CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 10993 depositata il 26 aprile 2023

Tributi – Avviso di accertamento – IVA – IRES – Compravendita immobiliare – Deduzione degli interessi passivi – Clausola di salvaguardia di cui al D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2 – Domicilio digitale – Assorbimento esplicito ed improprio – Impugnazioni – Accoglimento – i motivi di annullamento dell’atto impositivo si configurano come causae petendi della domanda proposta (e per questa ragione non potrebbero esserne proposti di nuovi e diversi in appello), ed identificano altrettante distinte domande, e non delle mere eccezioni dirette a paralizzare la pretesa avversariainteresse ad agire in appello

Fatti di causa

1. L’Agenzia delle Entrate aveva notificato, in data 11 dicembre 2014, alla società V.R. s.r.l. l’avviso di accertamento n. (…), per l’anno 2007, con il quale, ai fini IVA, aveva disconosciuto la detrazione di Euro 2.100.000,00, operata sull’acquisto di un complesso immobiliare sito in (…) (imponibile 9.790.000 Euro), e la detrazione di Euro 55.064,00, relativa ad altri costi correlati all’acquisto dell’immobile (perizia estimativa, costi notarili, costi di consulenza ed acconti per prestazioni di progettazione e di appalto); aveva disconosciuto, ai fini IRES, costi per oneri finanziari connessi alla erogazione dei finanziamenti per Euro 57.509,00, con conseguente ricalcolo della perdita IRES da 58.437,00 a 948,00 Euro e aveva liquidato, per effetto di tali contestazioni, la maggiore imposta IVA dovuta in 2.155.064,00 Euro e irrogato sanzioni pari a 2.693.830 Euro.

2. L’Ufficio, inoltre, con avviso di accertamento n. (…), per l’anno 2009, notificato in data 11 dicembre 2014, aveva disconosciuto la deduzione degli interessi passivi per 366.409,00 Euro sui finanziamenti a suo tempo ottenuti in relazione all’operazione immobiliare, ricalcolato l’imponibile IRES da una perdita di 363.187,00 Euro ad un reddito imponibile di 3.222,00 Euro, con una maggiore imposta accertata di 886,00 Euro e sanzioni irrogate per complessivi Euro 1.618.216,00.

3. La Commissione tributaria provinciale di Venezia, adita dalla società contribuente con un unico ricorso per entrambi gli avvisi di ricevimento, con la sentenza n. 673-2016, aveva accolto parzialmente il ricorso. Relativamente all’accertamento per l’anno 2007, i giudici di primo grado avevano ritenuto non condivisibile la giurisprudenza di Cassazione secondo la quale per gli avvisi di accertamento già notificati non si applicasse la clausola di salvaguardia di cui al d.lgs. n. 128 del 2015, art. 2 dovendosi applicare la norma della l. 208 del 2015, art. 1 comma 132, secondo la quale la denuncia doveva essere presentata entro il termine previsto per la notifica dell’accertamento e, poiché l’ufficio aveva affermato, che una prima denuncia era stata presentata il 23 marzo 2012 e una seconda il 23 gennaio 2013, la Commissione di prima istanza aveva annullato l’accertamento per intervenuta decadenza. Quanto all’accertamento per l’anno 2009, i giudici di primo grado avevano osservato che, contrariamente a quanto dedotto dalla società, l’Agenzia delle Entrate non aveva recuperato i costi finanziari perché relativi a beni o prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività illecite, bensì perché aveva ritenuto che il corrispettivo indicato nell’atto di compravendita fosse stato interamente simulato e che i finanziamenti richiesti ed ottenuti fossero serviti non per pagare quel corrispettivo, ma per altri scopi, in parte ricostruiti, del tutto estranei all’attività d’impresa e quindi indetraibili e per tale ragione aveva confermato l’avviso di accertamento.

4. La Commissione tributaria regionale, adita dall’Agenzia delle Entrate e dalla società contribuente, in parziale accoglimento dell’appello proposto, ha accolto il motivo di appello dell’Ufficio fondato sulla violazione del d.p.r. n. 600 del 1973, artt. 43 comma 3 e del d.p.r. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, e ha rigettato, per il resto, entrambi gli appelli, confermando la sentenza impugnata.

