CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 13815 depositata il 19 maggio 2023
Lavoro – Retribuzione rapporto privato – Retribuzioni non percepite – Interposizione fittizia di manodopera nell’appalto di servizi – Esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – Mancanza di atto di messa in mora – per aversi giudicato implicito è necessario che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si vuole tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile
Fatti di causa
1. Le lavoratrici attuali controricorrenti hanno agito in giudizio per ottenere la condanna di S. spa al pagamento delle retribuzioni non percepite, nel periodo compreso tra marzo 2010 e luglio 2016, e loro spettanti in base all’inquadramento nel sesto livello del c.c.n.l. di categoria. La loro domanda era basata sulla sentenza del Tribunale di Roma n. 12245/2009, divenuta irrevocabile, che aveva accertato l’interposizione fittizia di manodopera nell’appalto di servizi tra la S. spa e la C.C.spa (poi divenuta A. spa), dichiarato esistente un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra le lavoratrici e la committente S. spa e ordinato a quest’ultima di reintegrare le predette nel posto di lavoro. La società non ha ottemperato all’ordine di ripristino e le lavoratrici hanno reclamato il diritto al pagamento delle retribuzioni maturate a far data dalla messa in mora.
2. Il tribunale, qualificata come risarcitoria l’obbligazione gravante sul datore di lavoro, con conseguente eccepibilità dell’aliunde perceptum, ha respinto la domanda delle lavoratrici.
3. La Corte d’appello di Roma ha richiamato il principio di diritto enunciato dalle S.U. della Corte di cassazione con la sentenza 2990 del 2018, secondo cui “in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, salvo gli effetti dell’art. 3 bis (rectius, dell’art. 29, comma 3 bis) d.lgs. n. 276/2003, a decorrere dalla messa in mora”; ha accertato che la S. spa non aveva ottemperato all’ordine di ripristino dei rapporti di lavoro; ha riconosciuto il diritto delle appellanti alle retribuzioni maturate dalla data di messa in mora, salvo gli effetti di cui all’art. 29, comma 3 bis., del d.lgs. 276 del 2003; ha ritenuto che l’incidenza liberatoria dei pagamenti eseguiti da terzi, ai sensi dell’art. 1180, comma 1, c.c., non potesse operare per le retribuzioni corrisposte a fronte dell’attività lavorativa svolta dalle ricorrenti alle dipendenze della C.C. spa in epoca successiva alla cessazione dell’appalto S. spa; ha escluso che le mansioni svolte dalle appellanti fossero riconducibili al sesto livello contrattuale per il difetto dei requisiti di discrezionalità e autonomia decisionale a tal fine necessari; ha condannato la S. spa al pagamento delle retribuzioni specificamente indicate nella sentenza e quantificate in base alla c.t.u. svolta.
4. Avverso tale sentenza la S. spa ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, illustrati da memoria. Le lavoratrici hanno resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale formulando quattro motivi.
Ragioni della decisione
Ricorso principale di S. spa
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 e 1463 c.c. nonché degli artt. 3, 4, 24 e 111 Cost., in relazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale. Si sostiene, con ampie argomentazioni, che la sentenza delle Sezioni Unite n. 2990 del 2018 viola il principio di proporzionalità quando afferma che l’effettività della tutela giurisdizionale potrebbe essere garantita soltanto dal rimedio del diritto all’adempimento dell’obbligazione retributiva anziché dal rimedio del diritto al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute; inoltre, che la citata sentenza neppure distingue il caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro avvenga in presenza di un titolo esecutivo giudiziale provvisoriamente esecutivo ma in attesa di conoscere l’esito dell’impugnazione proposta, rispetto al caso in cui l’inadempimento riguardi un titolo esecutivo giudiziale già passato in giudicato.
6. Il motivo è infondato
7. La questione della natura dei crediti vantati dai lavoratori per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro da parte della committente, nonostante la sentenza di accertamento della interposizione fittizia di manodopera, ha trovato soluzione nel senso della natura retributiva e non risarcitoria, come invece si era ritenuto in passato, in base all’insegnamento delle Sezioni unite civili di questa Corte con la sentenza n. 2990 del 2018. In tale pronuncia, valorizzando alcuni spunti tratti dalla sentenza della Corte Cost. n. 303 del 2011, si è cercato individuare un punto di equilibrio tra “il più generale fenomeno dell’incoercibilità del comportamento e della cooperazione datoriale […] e il principio della necessaria effettività della tutela processuale e, dunque, della piena attuazione dei diritti del lavoratore”. Si è quindi adottata un’interpretazione costituzionalmente orientata, in relazione agli artt. 3, 36 e 41 Cost., con superamento della regola sinallagmatica della corrispettività giudicata “inidonea a fornire al lavoratore una tutela effettiva” e ad evitare che il predetto debba subire “le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all’esecuzione dell’ordine giudiziale”. Secondo la pronuncia delle S.U. cit., “il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore”.
