a norme imperative poste a tutela del lavoratore, così come, più in generale, la disciplina degli effetti della contrarietà del contratto a norme imperative trova in questo campo (come anche in altri) significativi adattamenti, volti appunto ad evitare la conseguenza della nullità del contratto.
Ciò, in ragione del fatto che, se la norma imperativa è posta a protezione di uno dei contraenti, nella presunzione che il testo contrattuale gli sia imposto dall’altro contraente, la nullità integrale del contratto nuocerebbe, anziché giovare, al contraente che il legislatore intende proteggere. Così non si dubita che non si estende all’intero contratto la nullità, per motivi di forma o di contenuto, del patto di prova (art. 2096 cod. civ.) o del patto di non concorrenza (art.2125), oppure del patto con cui venga attribuito al datore di lavoro un potere illimitato e incondizionato di variare unilateralmente le mansioni o il luogo di lavoro (art. 2103, secondo comma) ovvero della clausola appositiva di un termine alla durata del contratto di lavoro (legge 18 aprile 1962, n. 230), ovvero della clausola che preveda la risoluzione del rapporto di lavoro in caso di matrimonio (art. 1 legge 9 gennaio 1963, n. 7), e così via. Ed il medesimo assetto si registra anche rispetto a pattuizioni che incidono sullo stesso schema causale del contratto: così è per l’apprendistato (legge 19 gennaio 1955, n. 25 e successive modificazioni) e per il contratto di formazione lavoro (art. 3 decreto- legge 30 ottobre 1984, n. 726 e art. 8 legge 29 dicembre 1990, n.407), posto che la nullità delle relative pattuizioni – per motivi di forma o procedimentali ovvero per difetto delle condizioni sostanziali di ammissibilità di tali figure contrattuali – non è comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne determina la cd. conversione in un “normale” contratto di lavoro (o meglio, la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro, in ragione della inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale) senza che vi si spazio per l’indagine – oggettiva o soggettiva – circa la comune volontà dei contraenti in ordine a tale esito.
Tutto ciò, del resto, rappresenta una naturale e generale conseguenza del fatto che, nel campo del diritto del lavoro – in ragione della diseguaglianza di fatto delle parti del contratto, dell’immanenza della persona del lavoratore nel contenuto del rapporto e, infine, dell’incidenza che la disciplina di quest’ultimo ha rispetto ad interessi sociali e collettivi – le norme imperative non assolvono solo al ruolo di condizioni di efficacia giuridica della volontà negoziale, ma, insieme alle norme collettive, regolano direttamente il rapporto, in misura certamente prevalente rispetto all’autonomia individuale, cosicché il rapporto di lavoro, che pur trae vita dal contratto, è invece regolato soprattutto da fonti eteronome, indipendentemente dalla comune volontà dei contraenti ed anche contro di essa. Non hanno quindi modo di trovare applicazione, in questo campo, quei limiti alla operatività del principio di conservazione del rapporto che sono strettamente collegati all’identificazione nel contratto della fonte primaria del regolamento negoziale, come si verifica nell’ambito della disciplina comune dei contratti. E la violazione del modello di contratto e di rapporto imposto all’autonomia individuale dà luogo, di regola, alla conformazione reale del rapporto concreto al modello prescritto – per via di sostituzione o integrazione della disciplina pattuita con quella legale ovvero per via del disconoscimento di effetti alla sola disposizione contrattuale illegittima – e non già alla riduzione del rapporto reale ad una condizione di totale o parziale irrilevanza giuridica.
L’art. 2126 cod. civ., del resto – come risulta dall’esame della giurisprudenza – ha sempre trovato applicazione rispetto ad ipotesi in cui la nullità del contratto derivava dalla contrarietà a norme imperative riguardanti il fatto stesso della costituzione e dell’esistenza del rapporto (ad esempio, ipotesi in cui l’esercizio di una determinata attività lavorativa era condizionata all’iscrizione in un albo o elenco o al possesso di una determinata autorizzazione; ipotesi in cui l’instaurazione del rapporto era vietata da una norma di legge, come si verifica per le assunzioni senza concorso ove tale procedimento sia prescritto dalla legge a pena di nullità; ipotesi di lavoro prestato da minori di età inferiore a 14 anni; e così via) e non anche ad ipotesi di difformità tra la disciplina del rapporto pattuita dalle parti rispetto a quella dettata dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Deve quindi escludersi che, nell’ipotesi di nullità della clausola di riduzione e distribuzione dell’orario di lavoro che dia al datore di lavoro il potere di variare liberamente e unilateralmente la collocazione temporale della prestazione lavorativa, si possa verificare l’estensione della nullità all’intero contratto.