5. I giudici di secondo grado, per quel che rileva in questa sede, hanno dichiarato inammissibile il secondo motivo di impugnazione proposto dall’Agenzia delle Entrate ex d.lgs. n. 546 del 1991, art. 53 comma 1 (ndr d.lgs. n. 546 del 1992, art. 53 comma 1), poiché il mero rinvio da parte dell’Agenzia delle Entrate a quanto esposto in precedenza non era idoneo a soddisfare l’obbligo di indicare “i motivi specifici dell’impugnazione”, come affermato anche da consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione. In particolare, la Commissione tributaria regionale ha evidenziato che:

-) nel secondo motivo, pure in relazione all’avviso di accertamento per l’anno 2007, l’Ufficio aveva riproposto l’eccezione sulla definitività dell’IVA sulle fatture emesse dalla società C.I. s.r.l. e dalla società D. s.r.l., in quanto non sarebbero state oggetto di impugnazione;

-) sul punto la Commissione tributaria provinciale aveva ritenuto che, ancorché il frontespizio del ricorso recasse la richiesta di annullamento “dell’avviso… avente ad oggetto l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria per l’anno 2007”, le conclusioni chiedevano di accertare l’avvenuta decadenza o comunque annullare l’avviso di accertamento;

-) tenuto conto anche delle argomentazioni esposte, si doveva ritenere che il ricorso esprimesse la volontà di impugnare l’intero atto impositivo;

-) per quanto concerneva l’avviso di accertamento per l’anno 2007, la Commissione tributaria provinciale non si era espressamente pronunciata sui motivi di ricorso concernenti il merito della causa, perché ritenuti assorbiti dall’accoglimento dell’eccezione di decadenza; -) allo scopo di ottenere l’esame ed il rigetto di tali motivi l’Agenzia delle Entrate si era limitata alla mera trascrizione di quanto esposto nelle controdeduzioni al ricorso introduttivo;

-) le controdeduzioni di parte contribuente risultavano assorbite da quanto precedentemente esposto in ordine al rigetto dell’appello dell’Amministrazione finanziaria;

-) per le ragioni sovraesposte, l’appello dell’Agenzia delle Entrate andava accolto limitatamente al riconoscimento della tempestività dell’avviso di accertamento per l’anno 2007, del quale andava, però, confermato l’annullamento quale conseguenza dell’omessa impugnazione del capo di sentenza che aveva ritenuto assorbiti i motivi del ricorso introduttivo concernenti il merito della contestazione.

6. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato ad un unico motivo.

7. La società V.R. s.r.l. non ha svolto difese.

8. La Procura Generale della Corte di Cassazione ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente va rilevato che il ricorso è tempestivo.

1.1 La L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 6 del decreto (convertito con modificazioni dalla l. 17 dicembre 2018, n. 136), al comma 11, prevede che “Per le controversie definibili sono sospesi per nove mesi i termini di impugnazione, anche incidentale, delle pronunce giurisdizionali e di riassunzione, nonché per la proposizione del controricorso in Cassazione che scadono tra la data di entrata in vigore del presente decreto e il 31 luglio 2019”.

La sentenza impugnata è stata depositata in data 19 dicembre 2018 e il termine di impugnazione scadeva il 19 giugno 2019, termine prorogato di nove mesi (19 marzo 2020) per effetto della disposizione in commento; il ricorso, notificato a mezzo PEC in data 16 marzo 2020 è, pertanto, tempestivo.

2. Sempre in via preliminare, va rilevato che correttamente la notifica del ricorso per cassazione è stata eseguita all’indirizzo pec della società contribuente.