8. A tale indirizzo la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 29 del 2019, ha riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto, anche per la fattispecie della illegittima cessione di ramo d’azienda, evidenziando come la pronuncia delle S.U. n. 2990 del 2018 miri a “ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro”. Questo Collegio condivide e fa propri gli argomenti esposti nella sentenza appena citata, non scalfiti dal motivo di ricorso in esame, che non offre elementi significativi per una loro eventuale riconsiderazione e deve pertanto essere respinto.
9. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 c.c., in relazione al presupposto della costituzione in mora. Si afferma che, secondo i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2990 del 2018, l’atto giuridico di messa in mora nei confronti del datore di lavoro debba essere successivo alla pronuncia dell’ordine giudiziale di riammissione in servizio; che le signore L., D., L. e G. non hanno mai costituito in mora la S. offrendo formalmente la propria prestazione lavorativa successivamente alla pronuncia dell’ordine giudiziale di riammissione in servizio e pertanto non hanno diritto di ricevere il pagamento delle retribuzioni.
10. La censura – di violazione di legge – è infondata poiché la Corte d’appello si è puntualmente attenuta ai principi di diritto enunciati dalle S.U. con la sentenza n. 2990 del 2018 e, considerata pacifica la circostanza che parte datrice non avesse ottemperato all’ordine di ripristino del rapporto di lavoro, nonostante la decisione giudiziale che aveva dichiarato l’interposizione fittizia di manodopera (divenuta ormai irrevocabile), ha riconosciuto il diritto delle ricorrenti alle retribuzioni maturate dalla messa in mora intervenuta successivamente all’ordine di ripristino (pag. 5 sentenza d’appello).
11. Con il terzo motivo di ricorso si addebita alla sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., in relazione all’accertamento della costituzione in mora da parte delle signore L., D., L. e G., per apparenza della motivazione che, nella prospettazione della ricorrente principale, non indicherebbe alcuna ragione atta a giustificare l’accertamento di un atto di messa in mora delle predette lavoratrici successivo alla pronuncia dell’ordine giudiziale di riammissione in servizio.
12. Con il quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione alla prova della costituzione in mora da parte delle signore L., D., L. e G..
13. Con il quinto motivo la medesima censura è prospettata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
14. Tra questi ultimi motivi deve essere esaminato in via prioritaria il quarto, che è fondato e deve trovare accoglimento. Il motivo riguarda la mancanza di una messa in mora successiva all’ordine giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro, da parte delle lavoratrici L., D., L. e G. (sul punto nel controricorso – pag. 12 e ss. – si ribadisce che un “idoneo atto di messa in mora potrebbe essere ravvisato anche nella notifica dei ricorsi diretti all’accertamento della interposizione nella prestazione di lavoro”, ma sulla questione di diritto decisa dai giudici di appello in conformità alla sentenza delle S.U. n. 2990 del 208 non è proposto ricorso incidentale).
15. La sentenza S.U. n. 2990 del 2018 ha riconosciuto il diritto a percepire la retribuzione per i lavoratori che “dopo aver richiesto l’accertamento giudiziale della invalidità del contratto in violazione di norme imperative in tema di divieto di interposizione di manodopera in un appalto di servizi, abbiano ottenuto l’ordine giudiziale di ripristino del rapporto nei confronti del reale datore di lavoro impresa committente e offrono a quest’ultima le loro prestazioni senza essere riammessi in servizio”. Alla luce dei principi enunciati dalle Sezioni Unite 2990 del 2018 e dalla Corte Cost. con la sentenza n. 29 del 2019, si è ribadito, anche in tema di illegittima cessione di azienda o di ramo di azienda, che “mediante l’intimazione del lavoratore all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), il debitore del facere infungibile abbia posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione”; quindi “dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno alla messa in mora operata dal lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa già cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno” (così Cass. n. 17784 del 2019; v. anche Cass. n. 21947 del 2018).
