CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 settembre 2019, n. 24264
Tributi – ICI – Immobili gravati da servitù di uso pubblico – Soggetto passivo d’imposta – Proprietario
Svolgimento del processo
F. spa ha impugnato, davanti alla CTP di Bergamo, il silenzio – rifiuto opposto dal Comune di Curno avverso istanza di rimborso ICI versata dal 2006 al 2010 in ordine ad alcuni manufatti di proprietà siti in Curno, censiti al NCEU con i subalterni 3, 701 e 720 della particella 4401 e gravati da servitù di uso pubblico.
La CTP di Bergamo, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 30/2/13, ha dichiarato il ricorso inammissibile per l’anno 2006 e lo ha respinto per la restante parte.
F. spa ha proposto appello che la CTR di Milano, Sez. dist. di Brescia, nel contraddittorio delle parti, ha accolto.
Il Comune di Curno ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
La M. srl, in cui si era fusa per incorporazione la F. spa, si è difesa con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente deve essere esaminata la documentazione depositata dalla M. srl, dalla quale risulta l’avvenuta pronuncia della decisione n. 3415 del 2017 della Suprema Corte di cassazione, Sez. 6, sottosezione V, con la quale è stato respinto un ricorso proposto dal Comune di Curno contro la M. srl avente ad oggetto diversa decisione della CTR di Milano, Sez. dist. di Brescia, concernente istanze di rimborso per ICI versata negli anni dal 2006 al 2009 e, secondo la prospettazione di parte, il medesimo complesso immobiliare di cui si tratta nel presente giudizio, denominato Parco Commerciale Curno.
Ritiene la società controricorrente che tale decisione, ad essa favorevole, possa avere forza di giudicato in questa sede.
Questa conclusione non può essere condivisa.
Infatti, affinché il giudicato sostanziale formatosi in un giudizio operi all’interno di altro instaurato successivamente, è necessario che tra la precedente causa e quella in corso vi sia, oltre che identità di parti e di petitum, anche di causa petendi, per la cui individuazione rilevano non tanto le ragioni giuridiche enunciate dalla parte a fondamento della pretesa avanzata in giudizio, bensì l’insieme delle circostanze di fatto che la parte stessa pone a base della propria richiesta, essendo compito precipuo del giudice la corretta identificazione degli effetti giuridici scaturenti dai fatti dedotti in causa (Cass., Sez. L, n. 16688 del 25 giugno 2018).
Nella specie, dalla lettura della sentenza in questione non è dato comprendere le dette circostanze di fatto, in particolare perché non risulta se la controversia abbia riguardato le medesime particelle catastali con riferimento alle quali è stato negato, nella presente controversia, il rimborso dell’ICI. Inoltre, la parte interessata non ha neppure indicato al Collegio, in violazione del principio di specificità, in quali atti avrebbe potuto rinvenire le informazioni necessarie.
Pertanto, l’eccezione di giudicato è da qualificare inammissibile.
2. Prima di procedere all’esame delle doglianze delle parti, si osserva che il presente giudizio non concerne l’annualità 2006, con riferimento alla quale è stato dichiarato prescritto il diritto del Comune di Curno all’esito del giudizio di primo grado e non è più stata proposta impugnazione.
3. Con il primo ed il secondo motivo, che possono essere trattati congiuntamente stante la stretta connessione, il Comune di Curno lamenta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 825 c.c. e dell’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992.
Egli si duole del fatto che, ad avviso del giudice di appello, l’ICI non v sarebbe stata dovuta nella specie, considerato che, essendo i terreni de quibus gravati da servitù di uso pubblico – la titolarità della quale spetterebbe al Comune di Curno – la società contribuente non avrebbe dovuto corrispondere alcunché, poiché sarebbe stata da equiparare ad un nudo proprietario mentre, al contrario, soggetto passivo d’imposta sarebbe solamente il pieno proprietario.
Inoltre, parte ricorrente contesta l’affermazione della CTR di Milano, Sez. dist. Brescia, per la quale il diritto di uso pubblico rientrerebbe nel diritto di uso ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992, secondo cui “Soggetti passivi dell’imposta sono il proprietario di immobili di cui al comma 2 dell’articolo 1, ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, sugli stessi, anche se non residenti nel territorio dello Stato o se non hanno ivi la sede legale o amministrativa o non vi esercitano l’attività”.
Ne conseguirebbe, per il giudice di secondo grado, che, la M. srl non dovrebbe pagare il tributo, non essendo certo essa titolare del diritto di uso, il quale andrebbe riferito, eventualmente, al Comune di Curno.
Le doglianze sono fondate.
Non è controverso che, nella specie, venga in rilievo una cd. servitù di uso pubblico.
