Corte di Cassazione sentenza n. 10583 depositata il 4 maggio 2018
SOCIETA’ DI CAPITALI – SOCIETA’ PER AZIONI – COSTITUZIONE – MODI DI FORMAZIONE DEL CAPITALE – LIMITE LEGALE – CONFERIMENTI
SVOLGIMENTO IN FATTO
1. In data 10.10.2006, L.M. agiva in via monitoria nei confronti della SIAC s.r.l. innanzi al Tribunale di Imperia al fine di ottenere il pagamento della somma di Euro 12.078,64, quale parte dell’importo da quest’ultima dovuto, e sino ad allora divenuto esigibile, in virtù di una scrittura privata del 11/06/2004, con la quale la società si era riconosciuta debitrice nei suoi confronti per la somma complessiva di Euro 25.882,84, con previsione di una rateizzazione quinquennale dell’intero debito; il 30.10.2006 veniva emesso il Decreto Ingiuntivo n. 206 del 2006, avverso il quale la SIAC srl si opponeva con atto di citazione notificato in data 24.1.2007, per chiedere la dichiarazione di nullità o l’annullamento della scrittura privata perché frutto di minaccia esercitata dal socio al tempo in cui si era rivelata la necessità di provvedere a una ricapitalizzazione della società per perdite di esercizio che avevano eroso il capitale sociale, rilevate a chiusura dell’esercizio riferito al 2003, cui il socio si opponeva minacciando di non approvare il bilancio e di denunciare alle autorità competenti il mancato pagamento dell’IVA e dei contributi lavorativi dovuti ai dipendenti. Nel giudizio di opposizione il socio ricorrente si costituiva e chiedeva, in via riconvenzionale, la condanna della società al pagamento dell’intero ammontare del credito, deducendo l’intervenuta decadenza dal beneficio del termine, e il rigetto delle domande proposte dalla SIAC s.r.l. Disposto il mutamento di rito ai sensi del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 1, comma 5, la causa veniva riassunta il 27.9.2007 e, in data 25.2.2009, e il Tribunale d’Imperia, con sentenza n. 60/2009 accoglieva la domanda della società opponente di annullamento del negozio sottoscritto, revocando il Decreto Ingiuntivo n. 206 del 2006 e condannando l’opposto al pagamento delle spese di giudizio.
2. Con atto in data 5.4.2010, il socio conveniva in giudizio la SIAC s.r.l. innanzi alla Corte d’Appello di Genova, chiedendo l’integrale riforma della pronuncia di primo grado. SIAC srl resisteva al giudizio reiterando in via subordinata la domanda di nullità del negozio e di dichiarazione d’inammissibilità dell’ampliamento della domanda di pagamento svolto dal socio nel giudizio di opposizione. Con sentenza n. 637/2014, pubblicata in data 12.5.2014, la Corte d’Appello riformava integralmente la pronuncia del Tribunale d’Imperia e condannava la SIAC s.r.l. al pagamento della intera somma di Euro 25.882,84 in favore del socio, confermando il decreto ingiuntivo emesso per il minore importo sino a quel tempo maturato.
3. Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Genova, con atto notificato in data 26.6.2015, la SIAC s.r.l. proponeva ricorso innanzi a questa Corte adducendo quattro motivi d’impugnazione. Avverso tale ricorso, con atto notificato il 21.7.2015, il socio L. presentava controricorso e resisteva al primo motivo deducendo che la scrittura privata con cui la società si era impegnata a restituirgli la somma di Euro 25.882,84 non era frutto di minaccia, reputando gli altri motivi “irrilevanti”. Per giudizio camerale il pubblico ministero depositava conclusioni scritte per chiedere l’accoglimento del secondo motivo di ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La sentenza della Corte d’appello di Genova ha accolto l’appello del socio in base a una scrittura del 11/06/2004, contenente una ricognizione di debito da parte della società a favore del socio L., stipulata al momento della sua uscita dalla compagine sociale, rilevando che la prospettazione di denunciare fatti inerenti alla scorretta gestione societaria e di non approvare il bilancio chiuso al 2003, prospettata dal socio L. “non poteva integrare una minaccia, perché la minaccia di esercitare un diritto ha efficacia invalidante solo se effettuata per conseguire non il risultato ottenibile con l’esercizio di un diritto, ma vantaggi ingiusti, cioè abnormi o diversi da detto risultato o obiettivamente iniqui e esorbitanti rispetto al dovuto”. La Corte territoriale ha ritenuto che il negozio sottoscritto dalla società a favore del socio non potesse essere invalidato per la dedotta violenza ex art. 1438 c.c., poiché il socio aveva esercitato il diritto di ottenere in restituzione quanto versato il 16/8/2002 per acquisire la quota del 10% della società, e precisamente Euro 2.267,00 pari al suo valore nominale e Euro 23.556,00 a titolo di sovrapprezzo, atteso che solo dopo pochi mesi era stato reso edotto delle perdite accumulate dalla società e della necessità di ricapitalizzarla, fatto che avrebbe vanificato di fatto la sua partecipazione e che poteva indurre il sospetto che il sovrapprezzo versato per acquisire la quota nel 2002 fosse in realtà ingiustificato. La Corte inoltre rilevava che, ciò malgrado, il socio aveva prestato la sua attività lavorativa nella società con il miraggio di un’assunzione che non era mai intervenuta. Quindi la circostanza che avesse prospettato al commercialista la possibilità di far valere i suoi diritti di socio in sede assembleare, votando contro il bilancio ancora da approvare, e di segnalare le irregolarità contabili e fiscali riscontrate nel corso della sua collaborazione, non poteva integrare la condotta di minaccia sanzionata dall’art. 1438 c.c..
1.1. Con il primo motivo d’impugnazione, la SIAC s.r.l. deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1438 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) da parte del giudice di secondo grado, laddove, in accoglimento dell’appello del socio, ha rilevato che il negozio stipulato trovasse ragione nel diritto del socio di ottenere in restituzione quanto versato dal socio per l’acquisizione della partecipazione pari al 10% della quota di capitale della società che, dopo pochi mesi, si trovava in situazione di perdita, e che pertanto non potesse essere invalidato ex art. 1438 c.c.. Sostiene invece la società ricorrente che il giudice di secondo grado abbia fatto scorretta applicazione dei principi di diritto enunciati laddove ha ritenuto “giusti” i vantaggi che il socio mirava a realizzare; la società ricorrente lamenta, poi, la sommarietà e cripticità, frutto di un travisamento degli atti di causa, della motivazione della sentenza in ordine alla “non ingiustizia” del danno minacciato, tali da non consentire una censura sulla logicità e sulla coerenza della stessa, in quanto la pronuncia non indica con chiarezza sulla scorta di quali elementi sia stata condotta l’analisi della fattispecie e si sia formato il convincimento dei giudici. Rileva la società ricorrente che, al fine di giustificare la scrittura privata, priva di causa, la società aveva fatto apparire come versate dal socio un importo corrisposto in contanti da G.G. (Amministratore Unico della società) il 2/4/2004 per 20.500 e il 7/04/2004, simulando un credito verso il socio.