16. La Corte d’appello ha richiamato ed applicato i principi di diritto appena riportati ed ha individuato gli atti costituenti messa in mora della società come “coincident(i) con la notifica dell’atto di precetto della sentenza di primo grado (ndr. sentenza del Tribunale di Roma n. 12245/2009 che ha dichiarato l’illegittima interposizione) ovvero con la notifica del ricorso giudiziario diretto ad ottenere le retribuzioni per il periodo precedente dall’agosto 2009 al febbraio 2010”.
17. Come allegato e documentato dalla società ricorrente principale, le lavoratrici V., R., G. e Z., sulla base della sentenza del Tribunale di Roma n. 12245/2009 (che aveva riconosciuto il loro diritto alla riammissione in servizio alle dipendenze della committente), hanno notificato l’atto di precetto con intimazione alla riammissione in servizio e le signore V. e R. anche il ricorso per ingiunzione per le retribuzioni relative al periodo 2009/2010. Invece, le lavoratrici L., D., L. e G. non hanno notificato alcun atto di messa in mora dopo la sentenza n. 12245/2009 (e neanche hanno agito in via monitoria per retribuzioni dal 2009 al 2010) né potevano farlo in quanto il tribunale aveva respinto la loro domanda di riammissione in servizio sul presupposto che le stesse avessero comunicato all’appaltatore le proprie dimissioni. La sentenza n. 12245/2009 aveva accertato anche nei loro confronti l’illecita interposizione ma aveva dichiarato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della committente fino al 21.5.2006. Solo in appello (con sentenza della Corte d’appello di Roma n. 2426/12, confermata da Cass. n. 27105/18) è stata dichiarata anche nei loro confronti l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato “tuttora in essere” (v. sul punto Cass. n. 27105 del 2018).
18. Da tale sequenza discende che l’atto di messa in mora “coincidente con la notifica dell’atto di precetto della sentenza di primo grado”, indicato nella sentenza impugnata, non potesse riferirsi alle lavoratrici L., D., L. e G., così come non potesse riferirsi alle stesse “la notifica del ricorso giudiziario diretto ad ottenere le retribuzioni per il periodo precedente dall’agosto 2009 al febbraio 2010”, mancando all’epoca un ordine giudiziale ripristino anche del loro rapporto di lavoro, ordine giudiziale intervenuto solo con la sentenza d’appello n. 2426/2012 (difatti, le retribuzioni rivendicate dalle suddette lavoratrici nel presente procedimento sono relative al periodo da aprile 2012 a giugno 2016).
19. L’errore imputabile alla sentenza impugnata concerne la ricognizione del contenuto oggettivo della prova relativa ad una circostanza, l’esistenza di un atto di messa in mora da parte delle lavoratrici L., D., L. e G., successivo alla pronuncia dell’ordine giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro con la committente, costituente fatto controverso tra le parti (v. sul punto verbale d’udienza del 8.6.2019 dinanzi alla Corte d’appello, trascritto per estratto a pag. 37 del ricorso principale, che reca l’eccezione svolta dalla S. spa sulla “mancanza di un atto di costituzione in mora dopo la sentenza di accertamento dell’interposizione” da parte delle predette lavoratrici) e decisivo ai fini del diritto azionato dalle lavoratrici per ottenere il pagamento delle retribuzioni pur in assenza di prestazione lavorativa.
20. Risulta quindi integrata la violazione dell’art. 115 c.p.c., norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (v. Cass. n. 9356 del 2017; Cass. n. 27033 del 2018; Cass. n. 1163 del 2020; Cass. n. 37382 del 2022; Cass. n. 9507 del 2023).
21. Non ha fondamento l’assunto, di parte controricorrente, di inammissibilità della questione relativa alla mancanza di messa in mora da parte delle citate lavoratrici perché sollevata dalla società solo in appello, quindi tardivamente, atteso che, nel rito del lavoro, il divieto di “jus novorum” in grado di appello, di cui all’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ. ha ad oggetto le sole eccezioni in senso proprio e non si estende alle eccezioni improprie ed alle mere difese, ossia alle deduzioni volte alla contestazione dei fatti costitutivi e giustificativi allegati dalla controparte a sostegno della pretesa, fatti tra i quali rientra la costituzione in mora (v. Cass. n. 4545 del 2009; Cass. n. 11108 del 2007).
