CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 11719 depositata il 4 maggio 2023
Tributi – Rimborso delle ritenute alla fonte – Dividendi percepiti sul Fondo Pensione – IRES – Trattamento discriminatorio in materia di tassazione dei dividendi corrisposti da società italiane – Utili corrisposti ai soggetti non residenti nel territorio dello Stato – Art. 63 T.F.U.E. – Libera circolazione dei capitali – Deroga – Necessità di assicurare l’efficacia dei controlli fiscali – Cosiddetta “black list” dei Paesi che non garantiscono un adeguato scambio di informazioni – Legittimazione della disparità di trattamento – Rigetto
Fatti di causa
1. (…) (PSPB) ricorre, con tre motivi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello proposto dalla contribuente avverso la sentenza della C.t.p. di Pescara che, a propria volta, aveva rigettato il ricorso avverso il silenzio-rifiuto frapposto dall’Ufficio all’istanza di rimborso delle ritenute alla fonte, attuate dalla banca depositaria, sui dividendi percepiti sul Fondo Pensione.
2. La PSPB, negli anni 2010, 2011 e 2012, deteneva, tramite banche depositarie, una partecipazione di minoranza in una società di capitali italiana che, negli anni in questione, aveva distribuito dividendi soggetti a ritenuta alla fonte.
Con istanza presentata in data 8 febbraio 2013 per conto del Fondo Pensione gestito ed amministrato ai sensi della L. n. 6 del 1999, art. 5 (P.S.P.L.) delle Isole Cayman, la contribuente richiedeva il rimborso delle ritenute. Segnalava nell’istanza di aver pagato le imposte sui dividendi percepiti nella misura del 27 per cento per il periodo di imposta 2010 e 2011 e del 20 per cento per il periodo di imposta 2012 e che l’applicazione di tali ritenute determinava una disparità di trattamento con i fondi pensione italiani che non scontavano alcuna ritenuta sugli utili distribuiti da società e enti soggetti ad Ires; deduceva, per l’effetto, la violazione dell’art. 63 T.F.U.E..
3. La C.t.p. rigettava il ricorso avverso il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza.
La C.t.r. confermava la sentenza. In particolare, premesso che per soddisfare il principio di non discriminazione non occorreva “il presupposto della parità assoluta delle condizioni sostanziali tra i soggetti interni e quelli esteri, occorrendo, invece, l’eliminazione di fattori distorsivi suscettibili di impedire il libero accesso al mercato e l’equilibrio della libera concorrenza”, rilevava che, nel caso in esame, erano prevalenti gli elementi differenziali “consistenti, tra l’altro, nel fatto che il non residente percepisce la maggior parte dei redditi al di fuori dello Stato di produzione e nella circostanza che la capacità contributiva complessiva risultava valutabile esclusivamente nello Stato di residenza”. Aggiungeva che la questione doveva risolversi sul piano probatorio, dovendosi allegare “le omologie prevalenti che nella comparazione causino l’effetto discriminatorio”. Ciò posto, ricostruita la normativa di settore, rilevava che, se anche si trattava di fondo pensiona statale, la sede della contribuente si trovava nelle Isole Cayman, Stato incluso nella white list solo a partire dal 2015. Aggiungeva, “ad ogni buon conto e per quanto attiene al caso concreto” che non erano stati prodotti i documenti previsti dalla legge idonei a provare l’imposizione in quanto non erano state versate in atti le note di accredito dei dividendi e le note di accredito prodotte non costituivano documenti equipollenti.
4. La ricorrente, in data 17 gennaio 2023, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente, (…), denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e o falsa applicazione degli artt. 63 T.F.U.E. e d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27.
Censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’illegittimità del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 27 comma 3, dedotta in ragione del contrasto con l’art. 63 T.F.U.E.. Assume l’evidente ed ingiustificata disparità di trattamento tra i fondi pensione italiani, cui non sarebbe applicabile l’art. 27, comma 3, cit. e i fondi di pensione “non comunitari” che invece subiscono la ritenuta “piena”. Censura, pertanto, la sentenza impugnata per aver ritenuto giustificata la disparità di trattamento per il fatto che “il non residente percepisce la maggior parte dei redditi al di fuori dello Stato di produzione e nella circostanza che la capacità contributiva complessiva risultava valutabile esclusivamente nello Stato di residenza” e in ragione della non inclusione, all’epoca dello Stato delle Isole Cayman nella così detta white list.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992, artt. 36, e 132 c.p.c. per motivazione apparente quanto all’affermata mancanza di documentazione idonea a comprovare l’effettivo versamento delle ritenute subite dal Fondo Pensione sui dividendi percepiti negli anni 2010, 2011, 2012. Assume l’inesistenza di una “legge” che individui i documenti atti a comprovare il pagamento delle ritenute sui dividendi.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2712 e 2719 co. civ. e del D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 36 e 132 c.p.c..
Censura l’errata valutazione operata dai giudici di secondo grado in merito all’effettiva valenza probatoria della documentazione prodotta.
Evidenzia in proposito che la veridicità del contenuto delle dichiarazioni allegate non era stata oggetto di specifica contestazione ad opera dell’Ufficio.
4. Il secondo motivo, logicamente preliminare, in quanto avente ad oggetto la dedotta nullità della sentenza per vizio di motivazione, è infondato.
4.1. Le Sezioni Unite hanno chiarito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, art., convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, la mancanza della motivazione, rilevante ai sensi dell’art. 132, n. 4, c.p.c. (e nel caso di specie del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 36 comma 2, n. 4) e riconducibile all’ipotesi di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, si configura quando la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero quando formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum. Tale anomalia si esaurisce, pertanto, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata; resta esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (Cass, sez. un., 7/04/2014, n. 8053).
4.2. La sentenza impugnata non incorre nel vizio denunciato per nessuno dei profili delineati.
La C.t.r., infatti, dopo aver enunciato il principio per il quale in materia di rimborsi fiscali la parte contribuente assume la veste di attrice sostanziale e, di conseguenza, risulta gravata dal relativo onere processuale, ha affermato che non erano stati prodotti documenti idonei a provare l’imposizione e, in particolare, le note di accredito dei dividendi. Ha aggiunto sul punto che le certificazioni versate in atti non potevano costituire documenti equipollenti e succedanei stante il formalismo che regola la materia.
La motivazione, pertanto, non solo è graficamente presente, ma è idonea, se pure nella sua stringatezza, a dare conto delle ragioni del decisum individuate nel mancato assolvimento dell’onere della prova in ragione dell’inidoneità della documentazione prodotta a provare uno degli elementi costitutivi del diritto al rimborso.
Viceversa, le censure mosse dalla ricorrente con riferimento alla valutazione del materiale probatorio, riproposte nel terzo motivo sotto il profilo della violazione di legge, non sono sussumibili nel vizio motivazionale dedotto con il motivo in esame.
5. Il primo motivo è infondato, restando assorbito il terzo.
5.1. La società contribuente, con sede nelle Isole Cayman, lamenta di aver ricevuto un ingiustificato trattamento discriminatorio in materia di tassazione dei dividendi corrisposti da società italiane. Assume che, in assenza di un trattato tra le Isole Cayman e l’Italia, i dividendi percepiti in ragione di una partecipazione in una società di capitali italiana erano stati assoggettati a ritenuta alla fonte ai sensi del d.p.r. n. 600 del 1973, art. 27 con l’aliquota del 27 per cento per gli anni di imposta 2010 e 2011 e del 20 per cento per l’anno di imposta 2012 con evidente disparità di trattamento con i fondi pensione italiani.
Per l’effetto, chiama in causa l’art. 63 T.F.U.E. il quale vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi, e tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi.
5.2. Quanto alla normativa interna, va premesso che il d.p.r. n. 600 del 1973 art. 27 comma 3, disciplina, in generale, la ritenuta da operare a titolo di imposta sugli utili corrisposti ai soggetti non residenti nel territorio dello Stato, prevedendo l’applicazione dell’aliquota del 27 per cento.