2.1 Come ribadito, anche di recente, da questa Corte, ogni imprenditore, individuale o collettivo, iscritto al registro delle imprese, è tenuto a dotarsi di indirizzo di posta elettronica certificata, ex d.l. n. 185 del 2008, art. 16 convertito, con modificazioni, dalla l. n. 2 del 2009 (Cass. 2 marzo 2022, n. 6866; Cass. 7 ottobre 2021, n. 27348). Tale indirizzo costituisce l’indirizzo “pubblico informatico” che i predetti hanno l’onere di attivare, tenere operativo e rinnovare nel tempo sin dalla fase di iscrizione nel registro delle imprese (per il periodo successivo alla entrata in vigore delle disposizioni da ultimo citate), e finanche per i dodici mesi successivi alla eventuale cancellazione da esso, la cui responsabilità, sia nella fase di iscrizione che successivamente, grava sul legale rappresentante della società, non avendo al riguardo alcun compito di verifica l’Ufficio camerale (Cass. 26 giugno 2018, n. 16864). A seguito, peraltro, dell’istituzione del cd. “domicilio digitale”, di cui al decreto L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16 sexies, convertito con modificazioni dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, come modificato dal decreto L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, le notificazioni e comunicazioni degli atti giudiziari, in materia civile, sono ritualmente eseguite presso un indirizzo di posta elettronica certificata estratto da uno dei registri indicati dal d.lgs. n. 82 del 2005, artt. 6bis, 6 quater e 62, nonché dall’art. 16, comma 12 stesso decreto e dal d.l. n. 185 del 2008, art. 16, comma 6, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 2 del 2009, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della Giustizia e, quindi, indistintamente, dal registro denominato INI-PEC e da quello denominato Re.G.Ind.E. (Cass. 3 febbraio 2021, n. 2460).

2.2 Tanto premesso, risulta dalla relazione di notifica in calce al ricorso per cassazione, che il difensore della società V.R. s.r.l., alla data di notifica del ricorso, non figurava tra gli iscritti all’Albo dei commercialisti e degli esperti contabili, né negli elenchi pubblici degli indirizzi pec dei professionisti (INI-PEC, REGINDE), con la conseguente spedizione dell’originale informatico del ricorso per cassazione ai seguenti indirizzi: (…) e (…).

3. Con il primo ed unico motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la falsa applicazione del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 53 comma 1, e la violazione dell’art. 346 c.p.c.. La decisione della Commissione tributaria regionale era errata, laddove aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello in quanto, nel riproporre le difese rispetto alle eccezioni e alle domande proposte dall’appellato in primo grado, il gravame si era limitato a fare rinvio agli argomenti spesi dinnanzi al primo giudice. La Commissione tributaria provinciale di Venezia aveva parzialmente accolto il ricorso della contribuente, ritenendo fondata l’eccezione sulla tardività dell’avviso di accertamento relativo all’anno 2007, in ragione della ritenuta inapplicabilità del c.d. raddoppio dei termini di accertamento previsti dal d.p.r. n. 600 del 1973, artt. 43, comma 3, e dal d.p.r. n. 633 del 1972, 57, comma 3. La Commissione tributaria provinciale, si era, quindi, astenuta dall’esaminare le ulteriori questioni poste dalla contribuente in relazione a tale avviso di accertamento, ritenendole correttamente assorbite in virtù dell’accoglimento dell’eccezione pregiudiziale di decadenza dell’Agenzia delle Entrate dal potere di accertamento. Nel proprio appello l’Ufficio aveva censurato tale capo della sentenza, ritenendolo frutto di una travisata lettura delle disposizioni normative rilevanti e i giudici di secondo grado nulla avevano obiettato riguardo all’ammissibilità di tale mezzo di censura, che avevano, anzi, dichiarato di accogliere. Nell’appello, l’Ufficio, pur non avendone alcun onere, aveva poi riproposto le proprie difese di primo grado riguardo agli ulteriori motivi di ricorso proposti dalla società e ciò nell’eventualità che la contribuente riproponesse tali mezzi di censura, devolvendoli così al giudice di secondo grado. Era, infatti, onere dell’appellato, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., riproporre le domande e le eccezioni non accolte dal giudice di primo grado. L’appellante, a fronte di tale riproposizione poteva anche omettere di prendere posizione, senza che ciò incidesse sull’ammissibilità dell’appello. Tanto più era lecito, per l’appellante, riproporre, anche in prevenzione rispetto alla riproposizione delle domande e delle eccezioni assorbite, le medesime difese già sviluppate in primo grado, sulle quali il primo giudice non si era pronunciato (onde non sarebbe stato neanche possibile muovere specifiche censure, sul punto, alla sentenza di primo grado).