1.2. Con il secondo e terzo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la società ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., poiché la Corte d’Appello avrebbe omesso di esaminare le domande del primo grado rimaste assorbite per effetto dell’accoglimento della domanda di annullamento del negozio, per quanto reiterate in sede di costituzione nel giudizio di appello. In particolare, la SIAC srl si duole di tale violazione con riguardo a due diversi profili. Il primo profilo, attiene all’erronea interpretazione o falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., avuto riguardo all’omesso esame dell’eccezione d’inammissibilità della riconvenzionale del socio opposto, avente ad oggetto la condanna della società al pagamento dell’intero credito portato nella scrittura privata di ricognizione di debito, sull’assunto della intervenuta decadenza dal beneficio del termine di rateizzazione del debito, una volta constatata l’opposizione al pagamento da parte della società. La domanda riconvenzionale avrebbe ampliato il thema decidendum fissato nella domanda monitoria che, nel caso di specie, era riferito a un importo minore di Euro 12.078,64 (e non dell’intero credito di Euro 25.882,84) sino ad allora maturato e rimasto insoluto. Con riguardo al secondo profilo, la società deduce il mancato esame della domanda volta ad ottenere la declaratoria di nullità della scrittura privata di ricognizione di debito per insussistenza di una giusta causa, rilevabile anche ex officio ai sensi dell’art. 1421 c.c.. Quanto a questa domanda, la società ricorrente deduce che la nullità del negozio deriva dal fatto che la ricognizione di debito è stata rilasciata a favore del socio in violazione dei principi che regolano le società di capitali essendo un negozio attraverso cui la società ha inteso far conseguire al socio il diritto a ottenere l’importo di Euro 25.882,84 del tutto corrispondente a quanto versato a titolo di conferimento in conto capitale di rischio e di sovrapprezzo al tempo dell’acquisto della quota sociale. Tale ricognizione di debito, non corrispondente a una posta debitoria della società nei confronti del socio, non sarebbe pertanto assistita da una iuxta causa, atteso che intende neutralizzare ex post il rischio imprenditoriale cui si è sottoposto il socio con la sottoscrizione della quota sociale.
1.3. Con il quarto motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la società ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., laddove la Corte d’Appello di Genova non ha pronunciato in ordine alle istanze istruttorie formulate dalla SIAC s.r.l., non ammesse in primo grado, ma riproposte con comparsa di costituzione e risposta dalla società nel giudizio di secondo grado, con riguardo a capitoli 1, 2, 3, 4, 5, 9, e 12 dedotti con l’atto di citazione e indicati come decisivi ai fini della decisione.
1.4. Osserva la Corte che l’esame del terzo motivo, attinente alla omessa considerazione, da parte della Corte d’appello, della domanda di declaratoria di nullità della scrittura privata di ricognizione di debito, si pone come questione pregiudiziale, atteso che il suo accoglimento è in grado di determinare l’assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso. In proposito, si rileva preliminarmente che l’ appellato che ha visto accogliere nel giudizio di primo grado la sua domanda principale è tenuto, per non incorrere nella presunzione di rinuncia di cui all’art. 346 c.p.c., a riproporre espressamente, in qualsiasi forma indicativa della volontà di sottoporre la relativa questione al giudice d’appello, la domanda non esaminata dal primo giudice, non potendo quest’ultima rivivere per il solo fatto che la domanda principale sia stata respinta dal giudice dell’impugnazione (ex multis, Sez. 2, Cass. n. 7457 del 14/04/2015). Allo stesso modo, nel procedimento d’impugnazione la parte processuale non ha l’onere di formulare uno specifico motivo di gravame sulla questione assorbita, ma solo di riproporla nel rispetto dell’art. 346 c.p.c. (Sez. 6-3 Cass., Ordinanza n. 24658 del 19/10/2017; Sez. 2 Cass., Sentenza n. 23531 del 09/10/2017; Sez. U – Cass., Sentenza n. 11799 del 12/05/2017; Sez. L., Cass. sentenza n. 24124 del 28/11/2016). Orbene, si deve rilevare che la domanda di declaratoria di nullità del negozio, reiterata in sede di comparsa di costituzione in appello, non è stata delibata dal giudice di primo grado, né risulta implicitamente respinta per effetto dell’accoglimento della domanda di annullamento del negozio, riposta su altri presupposti di fatto e di diritto e, pertanto, non può intendersi come rinunciata o sottoposta alle formalità e decadenze dell’impugnazione incidentale. Il terzo motivo di ricorso è pertanto fondato, perché detta domanda necessitava di essere oggetto di una delibazione del tutto pretermessa dalla Corte territoriale.
