CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 maggio 2018, n. 13924
Tributi – Reddito di impresa – Accertamento – Fatture per operazioni inesistenti – Onere della prova
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 274 del 25.6.2010 la Commissione tributaria regionale del Lazio respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la statuizione di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da”Il B. s.r.l.” annullando l’avviso di accertamento con cui l’amministrazione finanziaria, sulla scorta delle risultanze di un processo verbale di constatazione del 1/10/2005 afferente l’anno d’imposta 2004, contestava la registrazione di sei fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti emesse dalla ditta E.S. e provvedeva a rettificare la dichiarazione IVA e a recuperare maggiori imposte anche ai fini IRAP. Provvedeva anche a rideterminare il reddito di impresa conseguito dalla predetta società nell’anno di imposta 2004 ai fini IRES.
La CTR motivava il rigetto sul presupposto che gli elementi di riscontro forniti dall’ufficio non erano tali da provare che la ditta Esposito non avesse operato presso il magazzino della contribuente, che le prestazioni di facchinaggio non fossero state effettivamente eseguite e che quindi le fatture fossero riferite a operazioni inesistenti emesse da una impresa “cartiera”.
L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per la cassazione della sentenza affidato a due motivi
Resiste il B. s.r.l. con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del suo mezzo l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 54 e 56 del DPR n. 633/1972 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c..
1.a La censura è infondata.
Secondo un principio più volte affermato nella giurisprudenza di questa Corte, cui qui si intende dare continuità, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture ai fini Iva e di imposte dirette, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, ovvero non è stata posta in essere tra i soggetti indicati nella fattura, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione anche in merito alla conoscenza ovvero alla conoscibilità della fittizietà delle operazioni da parte del cessionario/committente che richiede la detrazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili e la sua mancanza di consapevolezza di partecipare ad un’operazione fraudolenta, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (cfr. Cass. sentt. n. 967/2016; n. 428/2015; n. 28683/2015; n. 12802/2011). Sul punto la Corte europea ha più volte ribadito che se — tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura o, comunque, a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione — tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato membro, senza, peraltro, esigere dal destinatario della fattura verifiche (circa la qualità di soggetto passivo IVA in capo al fatturante o la disponibilità dei beni di cui trattasi) alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto.
Ciò premesso, non può revocarsi in dubbio che l’Amministrazione possa fornire tale prova anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, l’art. 54, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917: cfr. Cass. 21953/07; Cass. n. 9108/12; n. 15741/12, in motivazione; n. 23560/12; n. 27718/13; n. 20059/2014; nello stesso senso Corte giustizia 06/07/2006, C-439/04; Id. 21/02/2006, C- 255/02; Id. 21/06/2012, C-80/11; Id. 06/12/2012, C-285/11; Id. 31/01/2013, C-642/11). In tal caso, sarà — di conseguenza — il contribuente a dover provare, in applicazione di principi ordinari sull’onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri. (Cass. n. 6229 del 2013).
Alla luce dell’esposto orientamento, le censure mosse dall’ufficio si rivelano infondate. Invero il giudice tributario di merito, investito della controversia avente ad oggetto l’atto impositivo, deve previamente valutare, con giudizio di fatto censurabile in cassazione solo per vizi attinenti alla congruità ed alla coerenza logica della motivazione, la sussistenza dei caratteri di gravità, precisione e concordanza degli indizi motivanti l’atto medesimo, esaminandoli sia singolarmente sia nel loro complesso, ed esponendo adeguatamente l’esito di tale giudizio nella motivazione della sentenza. Nel caso di specie la CTR ha ritenuto che gli elementi forniti dall’Ufficio non fossero adeguati a sostenere l’atto impositivo.
L’assenza di dotazione personale strumentale può essere, infatti compatibile con l’attività di facchinaggio, trattandosi di lavori manuali che possono essere stati svolti dal personale assunto in nero. Ne consegue che tale elemento non costituisce indizio grave tale da invertire l’onere della prova.
2. Con il secondo motivo l’Agenzia delle Entrate deduce l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione.
La censura è infondata.
Le censure motivazionali non conferiscono al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda, bensì la sola facoltà di controllare – sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale – le argomentazioni svolte dal giudice di merito, cui “spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge” (ex multis, Cass. n. 742/2015).
Di conseguenza, il preteso vizio di motivazione “può dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame dei punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione” (ex multis, Cass. n. 8718/2005). Inoltre, l’omissione o insufficienza della motivazione resta integrata solo a fronte di una totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero di una palese illogicità del tessuto argomentativo, ma non anche per eventuali divergenze valutative sul significato attribuito dal giudice agli elementi delibati, non essendo il giudizio per cassazione un terzo grado di merito (Cass. S.U. n. 24148/2013; Cass. n. 12779/2015 e n. 12799/2014).
Del resto, vai la pena di soggiungere anche in ossequio alla funzione nomofilattica che viene esercitata, esercitandosi l’ufficio motivazionale su un percorso argomentativo che presuppone, in ragione della natura presuntiva dell’accertamento, la selezione del materiale indiziario e quindi la valutazione degli elementi provvisti della necessaria concludenza probatoria, il riesame di essi, laddove non siano evidenziabili vizi logici, costituisce accertamento di merito che esula notoriamente dai limiti del controllo di logicità della motivazione affidato a questa Corte.
La CTR ha dato conto di avere esaminato gli elementi forniti ed ha effettuato una adeguata disamina della realtà fattuale, rendendo, così, possibile il controllo sulla logicità del ragionamento sviluppato per giungere alla rassegnata decisione.
3. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Condanna l’Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese processuali che liquida in complessivi €5.600,00 oltre accessori, oltre al rimborso delle spese generali.