3.1 Il motivo è fondato.

3.2 Si deve premettere che, nel sistema del contenzioso tributario, il thema decidendum sul quale il giudice dell’appello è chiamato, e deve limitarsi, a pronunciare concerne, oltre alle questioni rilevabili d’ufficio (pregiudiziali o conseguenti), quelle sollevate specificamente dall’appellante col motivi d’impugnazione, quelle oggetto di eccezioni esaminate e ritenute fondate dal primo giudice, quelle nuove che l’appellato sia tuttora legittimato a sollevare in procedimenti svoltisi in primo grado nella vigenza del d.p.r. n. 636 del 1972, e, se e in quanto espressamente riproposte dall’appellato, quelle non esaminate o non accolte da detto giudice (Cass. 9 giugno 2000, n. 7907).

In proposito questa Corte ha affermato che, al fine di ridurre la portata del principio appena affermato, non vale invocare il fatto che il processo tributario ha ad oggetto il rapporto tributario e non la legittimità dell’atto. La corretta identificazione dell’oggetto del giudizio nel rapporto sostanziale non contraddice il fatto che il processo tributario è configurato come impugnazione di atti. Ed invero, nei processi che hanno tale struttura, formalmente è il contribuente che assume la veste di attore, sicché è questi che, con le ragioni poste a fondamento della domanda di annullamento dell’atto impositivo, delimita il thema decidendum, anche se poi l’onere della prova della pretesa fiscale, in relazione ai fatti contestati, grava sull’Amministrazione. Per questa ragione, i motivi di annullamento dell’atto impositivo si configurano come causae petendi della domanda proposta (e per questa ragione non potrebbero esserne proposti di nuovi e diversi in appello), ed identificano altrettante distinte domande, e non delle mere eccezioni dirette a paralizzare la pretesa avversaria (Cass. 12 luglio 2016, n. 14190).

Va, ancora, osservato, che, nei gradi di impugnazione, il principio dell’interesse ad agire si configura diversamente rispetto al giudizio di primo grado, dovendosi tener conto dell’intervenuta pronuncia della sentenza di primo grado, idonea ad assumere la consistenza del giudicato per le parti non impugnate, a causa dei limiti dell’effetto devolutivo dell’appello. Ne discende che, nel decidere sulla sussistenza di tale interesse, e quindi sull’ammissibilità dell’impugnazione proposta, si deve aver riguardo agli effetti che potrebbero derivare dal suo accoglimento e alla loro idoneità a soddisfare un interesse della parte impugnante in relazione ai temi del giudizio. Pertanto, l’interesse, ed il conseguente onere, della parte soccombente ad impugnare è esteso, e nel contempo limitato, alle sole rationes decidendi poste a base della sentenza, ma non coinvolge le questioni sulle quali questa non si sia pronunciata, perché ritenute assorbite (Cass. 12 luglio 2016, n. 14190; Cass., 8 ottobre 2001, n. 12700).

3.3 Ciò premesso in tema di thema decidendum sul quale il giudice di appello è chiamato a decidere e di interesse ad agire nel giudizio di impugnazione, come precisato da questa Corte, l’assorbimento si configura come un metodo logico-argomentativo di decisione delle questioni e comporta la formale omessa pronuncia su alcune delle domande proposte, a seguito della decisione su altra domanda, ritenuta “assorbente”. Non esiste, infatti, una definizione normativa dell’assorbimento, né esiste una definizione giurisprudenziale del medesimo, trattandosi di un istituto nato nella pratica giudiziaria, che con questo termine ha finito per indicare fenomeni spesso assai diversi fra loro (Cass. 12 luglio 2016, n. 14190, citata; Cass. 6 giugno 2006, n. 13259).