1.5. In proposito, deve rilevarsi che il negozio di ricognizione di debito a favore del socio, per ammissione dello stesso socio, trova ragione nella restituzione del conferimento versato dal socio al tempo della sottoscrizione della quota sociale, comprensivo del valore nominale della partecipazione e del sovrapprezzo allora determinato. La deduzione d’invalidità del negozio è fondata con riguardo al profilo di nullità di cui all’art. 1418 c.c., rilevabile d’ufficio, in quanto un siffatto negozio non solo è da considerarsi privo di giusta causa, come dedotto dalla ricorrente, ma si pone in aperto contrasto con le norme imperative che regolano la materia delle società di capitale, normalmente inderogabili nel loro contenuto precettivo. Alla luce del ruolo che l’ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell’assetto negoziale, anche il giudice di merito ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti “ex actis”, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime speciale (escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta, v. Sez. U, Sentenza n. 14828 del 04/09/2012). Di questa stregua, deve considerarsi che il socio di una società a responsabilità limitata non potrebbe mai vantare un diritto di restituzione del conferimento in conto capitale versato al tempo della sottoscrizione della partecipazione sociale, posto che il conferimento fa parte del capitale di rischio della società e non costituisce un finanziamento su cui il socio può vantare un diritto di restituzione. Un diritto restitutorio del conferimento non emerge neanche in caso di recesso del socio di una società a responsabilità limitata nelle ipotesi in cui il recesso può essere esercitato per disposizione di legge o di Statuto, ai sensi dell’art. 2473 c.c. (come, ad esempio, nel caso di revoca dello stato di liquidazione, di modifica dell’oggetto sociale, di trasformazione della società, d’introduzione della clausola compromissoria nello statuto, di mancata fissazione del termine di durata della società). E anche ove sia previsto un diritto di exit a favore del socio, il recesso non dà diritto alla restituzione del conferimento versato, ma alla liquidazione della quota in base al valore del tempo in cui detto diritto viene esercitato, ai sensi dell’art. 2473 c.c., comma 3.
1.6. Nel caso di specie, la società versava in una situazione di riduzione al di sotto del minimo legale, ai sensi dell’art. 2447 c.c. e pertanto, a fronte della necessità di ricostituire il capitale della società o di liquidarla (versando la società in una classica in situazione di scioglimento), il socio non avrebbe potuto esercitare un diritto di recesso con restituzione del conferimento versato. In tal caso, il socio dissenziente, avrebbe potuto solo esprimere il proprio dissenso rispetto alla Delib. assembleare di approvazione del bilancio e di ricostituzione del capitale, eventualmente impugnando la decisione della maggioranza (Sez. 1 – Cass., Sentenza n. 21889 del 25/09/2013), ovvero avrebbe potuto determinarsi a non esercitare il diritto di sottoscrizione dell’aumento di capitale in proporzione alla quota di capitale posseduta, come previsto nell’art. 2481 bis c.c., in tema di diritto di opzione (ovvero di diritto di sottoscrizione, così come definito) nella società a responsabilità limitata. Il negozio di ricognizione di debito in esame, pertanto, non trova alcuna giustificazione in un corrispondente diritto di recesso del socio, né tantomeno in un diritto del socio a vedersi restituito il conferimento versato in conto capitale e, conseguentemente, si pone in aperto contrasto con le norme di sistema. Tale negozio, nei fatti, ha consentito al socio di uscire dalla compagine sociale e liberarsi del rischio d’impresa assunto con la sottoscrizione del capitale sociale, in ciò intaccando la stessa ragion d’essere del contratto di società (art. 2247 c.c.). Ed invero, in materia societaria, è da considerare nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite. La disposizione di cui all’art. 2265 c.c., valevole per ogni tipo di società, impone il divieto del cd. patto leonino, vale a dire di quel patto che consente ad uno o più soci di prevaricare gli altri, escludendoli dagli utili o dalle perdite. La nullità del patto leonino è quindi connessa alla natura dell’attività economica svolta dalla società e allo scopo comune perseguito dai soci. Conseguentemente, un patto che consente al socio di recedere dalla società ottenendo in restituzione il conferimento in conto capitale versato tradisce, in egual modo, la ragion d’essere del contratto di società.