Per l’esattezza, essa graverebbe su immobili di proprietà di un privato e, nella sostanza, consisterebbe in un diritto, in favore della collettività (nell’atto costitutivo si precisa del Comune di Curno), ad avvalersi di alcune aree destinate a “disimpegnare l’intero complesso” ed a parcheggio, comprensive di ascensori, scivoli e scale e collegate ad un complesso denominato Parco Commerciale Curno.
Ritiene la CTR di Milano, Sez. dist. di Brescia, che l’ICI non graverebbe sul proprietario, la M. srl, poiché la stessa, in ragione dell’esistenza della menzionata servitù di uso pubblico, non sarebbe un pieno proprietario, ma, invece, un nudo proprietario, la servitù di uso pubblico coincidendo con il diritto di uso menzionato dall’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992.
Ne conseguirebbe, anche se la sentenza di appello nulla precisa al riguardo, che, essendo titolare del diritto di uso il Comune di Curno, troverebbe applicazione l’articolo 4 del citato d.lgs. n. 504 del 1992, in base al quale “L’imposta è liquidata, accertata e riscossa da ciascun comune per gli immobili di cui al comma 2 dell’articolo 1 la cui superficie insiste, interamente o prevalentemente, sul territorio del comune stesso.
L’imposta non si applica per gli immobili di cui il comune è proprietario ovvero titolare dei diritti indicati nell’articolo precedente quando la loro superficie insiste interamente o prevalentemente sul suo territorio”.
La dizione uso pubblico indica due diverse qualità di alcune categorie di beni demaniali o, comunque, appartenenti allo Stato o ad altri pubblici poteri, e di alcuni tipi di diritti o comunque situazioni soggettive di godimento e di vantaggio riconosciute dall’ordinamento a determinate collettività.
Nella prima accezione, per uso pubblico si intende una caratteristica strutturale di alcuni beni, essenzialmente demaniali, di proprietà pubblica, che, appunto, sono aperti al godimento collettivo.
Ad assumere rilievo, nella presente sede, è, però, la seconda accezione, la quale descrive il contenuto di determinati diritti imputati ad una comunità di abitanti, vale a dire un gruppo di persone legate fra loro da un vincolo che ha ad oggetto beni immobili (e, talvolta, mobili) appartenenti a soggetti, sia pubblici che privati, terzi rispetto alla medesima collettività.
Per l’esattezza, tali diritti collettivi, che possono essere indicati come i diritti di uso pubblico, e fra i quali rientrano varie figure giuridiche, fra cui le servitù di uso pubblico, consistono nel godimento di determinate utilitates, limitate all’uti e non estese al frui, riconducibili ai detti beni.
Essi si differenziano, innanzitutto, dalle servitù pubbliche, le quali sono un diritto reale parziario imputato all’ente pubblico in luogo della proprietà (per cui viene piuttosto in rilievo la prima accezione di uso pubblico) che, quindi, non appartiene alla comunità di abitanti, pur rappresentata dal suo ente esponenziale.
Inoltre, i diritti di uso pubblico sono diversi pure dagli usi civici, i quali, in effetti, gli somigliano perché sono imputati ad una collettività di abitanti, rappresentando una categoria di diritti collettivi di origine dominicale aventi ad oggetto res alienae, ma si caratterizzano, fra l’altro, per comprendere anche utilitates di frui della res, per essere disciplinati dalla legge n. 1766 del 1927 e successive modifiche e per non potere essere costituiti ex novo, diversamente dai diritti di uso pubblico.
La natura dei diritti di uso pubblico come situazione soggettiva di carattere collettivo perché appartenente ad una comunità di abitanti, piuttosto che all’ente di riferimento, di solito il comune, od a singoli privati, da un lato, è servita a distinguerli dalle servitù prediali e da quelle personali previste dal codice civile del 1865, con conseguente esclusione della relativa normativa imperativa, come quella sulla limitazione di durata; dall’altro, ha portato a riconoscere la legittimazione del singolo utente membro della comunità di abitanti a tutelare, in sede sia petitoria sia possessoria, il diritto stesso agendo come portatore di un interesse proprio e non in sostituzione del comune.
In pratica, e questo aspetto è estremamente rilevante ai fini della presente decisione, la giurisprudenza e la dottrina tradizionali hanno riconosciuto che, da una parte, l’ambito dei diritti reali fissato dal codice civile riguardasse i rapporti interprivati, dall’altro, al di fuori del sistema del medesimo codice civile, sussistessero situazioni reali imputate a collettività e non a singoli o ad enti che, perciò, prescindevano dalle limitazioni poste dal diritto moderno agli iura in re aliena, configurandosi come diritti reali sui generis cui applicare degli istituti di origine consuetudinaria, i quali trovavano un fondamento normativo nell’attuale articolo 11 c.c., il quale prescrive che “Le province e i comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”.