Questa disciplina risultava applicabile anche ai soggetti non residenti in Italia, ma pur sempre nella Unione Europea e comunque nello Spazio Economico Europeo (SEE). A tale discriminazione ha posto fine questa Corte statuendo che che il giudice italiano doveva disapplicare, anche d’ufficio, le disposizioni contrastanti o incompatibili con l’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia UE la quale, con sentenza del 19 novembre 2009, in causa C-540/07, aveva affermato che lo Stato italiano aveva violato l’art. 56 del Trattato e l’art. 40 dell’Accordo SEE, in materia di libera circolazione dei capitali tra gli stati membri e fra quelli aderenti all’Accordo SEE, mantenendo in vigore un regime fiscale più oneroso per i dividendi distribuiti a società residenti negli altri Stati membri e negli Stati aderenti all’Accordo SEE, rispetto a quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti, esentando dall’imposizione, fino al 95 per cento i dividendi distribuiti a queste ultime società, ed assoggettando, invece, a ritenuta alla fonte, nella misura del 27 per cento, i dividendi distribuiti a società stabilite negli altri Stati membri.
L’art. 27, comma 3, cit. come sostituito dalla l. 7 luglio 2009, n. 88, art. 24 comma 1, ha quindi disposto che se gli utili da sottoporre a tributo sono conseguiti da fondi pensione istituiti negli Stati membri dell’Unione Europea, e comunque negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico Europeo (SEE), l’aliquota di imposizione da applicare risulta ridotta all’11 per cento.
5.3. Come evidenziato dalla ricorrente, società con sede in uno Stato terzo, nel caso in esame viene in rilievo l’art. 63 T.F.U.E., in materia di libera circolazione dei capitali, il quale così dispone “1. Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. 2. Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”.
Pertanto, secondo il disposto di cui alla norma citata, tra le libertà fondamentali del Trattato, la libera circolazione dei capitali, si estende anche agli Stati terzi.
5.4. Venendo a quanto oggetto del motivo in esame, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia emerge che le misure vietate dall’art. 63 cit. in quanto restrizioni dei movimenti di capitali, comprendono quelle che sono idonee a dissuadere i non residenti dal compiere investimenti in uno Stato membro o a dissuadere i residenti di detto Stato membro dal compierne in altri Stati (Corte giustizia 10/04/2014, Emerging Markets Series of DFA Investment Trust Company, C-190/12; Corte giustizia 22/11/2018, Sofina e a., C-575/17; Corte giustizia, 13/11/2019, College Pension Plan of British Columbia C-641/17; nello stesso senso, ex multis, Corte giustizia 18/12/2007, Skatteverket, C-101/05; Corte giustizia 10/02/2011, Haribo Lakritzen Hans Riegei e O’sterreichische Salinen, C-436/08 e C437/08; Corte giustizia 10/05/2012, Santander, da C-338/11 a C-347/11; Corte giustizia, 30/01/2020, Köln-Aktienfonds Deka, C-156/17).
Nel solco tracciato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea questa Corte ha ribadito che la circostanza che il contribuente non sia residente in uno Stato membro non preclude a priori la rilevanza dell’art. 63 cit. (Cass. 6/07/2022, nn. 21454, 21475, 21479, 21480, 21481 seguita da Cass. 7/07/2022, n. 21598).
Quanto ai fondi pensione, occupandosi di analoga questione con riferimento a fondi pensione con sede in U.S.A., anch’esso Paese terzo, (se pure parte della Convenzione relativa alle doppie imposizioni, Italia – U.S.A..) ha di recente affermato, che la libera circolazione dei capitali è ostacolata qualora sia applicata in uno Stato aderente all’Unione Europea un trattamento fiscale differente, e deteriore, in materia di tassazione dei dividendi, ad un fondo pensione collocato in uno Stato terzo, rispetto ad un fondo pensioni residente; questo perché la maggiore tassazione dei dividendi può dissuadere il fondo pensione residente in uno Stato terzo dall’effettuare investimenti nell’Unione (Cass. 1/09/2022, n. 25691, Cass. 2/09/2022, n. 25963).