1.7. Per quanto riguarda il sovrapprezzo versato dal socio, che costituisce la parte in eccedenza versata dal socio al momento della sottoscrizione del capitale, occorre più in generale considerare che, nell’ambito delle società di capitale, i versamenti effettuati dai soci in conto capitale, ovvero indicati come conferimenti, sebbene in alcuni casi non diano luogo a un immediato incremento del patrimonio sociale e non attribuiscano alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale, hanno tuttavia una causa che, di regola, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile a quella del capitale di rischio: siffatti versamenti non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società e possono essere chiesti dai soci in restituzione soltanto per effetto dello scioglimento della società, nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione. Tra la società e i soci può anche essere convenuta l’erogazione di capitale di credito, potendo i soci effettuare versamenti in favore della società a titolo di mutuo (con o senza interessi), riservandosi il diritto alla restituzione anche durante la vita della società, fermo restando che è a carico del socio l’onere di fornire la prova del titolo posto a fondamento della domanda. L’indagine sul punto deve tenere conto sia della eventuale sussistenza di una clausola statutaria che detti versamenti preveda, sia della riconducibilità alla stessa dell’erogazione e soprattutto, al di là della denominazione con la quale il versamento è stato registrato nelle scritture contabili della società, del modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, tenendo conto delle finalità pratiche perseguite, degli interessi implicati e della reale intenzione dei soggetti – socio e società – tra i quali il rapporto si è instaurato (v. sul punto, Sez. 1, Cass., Sentenza n. 7980 del 30/03/2007). Le stesse considerazioni si traggono dall’art. 2467 c.c., comma 2, sulla postergazione dei crediti dei soci delle società a responsabilità limitata, che distingue i finanziamenti dai conferimenti e detta anche un regime speciale riguardo alla restituzione dei finanziamenti dati in situazione di sottocapitalizzazione della società, assimilandoli ai conferimenti (Sez. 1, Cass. Sentenza n. 16393 del 24/07/2007). In particolare, il soprapprezzo svolge la funzione di assicurare che le partecipazioni siano collocate ad un prezzo corrispondente al valore effettivo del patrimonio sociale (Trib. Bari, ord. del 4/06/2010, in LeSocietà 2010, 1192 e s. e in Foro italiano, 2010,1,3225). Ragionando alla stessa stregua, sulla natura del sovrapprezzo versato dal socio per acquisire la partecipazione sociale si può fare un’ affermazione certa, nel senso di interpretarlo sempre come un versamento del socio a favore della società, assimilabile al capitale di rischio, in considerazione del fatto che per il sovrapprezzo vi è una voce nel bilancio della società di capitale che lo imputa come “fondo riserva sovrapprezzo” e come parte del patrimonio netto della società. In tale caso il socio, proprio in ragione del vincolo dato dal fondo di riserva, non ha un diritto di restituzione di quanto versato come sovrapprezzo se non al momento della liquidazione della quota, ove tale apporto dovrà essere considerato unitamente agli altri elementi che costituiscono il valore del patrimonio della società al tempo della liquidazione. Tale apporto, pertanto, costituisce una riserva di capitale e non di utili appostata nel patrimonio netto della società, soggetta alla disciplina della “riserva sovrapprezzo. La disciplina del soprapprezzo prevede che il relativo fondo, fino al momento dell’integrale costituzione della riserva legale, non sia disponibile per intero o, secondo un’interpretazione meno restrittiva, solo per la parte corrispondente alla quota di riserva legale mancante. Verificatesi comunque le condizioni di disponibilità, l’eventuale eccedenza del fondo di soprapprezzo diventa assimilabile a una qualsiasi riserva facoltativa, distribuibile a seguito di una semplice decisione dell’assemblea ordinaria, ai sensi dell’art. 2431 c.c.. Nello stesso senso si pone anche una risalente pronuncia di questa Corte secondo cui “il cosiddetto sovrapprezzo azionario riscosso dalle società di capitali sulle azioni di nuova emissione in dipendenza di una deliberazione di aumento di capitale, ai fini dell’imposta di registro ha natura di conferimento al patrimonio sociale e non di reddito” (Sez. 1 – Cass., Sentenza n. 488 del 25/03/1965).
