CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 settembre 2020, n. 20849
Tributi – Contenzioso tributario – Procedimento – Sentenza – Motivazione apparente
Rilevato che
– MPS (…) (di seguito, la contribuente) propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio (CTR), n. 231/21/12, depositata il 14/11/2012, di rigetto degli appelli da essa proposti avverso le sentenze di primo grado n. 5/30/12 e n. 273/57/11 che avevano rigettato i ricorsi proposti dalla medesima S.r.l. per l’annullamento degli avvisi di accertamento di maggiori ricavi Iva, Irpeg e Irap, relativi agli anni di imposta 2002-2003-2004, in relazione al mancato riconoscimento di costi per fatture inesistenti emesse da tre diverse società (A.P.F., Piccola cooperativa R.L. 2001, Piccola società Allestimenti e Realizzazioni);
– il giudice di appello, riuniti i processi, a sostegno del decisum:
– riteneva che le operazioni poste in essere erano soggettivamente inesistenti e i costi e l’iva, portati in detrazione, erano relativi a fatture emesse da società cartiera;
– suffragava questo convincimento con la circostanza che le società coinvolte erano risultate essere evasori totali e costituite al solo scopo di compiere fittizie operazioni di compravendita;
– richiamava la giurisprudenza in base alla quale l’amministrazione poteva procedere ad accertamento induttivo, utilizzando documentazione reperita presso terzi, quali assegni rilasciati a propri fornitori, da cui desumere, in via presuntiva, la riferibilità ad acquisti di mercè, addossando l’imprenditore l’onere della prova di segno opposto;
– rilevava che i controlli incrociati avevano dimostrato che le società cartiere non erano dotate di struttura operativa e gestionale idonea allo svolgimento dell’attività;
– richiamava la giurisprudenza secondo cui la prova dell’inesistenza delle operazioni può essere fornita anche a mezzo di presunzioni, con la conseguenza di ribaltare l’onere della prova circa la effettività delle operazioni a carico del contribuente, con la precisazione che detta prova non poteva essere costituita dalla documentazione formale in carico alla contribuente;
– il ricorso è affidato a sei motivi;
– l’agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
Considerato che
– Con il primo motivo di ricorso, la contribuente denuncia «difetto di motivazione della sentenza – violazione di legge – motivazione apparente in relazione all’art. 360 c.p.c.»;
– rileva che il giudice non si era pronunciato sui motivi di ricorso né aveva esaminato i documenti prodotti dalla società; la sentenza aveva indicato circostanze – quali controlli incrociati ed acquisizione di documentazioni presso terzi, accertamento induttivo – non aderenti agli atti ed alle contestazioni mosse alla ricorrente;
– le censure evocanti una motivazione apparente sono infondate: invero, secondo l’insegnamento di questa Corte, «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass., Sez. U., n. 22232 del 2016; conf. Cass. n. 1756 del 2006, n. 16736 del 2007, n. 9105 del 2017, secondo cui ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento);
– inoltre, poiché è qui in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, resta applicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c. la cui riformulazione, disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo le Sezioni Unite deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. s.u. 7/04/2014, n. 8053);
– nella sentenza impugnata sono espressi il convincimento del Giudice e le ragioni del decidere con motivazione congrua, ancorché sintetica, laddove, invece, la ricorrente non individua neppure quali fatti storici, decisivi ai fini della decisione, il giudice di merito avrebbe omesso di prendere in esame, sottoponendo al Collegio soltanto supposte lacune motivazionali in thesi riscontrate nella motivazione resa, come tali inidonee a consentire l’esame delle doglianze da parte del giudice di legittimità.