Questa Corte, inoltre, ha precisato che, in mancanza di una definizione normativa del concetto di assorbimento, quest’ultimo lemma è stato utilizzato per designare situazioni eterogenee. Innanzitutto, si ritiene comunemente la sussistenza di un’ipotesi di assorbimento nel caso in cui la decisione sulla domanda cd. “assorbita” diviene superflua perché la parte non vi ha più interesse, avendo già con la decisione cd. “assorbente” ottenuto la tutela richiesta nel modo più pieno (ad esempio, perché è stata adottata una decisione su domanda “comprensiva” dell’altra). Ma si parla anche di assorbimento in tutte quelle ipotesi in cui, dopo la decisione cd. assorbente, non vi è più necessità di provvedere sulle altre questioni (ad es.: rigetto della impugnazione principale in rapporto alle impugnazioni incidentali condizionate), oppure non vi è più possibilità di farlo (ad es. decisione con la quale si dichiara il difetto di giurisdizione, l’incompetenza del giudice adito, l’inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio). A tale ultimo proposito, deve rilevarsi che impropriamente si fa talora riferimento all’assorbimento anche nei casi di “pregiudizialità”, in cui è la stessa disciplina processuale a stabilire gli affetti della decisione pregiudiziale sulla questione “pregiudicata. Si parla, infine, di assorbimento anche nei casi in cui la decisione sulla domanda cd. assorbente comporta un implicito rigetto di altre domande (fondate ad esempio su presupposti antitetici o alternativi) (Cass. 16 maggio 2012, n. 7663, in motivazione).

Fermi tali principi, è stato anche evidenziato che tutte le ragioni di assorbimento sono riconducibili alle categorie logiche o della implicazione necessaria, tanto unilaterale quanto bilaterale (e si parla in tal caso di assorbimento improprio); o della esclusione, anche solo unilaterale, tra la domanda decisa e quella assorbita (e si parla in questo caso di assorbimento proprio (cfr. Cass. 27 dicembre 2013, n. 28663); di conseguenza, mentre l’ipotesi di assorbimento improprio ricorre allorché la pronuncia sulla questione assorbente comporta di per sé una pronuncia anche sulla questione assorbita, perché questa è implicata in quella, sì che la soluzione finale della controversia non ne possa essere modificata (Cass., 14 aprile 1966, n. 945), la seconda ipotesi di assorbimento proprio ricorre allorché la decisione sulla questione assorbente faccia venir meno l’interesse delle parti ad ottenere una decisione su altra questione, poiché l’utilità della prima decisione esclude l’utilità della seconda. In questo caso tra le due questioni esiste un nesso non di implicazione, ma di esclusione (Cass., 27 dicembre 2013, n. 28663, in motivazione).

Più di recente, questa Corte ha precisato che l’assorbimento di una domanda in senso proprio ricorre quando la decisione sulla domanda assorbita diviene superflua, per sopravvenuto difetto di interesse della parte che, con la pronuncia sulla domanda assorbente, ha conseguito la tutela richiesta nel modo più pieno, mentre quello in senso improprio è ravvisabile quando la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande (Cass. 22 giugno 2022, n. 12193; Cass. 30 maggio 2018, n. 13534).

Questa Corte ha pure precisato, distinguendo tra assorbimento proprio che consegue all’accoglimento della pretesa con riguardo ad una domanda, onde viene meno l’interesse della parte a conseguire la pronuncia sulle altre domande da essa formulate e assorbimento improprio che si determina quando la decisione sulla questione assorbente preclude l’esame delle altre o ne comporta l’implicito rigetto, che la declaratoria di assorbimento “non comporta un’omissione di pronuncia (se non in senso formale) in quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita anche sulle questioni assorbite” (Cass. 6 aprile 2018, n. 8571; Cass. 27 dicembre 2013, n. 28663).

Per quel che rileva specificamente in questa sede è stato, poi, statuito che, di fronte al fenomeno dell’assorbimento c.d. improprio, che ricorre nel caso di rigetto di una domanda in base alla soluzione di una questione di carattere esaustivo e perciò assorbente, che rende superfluo l’esame delle altre, il soccombente non ha l’onere di formulare alcun motivo di impugnazione sulle questioni assorbite, essendo invece sufficiente, per evitare il giudicato interno, che censuri la sola decisione sulla questione giudicata di carattere assorbente, fatta salva la facoltà di contestare i presupposti della stessa statuizione di assorbimento, e la sua ricaduta sull’effettiva decisione della causa (Cass. 26 maggio 2022, n. 17155, in motivazione; Cass. 4 gennaio 2022, n. 48; Cass. 12 luglio 2016, n. 14190).

