CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 ottobre 2018, n. 27672
Lavoro – Collaborazione autonoma – Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – Debito contributivo – Accertamento
Fatti di causa
1. Con sentenza depositata il 31.10.2012, la Corte d’appello di Torino, confermando la pronuncia del Tribunale della medesima sede, rigettava l’opposizione a cartella esattoriale proposta dalla società R.M. s.a.s. di A. G. & C. nei confronti dell’INPS relativo ad un debito contributivo pari a euro 44.949,48 concernente il rapporto di lavoro, da ritenersi di natura subordinata, del dipendente F. C. per il periodo novembre 2002 – maggio 2007.
2. La Corte distrettuale, per quel che interessa, riteneva accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la società e il lavoratore F. C. e sulla base di un concorso di elementi quali la sentenza emessa nel giudizio intercorso tra il lavoratore e la società, la scrittura privata stipulata tra A. G.e il C. il 5.11.2002, il concreto atteggiarsi del rapporto come desunto dai verbali della causa instaurata tra le parti, l’interrogatorio del legale rappresentante della società opponente, l’assunzione del C. quale lavoratore subordinato in data 1.5.2006.
3. Avverso la sentenza, la società propone ricorso per Cassazione, affidato a due motivi. L’INPS resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. nonché vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in mancanza di prova fornita dall’ente previdenziale, non potendo esplicare efficacia riflessa il giudicato – adottato nella controversia concernente il datore di lavoro e il lavoratore – di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e non potendo rappresentare validi elementi di giudizio i verbali di causa redatti in quella lite.
2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. nonché vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, tratto dalla documentazione prodotta conclusioni errate, in quanto i periodi in cui F. C. ha prestato la propria attività all’interno del bar di Corso Einaudi 31 trovano diversa causa giustificatrice ed un diverso regime giuridico, solo in parte (da maggio 2006 a maggio 2007) di natura subordinata. In particolare, il periodo precedente (da novembre 2002 a maggio 2006) va qualificato come rapporto di collaborazione autonoma in esecuzione dei complessi accordi intervenuti tra le parti, in considerazione altresì della disponibilità oraria concessa dal C., dell’attività concretamente svolta, dei compensi percepiti, del periodo di assenza nel corso dell’anno 2005.
3. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi, non sono fondati.
Va osservato che la sentenza in esame (pubblicata dopo rii settembre 2012) ricade, ratione temporis, nel regime risultante dalla modifica dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod.proc.civ. ad opera dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la decisione può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. L’intervento di modifica del n. 5 dell’art. 360 cod.proc.civ., come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053/2014), comporta una sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto, dovendosi interpretare, la norma, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
Ebbene, la sentenza impugnata ha affrontato, con argomenti logici e coerenti, tutti i profili oggetto delle censure avanzate dal ricorrente, rilevando – alla luce della sentenza emessa dal Tribunale (sentenza n. 1187 del 2008) tra la società R.M. s.a.s. e F. C. (utilizzata quale elemento di prova documentale) nonché di “ulteriori concordanti elementi di giudizio” – la univoca riconducibilità dell’attività svolta, dal 2002 al 2007, dal C. all’archetipo del rapporto di lavoro subordinato.
In particolare, la Corte distrettuale ha esaminato il contenuto della scrittura intervenuta il 5.11.2002 tra il C. e A. G. (che presentava “chiari indici di subordinazione”), le deposizioni dei testimoni rese nell’ambito del procedimento svolto tra la società ed il lavoratore (sulla base dei verbali di udienza prodotti dalla stessa società opponente e con riguardo a deposizioni rese da persone tutte indicate, nel presente procedimento, quali testimoni dalla stessa società), le dichiarazioni rese da A. G., il contratto di lavoro subordinato sottoscritto tra la società e il C. l’1.5.2006.
Non è, quindi, ravvisabile alcuna lacuna o contraddizione motivazionale secondo il parametro del c.d. minimo costituzionale attualmente imposto dal novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.
4. In realtà, non può sottacersi che le svolte censure si traducono in critiche ed obiezioni avverso la valutazione delle risultanze istruttorie quale operata dal giudice del merito nell’esercizio del potere di libero e prudente apprezzamento delle prove a lui demandato dall’art. 116 cod.proc.civ. e si risolvono altresì nella prospettazione del risultato interpretativo degli elementi probatori acquisiti, ritenuto dal ricorrente corretto ed aderente alle suddette risultanze, con involgimento, così, di un sindacato nel merito della causa non consentito in sede di legittimità (cfr. in motivazione, ex plurimis, Cass. 21 ottobre 2014 n.22283).
Per consolidato orientamento di questa Corte, invero, tale sindacato è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (in termini, Cass. SS.UU. n.24148/2013, Cass. SS.UU.4 n.26242/2014).
Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, l’erronea applicazione delle disposizioni di legge dettate in materia di valutazione delle prove nonché una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto. La valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.
5. In ordine alla censura relativa alla sentenza emessa tra la società ed il lavoratore, questa Corte ha ripetutamente affermato che il giudicato, oltre ad avere una sua efficacia diretta nei confronti delle parti, loro eredi e aventi causa, è dotato anche di un’efficacia riflessa nel senso che la sentenza, come affermazione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo in cui è stata emessa, allorquando questi siano titolari di un diritto dipendente dalla situazione definita in quel processo o comunque di un diritto subordinato a tale situazione, con la conseguenza reciproca che l’efficacia del giudicato non si estende a quanti siano titolari di un diritto autonomo rispetto al rapporto giuridico definito con la prima sentenza (Cass. n. 6788 del 2013, Cass. n. 2875 del 1999). L’efficacia riflessa del giudicato, inteso come affermazione obiettiva di verità sull’esistenza e sul contenuto di una vicenda processuale, può legittimamente dispiegarsi con riferimento ad eventuali terzi estranei al processo in cui tale affermazione sia stata predicata, qualora questi ultimi risultino titolari di diritti ed obblighi dipendenti dalla situazione giuridica definita in quel processo (Cass. n. 3797 del 1999).
Nella specie, l’INPS, in quanto titolare di diritti ed obblighi dipendenti dalla situazione giuridica definita giudizialmente, aveva pieno titolo ad avvalersi del giudicato che aveva dichiarato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato per un periodo più ampio di quello dichiarato dalle parti (limitato al periodo maggio 2006 – maggio 2007), essendo l’obbligo contributivo verso l’istituto previdenziale direttamente connesso a tutto ciò che il lavoratore riceve o ha diritto di ricevere dal datore di lavoro, indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti dei prestatori di lavoro siano stati in tutto o in parte soddisfatti (Cass. n. 2137 del 2014, Cass. n. 9579 del 2005, Cass. n. 3630 del 1999).
6. In ordine alle deposizioni testimoniali rese in altro giudizio, oltre a rilevare la carenza di interesse della società ricorrente a censurare la validità di tale fonte di prova (considerato che l’acquisizione è stata effettuata su istanza della stessa società ricorrente), questa Corte ha affermato che la produzione di verbali di altri giudizi nei quali siano contenute deposizioni testimoniali costituisce una “prova documentale atipica”, rimessa al prudente apprezzamento del giudice (cfr., al riguardo, Cass. n. 2335 del 2016; Cass. n. 4721 del 2012, Cass. n. 9902 del 1998).
7. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
8. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
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