13. Gli stessi principi sono stati affermati più volte da questa Suprema Corte a proposito della nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro, anche nelle ipotesi disciplinate dal D.Lgs. n. 368 del 2001 e pur in assenza (pure dopo le modifiche apportate dalla L. n. 247 del 2007) di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 1, comma 1, L. n. 230 del 1962 secondo cui “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate.
14. In particolare si è sostenuto (cfr. Cass. n. 7244 del 2014; n. 12985 del 2008) che “l’art. 1 del D.Igs. 6 settembre 2001, n. 368, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria anche nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Ne deriva che, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative, e pur in assenza di una norma che ne sanzioni espressamente la mancanza, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, all’illegittimità del termine, ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso, consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola, pur se eventualmente dichiarata essenziale, e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.
15. A proposito del contratto a tempo determinato, ma secondo principi che si attagliano perfettamente anche all’ipotesi del contratto a tempo parziale, questa Corte (Cass. n. 12985 del 2008) ha precisato come la ratio della previsione della forma scritta risponda all’esigenza di garantire la certezza della natura del contratto, responsabilizzando il consenso del lavoratore; che l’argomento “ubi lex voluit dixit” non può avere un peso decisivo, tanto più se si considera che nel nostro ordinamento il meccanismo della nullità parziale è attuato oggettivamente in funzione del principio della conservazione del rapporto contrattuale, la quale, in sostanza, in generale, costituisce la regola – principio che assume, altresì, una particolare rilevanza nel diritto del lavoro; che vanno ricordati i principi più volte affermati da questa Corte, da un lato, circa il carattere eccezionale della nullità totale (cfr. Cass. n. 10050 del 1996; n. 11248 del 1997), dall’altro, circa la portata della norma di cui al secondo comma dell’art. 1419 c.c.; che in particolare è stato affermato che ai fini dell’operatività della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 1419 c.c. il quale contempla la sostituzione delle clausole nulle di un contratto contrastanti con norme inderogabili, con la normativa legale, non si richiede che le disposizioni inderogabili dispongano espressamente la sostituzione, in quanto “la locuzione codicistica (“sono sostituite di diritto”) va interpretata non nel senso dell’esigenza di una previsione espressa della sostituzione, ma in quello dell’automaticità della stessa, trattandosi di elementi necessari del contratto o di aspetti tipici del rapporto, cui la legge ha apprestato una propria inderogabile disciplina” (cfr. Cass. n. 7822del 1997; n. 6956 del 2001; n. 18654 del 2003, contra cfr. Cass. n. 8794 del 2000; n. 6170 del 2005); che tale indirizzo risulta coerente anche sul piano sistematico (trascurato dalla tesi contraria), in rapporto al principio generale fissato dall’art. 1339 c.c., che ha una portata generale nel quadro della (etero)integrazione della regolamentazione contrattuale; che peraltro questa Corte ha altresì costantemente affermato che la disposizione dell’art. 1419 secondo comma c.c. “impedisce che al risultato dell’invalidità dell’intero contratto possa pervenirsi in considerazione della sussistenza di un vizio del consenso cagionato da errore di diritto essenziale, avente ad oggetto la clausola nulla in rapporto alla norma imperativa destinata a sostituirla, poiché l’essenzialità di tale clausola rimane esclusa dalla stessa prevista sua sostituzione con una regola posta a tutela di interessi collettivi di preminente interesse pubblico” (cfr. Cass. n. 645 del 1999; n. 19156 del 2005); che, oltre a tali argomenti, rilevano, soprattutto, le considerazioni proprie della inderogabilità tipica delle norme poste a tutela dei lavoratori, nel chiaro solco tracciato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 210 del 1992 (confermata, nella sostanza, dalla successiva sentenza n. 283 del 2005).
16. La disciplina introdotta dal D.L. n. 726 del 1984 contiene una serie di previsioni, quali l’obbligo di forma scritta ad substantiam, il diritto di prelazione in favore dei dipendenti part-time, la possibilità di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale solo previo “accordo delle parti risultante da atto scritto, convalidato dall’ufficio provinciale del lavoro sentito il lavoratore interessato”, che denotano il favore del legislatore dell’epoca per il contratto ordinario di lavoro, ed il carattere eccezionale delle forme flessibili ivi previste, risultando logicamente, oltre che giuridicamente, incompatibile in tale contesto la soluzione di nullità totale del contratto, come adottata dalla Corte di merito.