3.4 In conclusione, come affermato da autorevole dottrina, le forme di assorbimento proprio sono rinvenibili quando tra le censure formulate ricorre una condizione logica di subordinazione, condizionalità o di connessione e si caratterizzano per il fatto che tra profilo assorbente e profili dichiarati assorbiti si configura un nesso di implicazione logica, per cui la questione assorbente è risolutiva di questioni ulteriori e per questo assorbibili. Nel caso di assorbimento improprio, invece, viene dichiarato l’assorbimento improprio di censure che non presentano alcun vincolo di interdipendenza logica e in cui l’accoglimento del profilo ritenuto assorbente realizza il risultato processuale cui tendeva l’atto introduttivo del giudizio.

3.5 Ciò premesso in punto di statuizione di assorbimento e tornando al motivo in esame, deve osservarsi che il d.lgs. n. 546 del 1992, art. 56 che prevede che “le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della commissione provinciale, che non sono specificamente riproposte in appello, s’intendono rinunciate”, ha una portata analoga alla disposizione contenuta nell’art. 346 c.p.c., essendosi chiarito che il termine “questioni” (per tali intendendosi quelle “suscettibili di essere dedotta come autonomo motivo di ricorso o d’impugnazione”) non ha un’accezione più ampia di quella contenuta in detta disposizione, la quale si riferisce alle “domande”, e non comprende quindi anche le mere argomentazioni giuridiche (Cass. 13 marzo 2001, n. 3653).

Sicché, la sovrapponibilità delle ipotesi normative richiamate consente di ricorrere anche al vasto filone giurisprudenziale formatosi in merito all’interpretazione della disposizione contenuta nell’art. 346 c.p.c., prevalentemente intesa nel senso che l’onere di riproposizione riguarda, in particolare, le questioni, nel senso sopra precisato, non esaminate o non accolte perché assorbite (Cass. 13 aprile 2007, n. 8854; Cass. 12 gennaio 2006, n. 413).

In particolare, è stato affermato che “Nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla l. n. 353 del 1990 e dalle successive modifiche, le parti del processo di impugnazione, nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c.), a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel “thema probandum” e nel “thema decidendum” del giudizio di primo grado (Cass., sez. un., 21 marzo 2019, n. 7940).

E’ stato, inoltre, precisato che, in mancanza di una norma specifica sulla forma con la quale l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. deve reiterare le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea a evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse (Cass. 11 maggio 2009, n. 10796; Cass. 20 agosto 2004, n. 16360); tale riproposizione, tuttavia, seppur libera da forme, dev’essere fatta in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice (Cass. 15 ottobre 2020, n. 22311).

Ancora è stato evidenziato che, in materia di impugnazioni, la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione le eccezioni o le questioni superate o assorbite, difettando di interesse al riguardo, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente, in modo tale da manifestare la volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo ai sensi dell’art. 346 c.p.c. (Cass. 23 settembre 2021, n. 25840).

Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, poi, lo scrutinio in appello delle questioni (domande o eccezioni che siano) non accolte dalla sentenza di primo grado postula, ai sensi del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 56 una “specifica” riproposizione di esse, vale a dire un’espressa riformulazione che, sia pure per relationem, non può essere ravvisabile nel generico richiamo del complessivo contenuto di atti della precedente fase processuale. Non è sufficiente, dunque, ai fini della rituale riproposizione di una questione, che deve essere effettuata in maniera chiara e univoca, il generico quanto vacuo riferimento a tutte le difese e/o alle argomentazioni difensive prospettate nel ricorso di primo grado (cfr. Cass. 19 dicembre 2017, n. 30444; Cass. 27 novembre 2015, n. 24267; Cass. 6 luglio 2011, n. 14925; Cass. 20 ottobre 2010, n. 21506).

