CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 luglio 2019, n. 20723
Ministero dell’Istruzione – Comportamenti non conformi agli obblighi della funzione docente – Sospensione dall’insegnamento – Utilizzazione successiva in compiti diversi – Turbativa nel plesso di appartenenza
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Salerno ha respinto il gravame proposto da R.U. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che a propria volta aveva rigettato l’impugnativa della sanzione della sospensione dall’insegnamento per sei mesi, con utilizzazione successiva in compiti diversi, irrogata a titolo disciplinare dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nei confronti della predetta, per avere tenuto comportamenti non conformi agli obblighi della funzione docente, in violazione dei propri doveri, omettendo di mantenere rapporti interpersonali improntati a correttezza, provocando turbativa nell’ambito del plesso di appartenenza e pregiudicando il mantenimento del rapporto di fiducia tra amministrazione e cittadini (intemperanze, invettive contro alunni, reazioni esagerate allorquando sfiorata o toccata; allarmismi; incapacità di controllare le classi etc.).
La Corte, per quanto ancora rileva, riteneva che l’Amministrazione non avesse violato il principio di immutabilità della contestazione, in quanto i precedenti disciplinari erano stati considerati non al fine di far constare una recidiva quale fatto costitutivo dell’illecito perseguito, ma solo, e senza particolare incidenza, al fine di evidenziare il livello di gravità della mancanza, sicché non vi era necessità che di tali precedenti vi fosse menzione nell’ambito della contestazione dei fatti perseguiti.
2. La U. ha proposto ricorso sulla base di due motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso del Ministero.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo adduce, ai sensi dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., la violazione dell’art. 55 d. lgs. 165/2001, dell’art. 496 d. lgs. 297/1994, dell’art. 7 L. 300/1970, nonché omesso esame su di un fatto decisivo per il giudizio e violazione dell’art. 112 c.p.c.
La ricorrente sottolinea come l’art. 496 cit., norma che prevedeva la sanzione disciplinare poi inflitta, richiedeva la sussistenza di sentenza irrevocabile di condanna o l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici o della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, oltre che, in ogni caso, il manifestarsi dell’illecito attraverso atti non conformi ai doveri specifici inerenti la funzione, tali da denotare l’incompatibilità del soggetto a svolgere i compiti del proprio ufficio.
La corrispondente questione, sostiene la ricorrente, non sarebbe stata esaminata nonostante essa fosse stata sollevata con il terzo motivo di appello, che la Corte aveva confuso con il quarto, sicché la sentenza doveva essere, sul punto, cassata.
1.1 Il motivo è inammissibile.
1.2 La Corte territoriale fa riferimento ad un terzo motivo di appello con cui veniva posto in risalto che il provvedimento sanzionatorio non aveva «tenuto conto del contenzioso disciplinare … e giudiziale», del quale tuttavia «non era stata fatta menzione alcuna nell’atto di contestazione degli addebiti». Riferisce poi di altre censure ed altri motivi, ma mai riporta una censura fondata sul tenore letterale e sull’assenza delle ipotesi di cui all’art. 496 d. lgs. 297/1994.
Analogamente non vi è menzione, di un motivo così formulato, neanche nella parte della sentenza dedicata alla narrativa processuale.
1.3 In proposito, vale il principio per cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura «è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze, nel ricorso per cassazione, siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini, ovvero per riassunto del loro contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne la ritualità e la tempestività e la decisività delle questioni prospettatevi» (Cass. 4 luglio 2014, n. 15367; Cass. 19 marzo 2007, n. 6361).
Il ricorso per cassazione riporta un genericissima narrativa dei motivi di appello successivi al primo (pag. 47) e poi sostiene puramente e semplicemente, senza trascrivere il contenuto della censura, di avere insistito per l’incoerenza della decisione di primo grado rispetto al disposto dell’art. 496 cit.
Ma tale modalità di formulazione si pone in contrasto con i presupposti giuridici e di rito di cui all’art. 366, co. 1, c.p.c. e con i principi di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, al n. 4 della predetta disposizione, da cui si trae, nel contesto comune del principio di specificità, l’esigenza che l’argomentare sia idoneo a manifestare la pregnanza (ovverosia la decisività) del motivo, attraverso non solo il richiamo agli atti che possono sorreggerlo, ma con I’ inserimento logico del contenuto rilevante di essi nell’ambito del ragionamento impugnatorio.
2. Il secondo motivo è formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. e denuncia la violazione dell’art. 55 d. lgs. 165/2001, dell’art. 7 d. lgs. 297/1991, nonché la violazione dei principi del giusto procedimento e di quelli in tema di recidiva, sostenendo che la sanzione sia stata infine applicata tenendo conto di precedenti che non erano stati oggetto di contestazione.
La Corte d’Appello ha ritenuto che i precedenti disciplinari richiamati non risultassero aver inciso «particolarmente» sulla determinazione della sanzione, ma ha altresì ritenuto – ed il profilo è assorbente – che la recidiva ed i precedenti dovessero essere oggetto di contestazione solo ove essi rientrassero nella fattispecie costitutiva dell’infrazione perseguita e non solo per evidenziare il particolare grado di gravità della mancanza, come evidentemente riteneva fosse accaduto nel caso di specie.
2.1 Il riferirsi della responsabilità ai soli fatti contestati e non ai precedenti e l’avvenuta valorizzazione di tali precedenti ai soli fini della determinazione della gravità è questione interpretativa del significato di un atto, che semmai doveva essere aggredita, come non è avvenuto, sulla base dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., sicché tale interpretazione resiste all’impugnativa sviluppata.
2.2 Per il resto, la sentenza si è adeguata al risalente e qui condiviso principio per cui «la preventiva contestazione dell’addebito al lavoratore incolpato deve riguardare, a pena di nullità della sanzione o del licenziamento disciplinare, anche la recidiva, o comunque, i procedimenti disciplinari che la integrano, solo nell’ipotesi in cui questa rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata e non già quando essa costituisca mero criterio di determinazione della sanzione proporzionata a tale mancanza» (Cass. 25 febbraio 1998, n. 2045; Cass. 23 agosto 1996, n. 7768).
3. Al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.500,00 per compensi oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso articolo 13.
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