CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 gennaio 2020, n. 2315
Licenziamento collettivo – Illegittimità – Successione di un appalto di un servizio mensa – Ramo d’azienda funzionalmente autonomo – art. 2112 c.c. – Criterio di scelta – Anzianità dei lavoratori
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 14 giugno 2018, ha respinto il reclamo proposto da A.F. Srl nei confronti della pronuncia di primo grado che, in sede di opposizione nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, aveva confermato l’ordinanza con cui era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento collettivo intimato ai lavoratori in epigrafe con lettere del 12 febbraio 2016.
2. In prime cure era stato accertato che “il complesso dei beni strumentali transitati da E. a A.F. (nell’ambito di una successione di un appalto di un servizio mensa), comprensivo di quelli forniti in comodato dalla committente, costituiva un ramo d’azienda funzionalmente autonomo, con conseguente necessaria applicazione della disciplina prevista dall’art. 2112 c.c.; pertanto, l’anzianità dei lavoratori doveva essere calcolata con riferimento alla data dell’assunzione di ciascuno di essi alle dipendenze di E. ed era ben diversa, e maggiore, dell’anzianità aziendale presso A.F. (che li aveva assunti tutti dal 1° novembre 2015 in seguito a subentro nell’appalto), utilizzata da questa società come criterio di scelta dei lavoratori da licenziare ex art. 5 l. n. 223/1991”.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso A.F. Srl con 4 motivi, cui hanno resistito con controricorso i lavoratori intimati.
Entrambe le parti hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.. Violazione dell’art. 34 c.p.c.; art. 1, commi 47 e ss., I. n, 92/2012; art. 112 e 113 c.p.c.; art. 2909 c.c.”.
Si censura quella parte della sentenza impugnata con cui è stata disattesa l’eccezione societaria di inammissibilità della domanda, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, volta all’accertamento di un trasferimento d’azienda.
Si deduce che i lavoratori avevano chiesto tale accertamento in via principale mentre i giudici del merito avrebbero ritenuto di decidere la questione in via incidentale.
Si eccepisce che erano state indicate nel reclamo “le possibili conseguenze negative che sarebbero derivate da tale evidente violazione” rappresentate dalla “assoluta inopponibilità di un simile accertamento ai successori a titolo particolare di A.F. nell’appalto di cui è causa, con ciò evidenziando una evidente carenza della certezza del diritto”.
In subordine si invoca la violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., perché il giudice del reclamo non avrebbe “valutato le deduzioni della presente difesa circa le possibili conseguenze negative derivanti dalla già richiamata violazione”.
2. Il motivo non può trovare accoglimento.
Resta fermo il principio elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, nell’ambito della cognizione con il rito speciale previsto dall’art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012, rientrano tutte le questioni che “il giudice deve affrontare e risolvere nel percorso per giungere alla decisione di merito sulla domanda concernente la legittimità o meno del licenziamento” (Cass. n. 21959 del 2018; sulla effettività titolarità del rapporto di lavoro v. Cass. n. 17775 del 2016 e Cass. n. 29889 del 2019; sull’accertamento della subordinazione v. Cass. n. 186 del 2019; cfr. pure, in motivazione, Cass. n. 12094 del 2016).
Quindi appartiene alla cognizione del rito speciale anche la questione dell’accertamento come nella specie – di una certa anzianità di servizio, conseguente ad un trasferimento d’azienda, ove la circostanza sia rilevante per giungere ad una decisione circa la legittimità o meno del licenziamento, il quale non può che essere impugnato con il procedimento previsto dalla l. n. 92 del 2012, ove richiesta la tutela ivi prevista.
Ragionando come la società ricorrente il giudice adito con il rito cd. “Fornero” avrebbe dovuto mutarlo in rito ordinario, con la conseguenza non ammissibile di sottrarre alla forma processuale espressamente prescritta dalla l. n. 92 del 2012 proprio l’impugnativa di licenziamento, che era la domanda principale azionata dai lavoratori.
Inoltre la sentenza già richiamata (Cass. n. 12094/2016) ha ribadito che “l’errar in procedendo rileva nei limiti in cui determini la <nullità della sentenza o del procedimento> a mente dell’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c.”, per cui, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, “l’inesattezza del rito non determina di per sé la nullità della sentenza”.
La violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008; Cass. n. 3758 del 2009; Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015). Perché la violazione assuma rilevanza invalidante occorre, infatti, che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Ciò perché l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma soltanto nella sua idoneità ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte. La società, invece, ancora allo stato prospetta, quale pregiudizio derivante dall’errore sul rito, una non meglio decifrabile “inopponibilità” a terzi dell’accertamento effettuato dai giudici in via incidentale circa il trasferimento d’azienda nonché una lesione della “certezza del diritto”.