Era così ritenuto operativo il principio per cui le collettività di abitanti potevano acquisire diritti collettivi a carattere reale su beni privati in virtù del possesso protratto nel tempo, persino in assenza di una manifestazione di volontà in questo senso ad opera del comune, senza essere soggetti alle norme limitative del codice civile in tema di diritti reali; di tali diritti era rappresentante il comune, che era qualificato come un curatore degli interessi di una comunità di persone avente dei fini speciali.
Una volta sorto il diritto, il bene privato resta tale da un punto di vista dominicale, ma si trasforma in una cosa pubblica limitatamente all’utilitas trattane dalla collettività.
Il governo della res e la regolazione del suo uso spettano alla pubblica amministrazione limitatamente all’oggetto del diritto collettivo, quale risultante dal titolo, restando, per ogni ulteriore profilo, nella disponibilità del proprietario formale, che resta tale e, quindi, viene assoggettato.
Espressione di questa ripartizione dei poteri fra comunità e proprietario è il principio elaborato dalla giurisprudenza per il quale l’assoggettamento di una strada privata a servitù di uso pubblico non implica la facoltà dei proprietari frontisti di aprire accessi diretti dai loro fondi su detta strada privata, comportando ciò un’utilizzazione di essa più intensa e diversa, non riconducibile al contenuto dell’indicata servitù (Cass., Sez. 2, n. 21953 del 25 settembre 2013).
Di conseguenza, l’assoggettamento di una strada privata a servitù di uso pubblico non elimina l’interesse del proprietario ad agire in negatoria servitutis nei confronti dei proprietari frontisti che abbiano aperto accessi diretti dai loto fondi su detta strada, in guisa da determinare un aggravamento dell’intensità del passaggio in ragione dell’utilizzo dei detti accessi non riconducibile al contenuto della servitù già esercitata uti civis (Cass., Sez. 2, n. 509 del 18 gennaio 1995).
Il diritto di uso pubblico, quindi, non è disponibile in quanto tale, appartenendo ad una collettività di per sé priva di capacità di agire, e, in teoria, non si estingue con il mero non uso protratto nel tempo.
La giurisprudenza, pertanto, richiede, per ovviare alla incommerciabilità del diritto in questione, un intervento dell’ente rappresentativo della collettività, ed afferma che l’estinzione della servitù di pubblico passaggio su strada vicinale non può derivare dal mancato uso di detto passaggio da parte degli utenti, ma richiede che l’ente territoriale, quale soggetto esponenziale della collettività dei cittadini, esprima la sua volontà in tal senso attraverso l’adozione di un provvedimento che riconosca cessati l’uso e l’interesse pubblico a servirsi del bene, ovvero con un comportamento concludente, consistente nell’omesso esercizio del diritto – dovere di tutela davanti ad atti usurpativi o impeditivi del privato (Cass., Sez. 2, n. 11676 del 14 maggio 2018).
L’imputazione del diritto all’ente esponenziale si spiega con la necessità di individuare un soggetto che sia dotato di capacità di agire e possa occuparsi del bene, la collettività non essendo in grado di esprimere una volontà giuridicamente significativa.
Al riguardo, deve essere chiarito, quindi, il ruolo del detto ente esponenziale.
Non è in dubbio, infatti, l’appartenenza del diritto di uso pubblico alla collettività. Semplicemente, per compiere attività giuridicamente rilevanti per le quali sia necessario essere dotati di una piena capacità di agire, l’ordinamento riferisce il diritto al comune o all’ente rappresentativo di siffatta collettività.
L’esistenza di questa dicotomia emerge da quella giurisprudenza per la quale la titolarità della servitù pubblica di passaggio e la legittimazione a far valere questo diritto in giudizio spetta al comune quale ente rappresentante della collettività dei cittadini; tuttavia, tale legittimazione compete anche a ciascun cittadino uti singulus ed in nome proprio senza che, ove ad agire a tutela della servitù sia il singolo, insorga un’ipotesi di litisconsorzio necessario che postuli l’intervento in causa del comune (Cass., Sez. 2, n. 2183 del 19 luglio 1974).
Da ciò si evince che il ruolo dell’ente concerne il compimento di atti di disposizione e gestione della res che presuppongono l’esercizio di una capacità di agire, non potendosi escludere, nondimeno, che il godimento diretto e la tutela giuridica del diritto siano appannaggio (anche) del singolo.
Questa precisazione chiarisce l’incomprensione che ha indotto in errore il giudice di appello.