17. Con specifico riferimento al contratto part-time, questa Corte (Cass. n. 24476 del 2011, in motivazione; n. 5330 del 2006) ha già avuto modo di affermare che “la nullità della clausola sul tempo parziale, per difetto di forma scritta, anche sulla scorta delle indicazioni offerte con la sentenza della Corte costituzionale n. 283 del 2005, non implica…l’invalidità dell’intero contratto…e comporta, per il principio generale di conservazione del negozio giuridico colpito da nullità parziale, che il rapporto di lavoro deve considerarsi a tempo pieno“.
Nella sentenza n. 283 del 2005 la Corte Costituzionale aveva ritenuto possibile un’interpretazione costituzionale orientata, già indicata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 210 del 1992, secondo la quale la nullità per vizio di forma della clausola sulla riduzione dell’orario di lavoro non è comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne determina la cd. conversione in un “normale contratto di lavoro”, o meglio determina “la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro, in ragione dell’inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale” (cfr. anche Cass. n. 1375 del 2018; cfr. Cass., S.U. n. 12269 del 2004 che ha esaminato la questione della contribuzione previdenziale applicabile al contratto di lavoro a tempo parziale che abbia avuto esecuzione pur essendo nullo per difetto di forma).
18. Da tali premesse discende che, in caso di nullità del contratto part-time per difetto della forma scritta prevista ad substantiam dal D.L. n. 726 del 1984, art. 5, il rapporto di lavoro debba considerarsi come un ordinario rapporto full time, con conseguente diritto del lavoratore alla retribuzione parametrata ad un orario a tempo pieno, previa messa in mora del datore di lavoro quanto alle residue energie lavorative.
19. Sul tema specifico della necessità della cd. mora accipiendi, è sufficiente richiamare l’ampia elaborazione della giurisprudenza di legittimità che, in base alla regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel contratto di lavoro, ha precisato come la retribuzione spetti al lavoratore soltanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di “mora accipiendi” (cfr. Cass. n. 20316 del 2008; n. 11741 del 2007; n. 24886 del 2006; cfr. anche Cass., S.U. n. 2990 del 2018).
20. Con riferimento alle conseguenze della nullità della clausola appositiva del termine nel contratto di lavoro, nel regime anteriore all’entrata in vigore dell’art. 32, L. n. 183 del 2010, questa Corte (Cass. n. 12333 del 2009 e precedenti ivi richiamati) ha statuito che l’azione del lavoratore diretta a far valere la continuità del rapporto ha natura di azione di mero accertamento dell’effettiva situazione giuridica derivante dalla nullità del termine; che il lavoratore potrà far valere i diritti consequenziali all’accertamento della permanenza in vita del rapporto, di eseguire la prestazione lavorativa riprendendo il suo posto e di ricevere le prestazioni patrimoniali; che in linea con i principi generali dei contratti sinallagmatici, l’obbligazione retributiva costituisce necessariamente (salve le specifiche eccezioni al principio contemplate dalla legge) il corrispettivo della prestazione di lavoro, cosicché, quando la prestazione manchi per causa imputabile al datore di lavoro, il lavoratore può ottenere soltanto il risarcimento del danno (in linea generale, nella misura corrispondente alla retribuzione) subito a causa dell’impossibilità della prestazione cagionata dal rifiuto ingiustificato del datore di lavoro, concretante inadempimento contrattuale ai sensi e per gli effetti dell’art. 1223 c.c.; donde la necessità, per ottenere il risarcimento, che il lavoratore si attivi per offrire l’esecuzione delle prestazioni, costituendo in mora il datore di lavoro nelle forme di cui all’art. 1217 c.c., ossia, “mediante l’intimazione di ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte sua necessari per renderla possibile” o anche “nelle forme d’uso”.
21. Da quanto premesso discende che, in ipotesi di nullità del contratto part-time per difetto dei requisiti di contenuto o forma previsti da norme imperative di legge, deve ritenersi costituito un ordinario rapporto di lavoro full time, previa eliminazione della clausola nulla; con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del danno, commisurato alle differenze retributive rispetto all’orario full time non svolto, solo ove risulti la mora accipiendi di parte datoriale, in coerenza col principio di corrispettività delle prestazioni.
22. Le considerazioni svolte portano ad accogliere il primo motivo di ricorso, risultando assorbiti i residui motivi. La sentenza impugnata deve quindi essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame conformandosi ai principi di diritto sopra richiamati, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti i residui motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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