All’evidenza si tratta di aspetti che nulla hanno a che fare con l’applicazione di regole processuali che ledano il diritto di difesa, che ben può essere esercitato nell’ambito del cd. “rito Fornero”, per cui nella sostanza la società si limita ad invocare una mera violazione della legge processuale, con una concezione del processo volta a ricollegare il danno processuale alla mera irregolarità, concezione avulsa dai parametri, oggi recepiti anche in ambito costituzionale e sovranazionale, di effettività, funzionalità e celerità dei modelli procedurali (v. Cass. n. 4506 del 2016). Tanto più che la conseguenza pure auspicata dalla ricorrente sarebbe stata quella di una pronuncia che avesse chiuso in rito il giudizio, con una pronuncia di inammissibilità della domanda originariamente azionata dai lavoratori, mentre l’erronea applicazione delle regole del codice di rito non può pregiudicare o aggravare in modo non proporzionato l’accertamento del diritto, in quanto la pronuncia di merito è garanzia di effettività della tutela ex art. 24 Cost. ed inoltre l’art. 111 Cost. assegna rilievo costituzionale al principio di ragionevole durata del processo al pari di quello del diritto di difesa, sicché il contemperamento dei due principi porta ad escludere la correttezza di interpretazioni che prevedano la regressione del processo per il mero rilievo della mancata realizzazione di determinate formalità, la cui omissione non abbia in concreto comportato limitazioni delle garanzie difensive (in termini: Cass. n. 8422 del 2018). Inammissibile è, infine, l’invocazione del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., che può riguardare l’omesso esame di fatti storici che hanno dato luogo alla controversia, ma non certo l’omesso esame di deduzioni difensive, che, come chiarito in precedenza, attengono eventualmente ad un errore di attività del giudice che procede, censurabile nei limiti di cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c..
3. Il secondo motivo denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.. Violazione dell’art. 115 c.p.c.; art. 416, ultimo comma, c.p.c.; art. 6 l. n. 604/66”. Viene criticata quella parte della sentenza impugnata con cui è stata dichiarata inammissibile l’eccezione di decadenza formulata dalla società perché i lavoratori non avrebbero impugnato il licenziamento irrogato da Euroristorazione e, cioè, l’azienda che aveva perduto l’appalto poi acquisito dalla A.F. srl.
4. Il motivo è privo di fondamento.
I lavoratori non avevano alcun onere di far precedere l’impugnativa del licenziamento collettivo intimato da A.F. Srl nel febbraio del 2016 da una impugnativa dei pretesi recessi (peraltro ritenuti non provati dalla Corte territoriale con una indagine di fatto chiaramente preclusa in questa sede di legittimità) che si assumono essere stati intimati da Euroristorazione, impresa che aveva cessato l’appalto l’anno precedente. Infatti l’estinzione del rapporto di lavoro con l’imprenditore uscente e l’assunzione dei lavoratori presso l’imprenditore subentrante si collocano, in via di principio, su piani di reciproca indifferenza.
Tanto vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, da un canto, anche quando il lavoratore licenziato per perdita dell’appalto avrebbe un diritto all’assunzione da parte dell’impresa subentrante, tale diritto non esclude ma si aggiunge al diritto dello stesso lavoratore di impugnare il licenziamento della cessante (v. Cass. n. 12136 del 2005; Cass. n. 4166 del 2006); d’altro canto, l’opzione del lavoratore per la costituzione di un rapporto con la società subentrante nell’appalto di servizi non implica, di per sé, rinuncia all’impugnazione dell’atto di recesso, dovendosi escludere che da ciò si possa desumere accettazione o acquiescenza al licenziamento (Cass. n. 22121 del 2016; Cass. n. 12613 del 2007).
5. Il terzo motivo di ricorso denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro; violazione degli artt. 331 e ss. CCNL Turismo Pubblici Esercizi; dell’art. 29 d. Igs. n. 276/03 ratione temporis vigente; dell’art. 2112 c.c.; della Direttiva comunitaria n. 23/2001. Violazione del principio di libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. e del principio di libera concorrenza ex art. 101 TFUE; del principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione ex art. 97 Cost.”.