Esso, infatti, riconduce le servitù di uso pubblico all’articolo 825 c.c., che sottopone alla disciplina dei beni demaniali i diritti reali spettanti ai Comuni su beni appartenenti ad altri soggetti quando sono costituiti per il perseguimento di fini di pubblico interesse e afferma che, trattandosi di diritti soggetti alla disciplina propria dei beni demaniali il loro titolare “non può che essere il Comune”.
Peraltro, si osserva, in primo luogo, che l’articolo 825 c.c. è stato pensato con riferimento alle servitù prediali pubbliche, costituite per l’utilità di un bene pubblico, ed ai diritti demaniali su beni altrui, che ricorrono ove il bene pubblico non necessita per la sua funzionalità di una situazione di dominio in capo all’ente.
In entrambi i casi, non vengono in esame diritti appartenenti ad una collettività, ma situazioni giuridiche pubbliche ed individuali, a volte proprietarie a volte reali parziarie, di cui sono titolari enti pubblici (Stato, Regioni, ecc.).
A stretto rigore, le servitù di uso pubblico, invece, poiché appartengono ad una collettività non sarebbero riconducibili all’articolo 825 c.c. ed il fatto che spesso siano, invece, inserite nelle trattazioni concernenti questa disposizione si spiega con la difficoltà che il nostro ordinamento incontra quando deve occuparsi di diritti collettivi o, meglio, appartenenti ad una collettività.
Peraltro, anche a volere ammettere che le servitù di uso pubbliche siano disciplinate dall’articolo 825 c.c., ciò non comporta assolutamente che possano essere considerate appartenenti, sia in senso civilistico sia tributario, all’ente pubblico di riferimento.
La servitù di uso pubblico appartiene alla collettività e la proprietà del terreno spetta sempre, nella specie, al privato.
Quest’ultimo, lungi dal divenire un nudo proprietario, mantiene tutti i poteri propri di un dominus, l’insieme dei beneficiari della servitù di uso pubblico dovendosi limitare a godere di alcune specifiche utilitates, che non escludono che il proprietario formale possa godere appieno del bene in tutti gli altri modi e, persino, che possa utilizzare dello stesso come membro del gruppo.
Infatti, il potere amministrativo dell’ente esponenziale non può essere diretto a regolare usi ulteriori rispetto a quelli oggetto del titolo costitutivo della servitù di uso pubblico.
Del tutto inconferente è il riferimento, contenuto in sentenza, al diritto di uso di cui all’articolo 1021 c.c.
Infatti, come chiarito, la tematica delle servitù di uso pubblico esula del tutto da quella dei rapporti interprivatistici.
Dette servitù sono diritti reali sui generis ed atipici appartenenti ad una collettività finalizzati a soddisfare un interesse pubblico di questa.
Il diritto di uso, invece, è un diritto reale limitato tipizzato dal legislatore, che è strettamente legato al beneficiario e, quindi, è temporaneo e, comunque, tale da non eccedere la durata della vita del suo portatore, potendo avere ad oggetto sia l’uti che il frui.
Il suo contenuto, almeno con riguardo alla possibilità di raccogliere i frutti, è definito in relazione a ciò che occorre ai bisogni dell’usuario e della sua famiglia.
Il diritto d’uso, regolato dal codice civile con delle disposizioni specifiche e, per quanto non previsto, dalle norme sull’usufrutto (articolo 1026 c.c.), quindi, non ha nulla a che vedere con la servitù di uso pubblico, la quale ha una disciplina non tipizzata, eventualmente desumibile da quella degli usi civici e, in minor misura, dei beni demaniali, spetta ad una collettività, mira a soddisfare un interesse generale di questa, ha ad oggetto solo l’uti e non il frui ed è tendenzialmente imprescrittibile.
Ne consegue che l’ICI doveva essere pagata dal proprietario delle particelle oggetto di causa, non potendo applicarsi l’articolo 4 del citato d.lgs. n. 504 del 1992.
Se ne ricava l’accoglimento dei motivi in esame.
3. Il ricorso va, quindi, accolto, con riferimento ad entrambi i motivi e la sentenza impugnata va cassata.
Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto, né risultano ulteriori profili controversi, sussistono i presupposti per la decisione nel merito ex art. 384 c.p.c., mediante rigetto dell’originario ricorso della società contribuente.
Vista la particolarità della vicenda processuale, si ritiene che le spese di merito debbano essere compensate ex articolo 92 c.p.c.
Le spese di legittimità, invece, seguono la soccombenza ex articolo 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
– accoglie il primo ed il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso della società contribuente nei termini di cui in motivazione;
– compensa le spese dei gradi di merito e condanna la M. srl a rifondere le spese di legittimità, che liquida in complessivi € 4.000,00, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%.
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