1.8. Le conseguenze, in termini di disciplina, di tale impostazione, sono facilmente immaginabili. Una volta che gli apporti in conto capitale siano confluiti nel coacervo del patrimonio comune, è escluso che i soci eroganti, finché dura la società, possano esercitare pretese restitutorie. Quindi, a differenza dei finanziamenti, cioè dei prestiti, i versamenti in questione non generano crediti esigibili dei soci nei confronti della società; la definitiva aggregazione al patrimonio netto dell’ente – dotato per tale via di ulteriori mezzi propri di cui poter disporre evidentemente non sarebbe possibile se l’acquisizione delle somme erogate fosse bilanciata, al passivo, da debiti per restituzione di pari importo in favore dei soci. Pertanto, i soci possono chiedere la restituzione delle somme versate solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione (quindi, dopo la liquidazione di tutte le passività sociali). I suddetti versamenti, tuttavia, in caso di saturazione della riserva legale, possono essere distribuiti durante societate e le relative somme andranno ripartite tra i soci (non in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al capitale da ciascuno possedute ma) in misura corrispondente a quanto da ognuno versato; in diversi termini, la riserva formata con detti apporti sarà distribuita nel corso della vita normale della società ai sensi e nei limiti dell’art. 2431 c.c., con delibera dell’assemblea ordinaria (cfr. Sez. 1 – Cass., Sentenza n. 16393 del 24/07/2007).
1.9. Alla luce di quanto sopra, la fattispecie in esame deve essere regolata secondo il seguente principio di diritto: il negozio di ricognizione di debito rilasciato dalla società di capitale a favore del socio, attraverso cui la società intende far conseguire al socio il diritto di recedere dalla società e di ottenere un importo del tutto corrispondente a quanto versato a titolo di conferimento in conto capitale e di sovrapprezzo al tempo della sottoscrizione della partecipazione sociale, è nullo per contrarietà alle norme imperative ai sensi dell’art. 1418 c.c.. Una siffatta ricognizione di debito, in quanto non corrispondente a una posta debitoria della società nei confronti del socio, intende neutralizzare il rischio imprenditoriale cui si sottopone incondizionatamente il socio con la sottoscrizione del capitale sociale ed è pertanto in contrasto con i principi che regolano il contratto sociale. Conseguentemente, la Corte accoglie il terzo motivo e conferma, correggendo la motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., la sentenza di primo grado e dichiarando nullo il negozio di ricognizione di debito dell’11 giugno 2004. In ragione dell’accoglimento della domanda di declaratoria di nullità del negozio in esame, che priva di ogni effetto il negozio sottoscritto, gli ulteriori motivi di ricorso – collegati alla domanda di annullamento del negozio per vizio del consenso – rimangono assorbiti.
1.10. Per l’effetto, cassa la sentenza impugnata, condanna il contro-ricorrente alle spese che liquida, per il secondo grado, nella medesima misura della sentenza impugnata e, per il giudizio di cassazione, in Euro 4.131,00, oltre spese di Euro 200,00 e spese forfetarie al 15%, e oneri di legge.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo, assorbiti gli altri motivi;
Cassa la sentenza impugnata e conferma la sentenza di primo grado; condanna il controricorrente alle spese che liquida, per secondo grado nella medesima misura delle sentenza impugnata e, per il giudizio di cassazione, in Euro 4.131,00, oltre spese di Euro 200,00 e spese forfetarie al 15%, e oneri di legge.
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