In estrema sintesi, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto irrilevante sia la contrattazione collettiva che prevedeva una clausola sociale con obbligo dell’impresa subentrante nell’appalto di assumere i lavoratori ivi già impegnati, sia la portata dell’art. 29 del d. Igs. n. 276 del (nella formulazione antecedente all’intervento della legge n. 122 del 2016) “che escludeva in simili ipotesi la configurabilità del trasferimento di azienda”.
6. Il motivo non può trovare accoglimento.
Esso si fonda sostanzialmente sull’assunto che l’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/03, nella formulazione all’epoca vigente – secondo cui “L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda” – andrebbe interpretato nel senso che non sussiste il trasferimento d’azienda, in caso di successione nell’appalto, laddove l’impresa subentrante assuma il personale dell’impresa cessante in forza di obblighi derivanti da clausole sociali contenute nella contrattazione collettiva.
Tale assunto non è condiviso dalla giurisprudenza di questa Corte che ha già avuto modo di affermare che la norma citata “va intesa nel senso che la mera assunzione, da parte del subentrante nell’appalto, non integra di per sé trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo”, per cui “se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l’azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall’art. 2112 c.c. (pena un’ingiustificata aporia nell’ordinamento)”; tanto rende la disposizione citata “coerente con l’art. 2112 c.c. … e non contraddice la giurisprudenza in materia della CGUE, che reputa non contrastante con la normativa euro-unitaria, ma non necessitata, l’estensione della tutela prevista per i trasferimenti d’azienda anche ai casi di successione d’un imprenditore ad un altro nell’appalto d’un servizio” (Cass. n. 24972 del 2016; successive conformi: Cass. n. 8922 del 2019; Cass. n. 21615 del 2019; in particolare, da ultimo, Cass. n. 27913 del 2019). E’ quanto accaduto nella specie laddove la Corte territoriale, proprio menzionando l’orientamento di legittimità ricordato, ha accertato, conformemente al primo giudice, che non di mero passaggio di personale si è trattato ma anche di “subentro da parte di A.F. nella disponibilità di questo importante complesso di beni immobili, di attrezzature e di arredi, di ingente valore economico”, ravvisandosi dunque in fatto un trasferimento d’azienda.
Peraltro, secondo taluni precedenti, nei settori in cui l’attività si fonda essenzialmente sulla mano d’opera anche un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente un’attività comune può corrispondere ad un’entità economica, suscettibile di configurare un’ipotesi di trasferimento di ramo d’azienda (Cass. n. 12720 del 2017; Cass. n. 7121 del 2016; Cass. n. 5709 del 2009; Cass. n. 5932 del 2008; Cass. n. 10761 del 2002).
In ogni caso, conformemente alla giurisprudenza comunitaria, non ha alcun rilievo per escludere l’applicabilità della direttiva 2001/23/CE la circostanza che la riassunzione del personale da parte dell’imprenditore subentrante avvenga in forza di un obbligo stabilito dalla contrattazione collettiva (CGUE, 11 luglio 2018, Somoza Hermo, punti 38 e 39; CGUE, 24 gennaio 2002, Temco, C-51/00, punto 27).
Pertanto, diversamente da quanto opinato dalla ricorrente, il fatto che i lavoratori già impiegati nell’esecuzione dell’appalto siano acquisiti dal subentrante non per una libera scelta ma in ragione di un obbligo contrattuale non è circostanza idonea ad escludere l’applicabilità dell’art. 2112 c.c..
7. Con il quarto motivo si denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., nella specie violazione dell’art. 2112 c.c.; violazione degli artt. 1 e 6 della Direttiva UE 23/2001.
Violazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.” Si critica la sentenza impugnata per avere, “in punto di fatto”, recepito la motivazione della sentenza di primo grado circa la sussistenza nella specie di un trasferimento di azienda.
8. Il motivo non può essere accolto.
L’accertamento in fatto degli elementi che nel loro insieme inducono il convincimento circa la sussistenza di un trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c. appartiene alla competenza del giudice del merito e l’apprezzamento di tali elementi non è sindacabile in sede di legittimità, tanto più in una ipotesi – ricorrente nella specie – di cd, “doppia conforme” (Cass. n. 26674 del 2016; conf. Cass. n. 20994 del 2019), quantunque la censura sia anche mascherata sotto la forma, non corrispondente alla sostanza, della violazione e della falsa applicazione della legge che, per essere tale, presuppone invece una ricostruzione della vicenda storica quale è quella narrata nella sentenza impugnata (tra molte: Cass, n. 6035 del 2018; Cass. n. 18715 del 2016).
9. Conclusivamente il ricorso va respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 7.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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