3.6 Mette conto rilevare, peraltro, che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato il principio che, nel processo tributario, qualora il giudice di primo grado abbia accolto l’eccezione proposta dal contribuente di insussistenza del presupposto dell’azione accertatrice, è validamente proposto l’appello da parte dell’Amministrazione fondato sulla sola contestazione delle ragioni di tale declaratoria e sulla generica richiesta di conferma dell’accertamento, atteso che il precedente grado di giudizio si è concluso con l’accertamento di un vizio del procedimento amministrativo e non di quello giudiziale (Cass. 26 maggio 2017, n. 13424; Cass. 10 agosto 2010, n. 18559) e che, in tema di contenzioso tributario, ” il d.lgs. n. 546 del 1992, art. 56 nel prevedere che le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate, fa riferimento, come il corrispondente art. 346 c.p.c., all’appellato e non all’appellante, principale o incidentale che sia, in quanto l’onere dell’espressa riproposizione riguarda, nonostante l’impiego della generica espressione “non accolte”, non le domande o le eccezioni respinte in primo grado, bensì solo quelle su cui il giudice non abbia espressamente pronunciato (ad esempio, perché ritenute assorbite), non essendo ipotizzabile, in relazione alle domande o eccezioni espressamente respinte, la terza via – riproposizione/rinuncia – rappresentata dal detto D.Lgs. n., artt. 56 (ndr D.Lgs. 1992 n. 546, artt. 56) e 346 c.p.c., rispetto all’unica alternativa possibile dell’impugnazione – principale o incidentale – o dell’acquiescenza, totale o parziale, con relativa formazione di giudicato interno (Cass. n. 14534/2018; conf. Cass. n. 7702/2013)”. (Cass. 25 giugno 2020, n. 12591, in motivazione; Cass. 27 aprile 2016, n. 8332).

3.7 Tanto premesso, nella vicenda in esame, va ritenuta la configurabilità di un’ipotesi di assorbimento esplicito ed improprio, posto che, nella specie, come si legge, a pag. 8 della sentenza impugnata, i giudici di primo grado non avevano esaminato i motivi di merito formulati dalla società ricorrente, perché ritenuti assorbiti in ragione dell’accoglimento dell’eccezione di decadenza dal potere di accertamento sollevata dalla stessa società contribuente; i giudici di primo grado, in particolare, avevano affermato che non operava il raddoppio dei termini di accertamento per l’accertamento relativo all’anno di imposta 2007, in mancanza delle prova dell’avvenuta presentazione della comunicazione di reato da parte dell’Agenzia delle Entrate, che si era limitata ad affermare di avere presentato la comunicazione di reato, ma non aveva prodotto alcun elemento probatorio in merito. All’evidenza, l’accoglimento di tale eccezione escludeva la necessità della pronuncia sulle altre questioni di merito, pure, prospettate dalle parti. La Commissione tributaria regionale, al riguardo, ha dichiarato l’inammissibilità del motivo proposto dall’Agenzia delle Entrate ai sensi del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, perché l’Agenzia delle Entrate si era limitata alla mera trascrizione di quanto esposto nelle controdeduzioni al ricorso introduttivo e il mero rinvio a quanto in precedenza esposto non era idoneo a soddisfare l’obbligo di indicare i motivi specifici dell’impugnazione, addivenendo alla conclusione di accogliere l’appello dell’Ufficio limitatamente al riconoscimento della tempestività dell’avviso di accertamento per l’anno 2007, confermandone, tuttavia, l’annullamento quale conseguenza dell’omessa impugnazione del capo di sentenza che aveva ritenuto assorbiti i motivi del ricorso introduttivo concernenti il merito della contestazione.