5.5. La libertà di circolazione dei capitali, tuttavia, subisce eccezioni, che possono essere legittimamente applicate dagli Stati membri, disciplinate dall’art. 65 T.F.U.E..
A norma dell’art. 65, paragrafo 1, lettera a), T.F.U.E. la disposizione di cui al precedente 63 T.F.U.E. non pregiudica il diritto degli Stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale.
La Corte di giustizia ha chiarito che tale disposizione, costituendo una deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei capitali, deve essere oggetto di interpretazione restrittiva. Pertanto, essa non può essere interpretata nel senso che qualsiasi legislazione tributaria che operi una distinzione tra i contribuenti in base al luogo in cui essi risiedono o allo Stato in cui investono i loro capitali sia automaticamente compatibile con il Trattato. Infatti, la deroga prevista dall’ art. 65, paragrafo 1, lettera a), T.F.U.E. subisce essa stessa una limitazione per effetto dell’art. 65, paragrafo 3, T.F.U.E., il quale stabilisce che le disposizioni nazionali di cui al paragrafo 1 non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all’art. 63 (Corte giustizia 24/11/2016, SECIL-Companhia Geral de Cal e Cimento SA, Causa C-464/14 Cass. 10/04/2014, Emerging Markets Series of DFA Investment Trust Company, C-190/12).
Le differenze di trattamento autorizzate dall’ art. 65, paragrafo 1, lettera a), T.F.U.E. devono, pertanto, essere mantenute distinte dalle discriminazioni vietate dal paragrafo 65, paragrafo 3 T.F.U.E..
La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che le diversità di trattamento, per potersi considerare legittime, devono essere giustificate: 1) da ragioni di interesse generale, oppure 2) devono riguardare situazioni che non siano comparabili (Corte giustizia 24/11/2016, SECIL-Companhia Geral de Cal e Cimento SA, C-464/14, Corte giustizia 10/05/2012, Santander Asset Management SGIIC e a., da C-338/11 a C-347/11 Corte Giustizia 10/02/2011, Haribo Lakritzen Hans Riegel e Oesterrechische Salinen, C-436/08 e C-437/08).
Più in particolare, ha ritenuto che possano ricorrere ragioni imperative di interesse generale, idonee a giustificare una diversità di trattamento, quando sia necessario garantire l’efficacia dei controlli fiscali (Corte giustizia 06/10/2011, Commissione/Portogallo, causa C493/09); sempreché la normativa di uno Stato membro subordini il beneficio di un vantaggio fiscale al rispetto di requisiti la cui osservanza possa essere verificata unicamente ottenendo informazioni dalle competenti autorità di uno Stato terzo e qualora, in considerazione dell’assenza di un obbligo convenzionale, a carico di detto Stato terzo, di fornire informazioni, risulti impossibile ottenere chiarimenti dal medesimo (Corte giustizia 24/11/2016, SECIL-Companhia Geral de Cal e Cimento SA, cit.; Corte giustizia 10.2.2011, Haribo Lakritzen Hans Riegel e Oesterrechische Salinen, cit.).
La Corte di giustizia ha chiarito sul punto che, per quanto riguarda la necessità di assicurare l’efficacia dei controlli fiscali, i movimenti tra gli Stati membri e gli Stati terzi si iscrivono in un contesto giuridico diverso da quello vigente in seno all’Unione e che il quadro di cooperazione tra le autorità competenti degli Stati membri non sussiste tra esse e le autorità competenti di uno Stato terzo qualora quest’ultimo non abbia assunto alcun impegno di mutua assistenza (Corte giustizia 10/02/2011, Haribo Lakritzen Hans Riegel e Österreichische Salinen, cit).