– Con il secondo motivo di ricorso, deduce «violazione di legge – violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.», per aver la CTR omesso di pronunciare circa il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento opposto; l’agenzia delle entrate aveva recepito acriticamente le conclusioni della Guardia di Finanza ritenendo non deducibili i costi relativi al conto economico e qualificando come inesistenti “le operazioni eseguite dalla nei confronti della MPS s.r.l. e regolarmente fatturate”, senza esaminare accuratamente i risultati dei processi verbali redatti dalla GdF;
– si osserva che è sicuramente vero che la CTR ha omesso di pronunciare sulle doglianze riproposte dalla contribuente in appello e riprodotte in ricorso (sia pure con evidente incompletezza); la rilevata omissione non comporta, tuttavia, la cassazione della sentenza impugnata in accoglimento del ricorso; è utile rammentare al riguardo che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancanza di espressa statuizione sul punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (v. in particolare, Cass. n. 5351 del 2007, che ha ravvisato il rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame), ed inoltre che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, e dovendo pertanto escludersi il suddetto vizio quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione; il che non si verifica quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comporti il rigetto di tale pretesa anche se manchi in proposito una specifica argomentazione (tra le moltissime v. Cass. nn. 17145 del 2006, 2272 del 2007, n. 10636 del 2007); nel caso in esame, poiché i giudici di appello rigettarono l’impugnazione, con ciò stesso essi hanno statuito indirettamente anche sulla legittimità dell’avviso di accertamento; invero, la riscontrata fittizietà delle fatturazioni è in rapporto di reciproca esclusione con la deduzione posta a base del motivo pretermesso, che deve pertanto ritenersi rigettato per implicito; quanto alla sufficienza motivazionale di un atto impositivo che rinvii per relationem ad altro atto esterno, questa Corte ha affermato che “In tema di atto amministrativo finale di imposizione tributaria (nella specie relativo ad avviso di rettifica di dichiarazione IVA da parte dell’Amministrazione finanziaria) la motivazione “per relationem”, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21119 del 13/10/2011; Sez. 5, Sentenza n. 30560 del 20/12/2017; Sez. 5, Sentenza n. 32957 del 20/12/2018; Cass. sez. 5, ord. n. 24038 del 3/10/2018; Sez. 5, sentenza 435 del 17/10/2019);
– é ancora da precisare che è destituito di fondamento l’assunto secondo il quale, quando aderisce alle ricostruzioni, impostazioni, argomentazioni della GdF, l’ufficio deve poi necessariamente motivare le ragioni di tale adesione. L’adesione alle valutazioni dell’organo verificatore non impone che, in una sorta di circolo vizioso, siano esposti anche i motivi per i quali si siano condivise le dette valutazioni, posto che esse, se valide, sono idonee di per sé a sostenere la motivazione, senza che ne sia necessaria un’altra aggiuntiva che nulla di più potrebbe apportare.
– Con il terzo motivo si deduce <<violazione di legge in relazione agli artt. 6, 19 e 21 del D.P.C.M. n. 633/72in relazione all’art. 360 c.p.c.>>, per aver la CTR onerato la contribuente di dimostrare l’effettività delle operazioni contestate e la non detraibilità dell’Iva, senza motivare detta asserzione, in contrasto con il principio della neutralità dell’imposta;
– la censura è manifestamente infondata, avendo la CTR confermato l’inesistenza delle prestazioni fatturate (definite soggettivamente inesistenti, ma trattate come oggettivamente inesistenti), sicché, in assenza del relativo presupposto, viene meno il diritto alla detrazione d’imposta; la giurisprudenza consolidata di questa Corte è nel senso che l’indetraibilità dell’I.V.A. figurante sulle predette fatture costituisce conseguenza all’accertata fattuale inesistenza degli scambi, che i menzionati documenti fiscali attestano (solo) cartaceamente. In ipotesi di operazioni inesistenti, non si realizza i presupposti del diritto alla detrazione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1; peraltro, (cfr. Cass., n. 12353/05, n. 13605/03, n. 7289/02, n. 6341/02), la previsione del menzionato d.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7 – se, per un verso, viene, direttamente, ad incidere sul soggetto emittente la fattura, consistendolo debitore d’imposta (pur in assenza del suo ordinario presupposto) sulla base dell’applicazione del solo principio di cartolarità – per l’altro viene, indirettamente, ad incidere anche sul destinatario della fattura, conformandone, in combinato disposto con il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1, e art. 26, comma 3, la preclusione ad esercitare il diritto della detrazione o alla variazione dell’imposta, in assenza del relativo presupposto (acquisto o importazione di beni e servizi nell’esercizio dell’impresa, arte o professione).