I giudici di secondo grado, così facendo non hanno fatto corretta applicazione dei principi esposti, in quanto la pronuncia esplicita di assorbimento non onerava l’Agenzia appellante di formulare, sulle questioni di merito poste dalla società contribuente in primo grado e ritenute assorbite, alcun motivo d’impugnazione (che del resto sarebbe stato insensato esigere, atteso il difetto di una correlativa motivazione da attaccare), essendo sufficiente per evitare il giudicato interno censurare o la sola decisione sulla questione giudicata di carattere assorbente (così come accaduto e addirittura ritenuta fondata dalla Commissione tributaria regionale) o la stessa statuizione di assorbimento, contestandone i presupposti applicativi e la ricaduta effettiva sulla decisione della causa. Dunque, posto che in primo grado l’avviso di accertamento impositivo, con riferimento all’anno 2007, era stato annullato per uno dei motivi proposti dalla società ricorrente (eccezione di decadenza) e che gli altri non erano stati esaminati perché assorbiti, l’onere dell’Agenzia appellante, che sul punto della dichiarata decadenza era rimasta soccombente, era circoscritto all’unica ratio decidendi desumibile dalla sentenza impugnata. Era, invece, onere della società appellata riproporre in appello le domande sottoposte al giudice di primo grado e da questi non esaminate perché assorbite (nella specie, domande di annullamento dell’avviso di accertamento per motivi diversi da quello della decadenza). A tal fine, tuttavia, la società contribuente appellata non poteva limitarsi a chiedere, in aggiunta alla declaratoria d’inammissibilità dell’appello, il suo rigetto nel merito, siccome infondato, giacché, questa richiesta, ove accolta, avrebbe portato solo a ribadire l’esattezza della decisione di primo grado (che tale domanda aveva già accolto), mentre ciò di cui qui si tratta è piuttosto di prospettare in via subordinata, nell’ipotesi di riforma della sentenza di primo grado, l’annullamento dell’atto impositivo sotto un profilo diverso. Nel caso in esame, tuttavia, come si legge a pag. 5 della sentenza impugnata, la società contribuente si era costituita in appello con atto di controdeduzioni, con il quale aveva replicato all’appellante principale (Agenzia delle Entrate) e aveva proposto appello incidentale sulle “sole” questioni in cui era risultata soccombente in primo grado, ovvero quelle afferenti l’avviso di accertamento riguardante l’anno 2009. Nel caso scrutinato, dunque, attesa la piena autonomia dei distinti motivi posti a fondamento del ricorso introduttivo da parte della società contribuente, attinenti, il primo, all’eccezione di decadenza dal potere impositivo e gli altri alla fondatezza dei rilievi posti a fondamento dell’avviso di accertamento n. (…), relativo all’anno 2007 e dell’avviso di accertamento n. (…), relativo all’anno 2009, la Commissione tributaria regionale, dopo avere ritenuto fondato il motivo di appello formulato dall’Agenzia delle Entrate sull’eccezione di decadenza, avrebbe dovuto rilevare se l’Ufficio avesse o meno riproposto le questioni sollevate con le controdeduzioni nel giudizio di primo grado e, successivamente, se la società contribuente, nell’appello incidentale, avesse ribadito le domande formulate nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Orbene, è la stessa Commissione tributaria regionale ad affermare che nel secondo motivo, pure relativo all’avviso di accertamento per l’anno 2007, l’Ufficio aveva riproposto l’eccezione sulla definitività dell’Iva sulle fatture emesse dalla società C.I. s.r.l. e dalla società D. s.r.l., in quanto non erano state oggetto di impugnazione; che l’Agenzia delle Entrate aveva trascritto quanto esposto nelle controdeduzioni al ricorso introduttivo (cfr. pagine 7 e 8 della sentenza impugnata) e, infine, come già rilevato, che la società contribuente aveva proposto appello incidentale sulle questioni in cui era risultata soccombente in primo grado (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata). Alla luce di ciò, non può essere condiviso l’iter argomentativo della Commissione tributaria regionale, laddove ha dichiarato l’inammissibilità del motivo formulato dall’Agenzia delle Entrate, ai sensi del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 53 comma 1, per la mancata specificità dei motivi di impugnazione. E’ sufficiente, infatti, ai fini della rituale riproposizione di una questione assorbita da parte del soggetto soccombente in primo grado (che non ha interesse a riproporre le questioni formulate dalla parte interamente vittoriosa) la trascrizione delle controdeduzioni contenuta nel ricorso in appello in esame, tenuto conto da un lato dell’interesse ad agire dell’Agenzia appellante e dall’altro delle questioni/domande formulate dall’Ufficio resistente e parte soccombente nel giudizio di primo grado. Appare, pertanto, evidente come la Commissione tributaria regionale ha errato, pure accogliendo il primo motivo proposto dall’Agenzia appellante, a confermare l’annullamento dell’avviso di accertamento per l’anno 2007 (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata).

4. Per le considerazioni svolte, in accoglimento del ricorso, va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Veneto, in diversa composizione, che, nel decidere il merito, si atterrà ai principi di diritto sopra enunciati e provvederà, altresì, sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Veneto, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.