Da una giurisprudenza costante della Corte di giustizia emerge che, di conseguenza, quando la normativa di uno Stato membro subordina il beneficio di un regime fiscale più vantaggioso al soddisfacimento di condizioni il cui rispetto può essere verificato solo ottenendo informazioni dalle autorità competenti di uno Stato terzo, tale Stato membro può, in linea di principio, legittimamente negare la concessione del vantaggio di cui trattasi nell’ipotesi in cui, segnatamente a causa dell’assenza di un obbligo pattizio di fornire informazioni gravante sullo Stato terzo interessato, risulti impossibile conseguire da quest’ultimo le informazioni stesse (Corte giustizia 24/11/2016, SECIL-Companhia Geral de Cal e Cimento SA, cit.; Corte giustizia 17/10/2013, Welte, C-181/12).
5.6. Uniformandosi alla giurisprudenza della Corte di giustizia, questa Corte, poi, ha escluso la sussistenza di valide ragioni discriminatorie per garantire l’efficacia dei controlli fiscali in presenza di una Convenzione con uno Stato terzo che preveda l’obbligo di fornire informazioni (Cfr. Cass. nn 25691 e 25963 del 2022 cit.).
5.7. Pertanto, deve affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di ritenute applicabili sui dividendi distribuiti, negli anni dal 2010 al 2012, da società residenti in Italia a fondi pensione residenti in Stati terzi, ricorrono ragioni imperative di interesse generale idonee a giustificare una diversità di trattamento, restando esclusa la violazione dell’art. 63 T.F.U.E. in tema di libera circolazione dei capitali tra Stati membri e Paesi terzi, laddove detti Stati terzi siano inseriti nella c.d. black list dei Paesi che non garantiscono un adeguato scambio di informazioni secondo quanto previsto dall’art. 168bis t.u.i.r..”.
5.8. La C.t.r. si è attenuta a questi principi.
La sentenza impugnata, infatti, dopo aver premesso che non esiste un principio di parità assoluta tra soggetti interni ed esteri, occorrendo, invece, l’eliminazione dei fattori distorsivi del libero accesso al mercato, ha individuato tra gli elementi differenziali rilevanti la circostanza che il Fondo Pensione oggetto del giudizio aveva sede nello Stato delle Isole Cayman, escluso all’epoca cui si riferiva il prelievo fiscale dalla lista dei paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni, come stabilito dall’art. 168bis, comma 1, t.u.i.r..
La censura mossa dalla ricorrente a tale statuizione non ne coglie la ratio deciendi.
In ricorso, (pag. 17) si afferma, infatti, che detta conclusione si fonderebbe su una previsione normativa, ovvero l’art. 27, comma 3, cit. non applicabile al caso di specie ma solo ai fondi pensione istituiti negli Stati Membri dell’Unione Europea o nello Spazio SEE.
La C.t.r., tuttavia, non ha ritenuto applicabile il disposto normativo in via diretta; al contrario, ha ritenuto che il fatto di essere uno Stato estero appartenente alla c.d. black list – causa ostativa alla disciplina di favore prevista dall’art. 27, comma 3, cit. anche per fondi pensione con sede in uno Stato UE o in uno stato aderente SEE – costituisse elemento sufficiente per giustificare la disparità di trattamento.
Tale specifica statuizione, che per altro appare conforme alla giurisprudenza sopra citata, non risulta nemmeno attinta da alcuna putale censura.
5.9. Poiché le censure avverso l’affermazione resa sul punto dalla C.t.r. sono risultate infondate, il primo motivo del ricorso, nella parte in cui critica la sentenza impugnata per aver ritenuto di individuare tra gli elementi differenziali il “fatto che il non residente percepisce la maggior parte dei redditi al di fuori dello Stato di produzione e nella circostanza che la capacità contributiva complessiva risultava valutabile esclusivamente nello Stato di residenza”, resta assorbito.
6. Il terzo motivo di ricorso, con il quale la C.t.r. ha, altresì, rigettato l’appello assumendo l’insufficienza della documentazione prodotta a provare la ritenuta, è inammissibile.
6.1. Qualora la decisione impugnata si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (tra le più recenti, Cass. 14/08/2020, n. 17182).
7. Il ricorso va, pertanto, complessivamente rigettato.
8. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito
Ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
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