– Con il quarto motivo si deduce «violazione di legge in relazione dell’art. (testuale) 2697 c.c. e 112 c.p.c. – mancanza di prova dell’accertamento – error in procedendo in relazione all’art. 360 c.p.c.» per aver la CTR omesso di pronunciare sulle eccezioni della contribuente di carenza di prova dell’accertamento e di valutare che essa aveva legittimamente fatto ricorso a terzi per la gestione dei cartelli pubblicitari; non erano state considerate le diverse sentenze emesse dalle commissioni romane su fattispecie similari, coinvolgenti le stesse società appaltatrici, che avevano assolto la società committente, sul presupposto che essa aveva contabilizzato le fatture emesse dal fornitore e assolto i prescritti obblighi fiscali e contrattuali;
– il motivo è infondato; il giudice di appello ha ritenuto raggiunta la prova della inesistenza delle operazioni fatturate sul rilievo che a) le società appaltatrici .erano risultate essere evasori totali; b) la contribuente si sarebbe avvalsa di prestazioni di servizi da parte di società, prive di alcuna struttura operativa e gestionale idonea allo svolgimento dell’attività dell’impresa; la ricorrente, pur evocando anche un vizio di violazione di legge, richiamando non meglio specificate sentenze di merito, prive di definitività, in realtà censura la motivazione della sentenza invocando, in contrasto con il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., una diversa valutazione delle risultanze fattuali, come confluite nel PVC, il cui apprezzamento è riservato al giudice di merito, il quale, sulla base di argomentazioni immuni da vizi logici o giuridici, ha espresso il proprio convincimento, insindacabile in sede dì legittimità, in ordine alla ricorrenza nella specie, alla stregua degli elementi sopra indicati, di presunzioni gravi, precise e concordanti circa la sussistenza di fittizie operazioni di compravendita (definite, si ripete, soggettivamente inesistenti, ma trattate come oggettivamente inesistenti) ;
– va ribadito allora che «In tema di IVA, una volta assolta da parte dell’Amministrazione finanziaria la prova (ad esempio, mediante la dimostrazione che l’emittente è una “cartiera” o una società “fantasma”) dell’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, senza che, tuttavia, tale onere possa ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia. (Sez. 5 -, Ordinanza n. 17619 del 05/07/2018, Rv. 649610 – 01; conf., Sez. 5, Ordinanza n. 27554/2018 – Rv. 651216 – 01)», in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (Sez. 5, Sentenza n. 428 del 14/01/2015, Rv. 634233 – 01); è superfluo precisare, trattandosi di principi generali in tema di prova, che la prova dell’inesistenza delle operazioni può ben consistere in presunzioni semplici, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. n. 9108 del 2012, cit.); pertanto, nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, cioè sia una mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, e quindi contesti l’indebita detrazione dell’IVA e/o deduzione dei costi, ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera”) e a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate; quest’ultima prova non potrà consistere, però, per quanto detto sopra, nella esibizione della fattura, ne’ nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (tra le altre, Cass. nn. 15228 del 2001, 12802 del 2011).
– Con il quinto motivo si deduce «violazione di legge – violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n° 4 c.p.c.», per aver la CTR omesso di pronunciarsi circa le eccezioni sollevate dalla contribuente relativamente alla inutilizzabilità degli atti per superamento del termine massimo della verifica e mancanza di prova dell’inesistenza delle operazioni contestate; mancata verifica della effettività delle prestazioni riportate nelle fatture; omessa valutazione delle prove fornite dalla contribuente in relazione al rapporto svolto con le ditte appaltataci, nonché la congruità dei costi sostenuti con gli studi di settore; mancanza di prova dell’accertamento basato su dichiarazioni di soggetti interessati, successivamente ritrattate; omessa contestazione circa le fatture attive emesse nei confronti dei propri clienti; omessa valutazione del legittimo ricorso al lavoro esterno;
– la censura è in parte infondata e in parte inammissibile; costituisce principio giurisprudenziale acquisito quello in base al quale in caso di nullità della sentenza per omessa pronuncia, esigenze dì economia processuale impongono di evitare la cassazione con rinvio quando la pretesa, sulla quale si riscontri mancare la pronuncia, avrebbe dovuto essere rigettata o potuto essere decisa nel merito, purché senza necessità di ulteriori accertamenti in fatto (da ultimo, Cass. civ. [ord.], sez. VI, 08-10-2014, n. 21257); nella specie, la pretesa avanzata dalla ricorrente è infondata, posto che il superamento del termine massimo della verifica da parte degli accertatori non comporta la nullità dell’accertamento, né l’inutilizzabilità dei dati acquisiti, trattandosi di effetti non previsti dall’ordinamento (Cass. 2055/2017); le residue censure in parte (punti 2, 3 e 4) comportano rivalutazioni di merito, in contrasto con l’art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c., ed in parte sono anche irrilevanti (punti 5 e 6); in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni. (Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330 – 01); in conseguenza, l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, come è avvenuto nel caso in esame avendo la CTR esposto le ragioni oggettive -società aperte al solo scopo di evadere l’imposta, prive di una struttura operativa – per cui le prestazioni rese dalle società appaltatrici erano relative ad operazioni inesistenti;
– irrilevante, infine, ai fini di questo giudizio relativo alla responsabilità della contribuente è la, meramente affermata, circostanza che nei confronti delle società cartiere non sia stata iniziata attività di recupero del credito fiscale.
– Con il sesto motivo si deduce «omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c.», ribadendo sotto l’aspetto motivazionale le argomentazioni svolte con il quarto ed il quinto motivo;
– la censura è inammissibile per la ragione già esposta nella trattazione del primo motivo di ricorso: poiché è qui in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, resta applicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c. la cui riformulazione, disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo le Sezioni Unite deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Nel caso, la sentenza rispetta tale consolidato e condiviso principio, in quanto in essa sono indicati i concreti elementi utilizzati nell’iter decisionale per giungere a considerare provata la insussistenza delle contestate operazioni commerciali.
– In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la contribuente condannata alla rifusione del spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate, in complessivi euro 11.000, oltre alle spese prenotate a debito ed agli accessori di legge. Da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
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