22. L’accoglimento del quarto motivo di ricorso porta a giudicare assorbiti il terzo ed il quinto motivo.
23. Con il sesto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., violazione degli artt. 102, 106, 107 e 112 c.p.c. per non avere la Corte d’appello accolto l’istanza della S. spa, di chiamata in causa di A. C. spa (già C.C.S. spa), e per non essersi quindi pronunciata sulla domanda di manleva riproposta dalla attuale ricorrente con la memoria ai sensi dell’art. 436 c.p.c.
24. Il motivo è inammissibile per mancato rispetto delle prescrizioni imposte dall’art. 366, comma 1, n. 6 c.p.c. (su cui v. Cass., S.U. n. 8950 del 2022; Cass. n. 12481 del 2022) in quanto non risulta trascritta, neppure per estratto, la domanda di manleva che si assume formulata nelle memorie di costituzione in primo grado e riproposta con la memoria di appello (v. ricorso pag. 44), atteso che la sentenza impugnata non contiene alcun riferimento al riguardo.
Ricorso incidentale delle lavoratrici
25. Con il primo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c. e degli artt. 324 e 116 c.p.c., per avere la Corte di merito escluso l’esistenza di un giudicato implicito sul diritto delle lavoratrici V. e R. al superiore inquadramento formatosi nel giudizio, dalle stesse promosso unitamente ad altri lavoratori, per ottenere da S. spa il pagamento delle retribuzioni per il periodo da agosto 2009 a febbraio 2010 (giudizio definito con la sentenza delle S.U. n. 2990 del 2018). Si sostiene che in quel procedimento, nella fase monitoria, era stato accertato che le ricorrenti Vendemmia e Rossetti dovessero essere inquadrate nel VI livello del c.c.n.l. metalmeccanici e che tale accertamento non è stato inficiato nei successivi gradi in quanto la questione non è stata più esaminata; che le ricorrenti hanno impugnato la sentenza d’appello e la S.C., con la sentenza S.U. n. 2990 del 2018, ha accertato il diritto delle stesse a percepire le retribuzioni senza pronunciarsi sull’inquadramento, in difetto di un ricorso incidentale della S. spa.
26. Il motivo è infondato.
27. Questa Corte ha chiarito che “per aversi giudicato implicito è necessario che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si vuole tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, e dunque che l’accertamento contenuto nella motivazione della sentenza attenga a questioni che ne costituiscono necessaria premessa ovvero presupposto logico indefettibile” (Cass. n. 1624 del 2013; Cass., S.U. n. 6632 del 2003; Cass. n. 7115 del 2020).
28. Tali requisiti certamente difettano nel caso in esame atteso che la sentenza delle S.U. n. 2990 del 2018 si è pronunciata sulla questione di diritto del carattere retributivo, e non risarcitorio, dell’obbligo facente capo al datore di lavoro che, in ipotesi di illegittima interposizione di manodopera, non ottemperi all’ordine giudiziale di ripristino. Le S.U., per la posizione della V., hanno cassato la decisione d’appello demandando ai giudici di rinvio di “effettuare i necessari accertamenti sulla posizione lavorativa della stessa”; hanno rigettato il ricorso degli altri lavoratori, tra cui la R., confermando, sia pure con diversa motivazione, il dispositivo d’appello che, a sua volta, aveva confermato la decisione di primo grado, di accoglimento del ricorso in opposizione proposto da S. spa avverso i decreti ingiuntivi ottenuti dai lavoratori, rilevando come costoro avessero “percepito la retribuzione dalla C.” e non avessero “prospettat(o) la corresponsione di una retribuzione inferiore a quella che avrebbero percepito presso la S.”, sicché operando il meccanismo di cui all’art. 29, comma 3 bis, d.lgs. n. 276 del 2003, null’altro potevano pretendere.
29. Non solo quindi la questione del superiore inquadramento dei lavoratori non risulta essere mai stata affrontata in modo espresso nel separato procedimento, ma la sentenza n. 2990 del 2018 che lo ha definito non contiene alcuna statuizione di cui il superiore inquadramento rivendicato costituisca premessa logica necessaria.
30. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., degli artt. 1362 e 2103 c.c., dell’art. 4 del c.c.n.l. metalmeccanici del 1999; dell’art. 1 del c.c.n.l. metalmeccanici del 2010, nonché nullità della sentenza. Si censura la sentenza d’appello per non aver esaminato il V livello di inquadramento, sebbene nelle conclusioni dei ricorsi le lavoratrici avessero chiesto di accertare il diritto all’inquadramento nel VI livello o nel diverso livello ritenuto di giustizia. Si critica l’interpretazione del contratto collettivo perché essa non terrebbe conto dell’utilizzo, nella declaratoria del VI livello, di una disgiuntiva, con la conseguente previsione di due distinte figure – chi svolge funzioni direttive e chi svolge funzioni che richiedono particolare preparazione e capacità professionale – e si assume come erroneo il mancato riconoscimento del superiore inquadramento rivendicato.
31. La prima censura è inammissibile, la seconda infondata.
32. Questa Corte ha affermato che la domanda del lavoratore di accertamento del diritto ad essere inquadrato, anziché nella qualifica richiesta, in una qualifica diversa ed inferiore, ma pur sempre superiore alla qualifica attribuita dal datore di lavoro, può ritenersi domanda implicitamente inclusa in quella proposta, purché vi sia la corrispondente prospettazione degli elementi di fatto e, segnatamente, della declaratoria contrattuale che sorregga la qualifica intermedia. Pertanto, incorre nel vizio di omessa pronuncia il giudice di merito che abbia rigettato la domanda di inquadramento nella qualifica superiore, omettendo l’esame della domanda implicitamente proposta in relazione alla qualifica intermedia. Tale vizio deve essere specificamente denunciato in appello, potendo, il giudice di appello, pronunciare sul riconoscimento della qualifica intermedia solo ove ciò sia stato oggetto di uno specifico motivo di impugnazione ed incorrendo, invece, nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, in caso di pronuncia sulla domanda non espressamente riproposta e da intendersi rinunciata ex art. 346 cod. proc. civ. (Cass. n. 3863 del 2008; v. anche Cass. n. 15053 del 2007; Cass. n. 13740 del 2004; Cass. n. 11557 del 2003).
33. Nel caso in esame le ricorrenti incidentali allegano (pag. 19 del ricorso) di avere, nelle conclusioni del ricorso di primo grado, chiesto l’inquadramento nel VI livello o nel diverso ritenuto di giustizia, ma non affermano di avere reiterato queste conclusioni in appello e di avere fatto riferimento alla relativa declaratoria contrattuale (V livello), neppure trascritta nel ricorso incidentale. Il che comporta l’inammissibilità della prima censura del motivo in esame.
34. Per il resto, la sentenza d’appello ha ricostruito le mansioni svolte dalle lavoratrici attraverso le allegazioni dalle stesse rese in ordine ai compiti eseguiti (sentenza d’appello pag. 9, § 4.3.) ed ha accertato l’assenza dei requisiti di “discrezionalità decisionale ed operativa, dell’autonomia di iniziativa nell’ambito delle direttive generali impartite” (sentenza d’appello, pag. 9, § 4.2), requisiti caratterizzanti la declaratoria di VI livello (a cui appartengono i lavoratori “sia tecnici che amministrativi che, con specifica collaborazione, svolgono funzioni direttive o che richiedono particolare preparazione e capacità professionale, con discrezionalità di poteri e con facoltà di decisione ed autonomia di iniziativa nei limiti delle sole direttive generali loro impartite”), e la cui mancanza assume valore dirimente ove anche si valorizzasse la tesi delle ricorrenti incidentali, poggiata sull’esistenza della disgiuntiva “o” tra lo svolgimento di funzioni direttive e lo svolgimento di funzioni che richiedono particolare preparazione e capacità professionale. Non ricorre quindi alcuna violazione dell’art. 2103 c.c. e delle disposizioni del contratto collettivo, avendo la Corte di merito, con accertamento in fatto non revisionabile in questa sede, negato il diritto al superiore inquadramento sulla base di una corretta interpretazione ed applicazione delle disposizioni contrattuali.
35. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. nonché nullità della sentenza per motivazione omessa in punto di reciproca soccombenza. Si rileva che le lavoratrici hanno introdotto in appello una domanda per il valore di euro 921.965,94 e che il c.t.u. ha riconosciuto che alle stesse spettasse, in base al quarto livello, la somma complessiva di euro 846.466,54, con una differenza di euro 75.499,40, che non giustifica la statuizione di reciproca soccombenza.
36. Il motivo è infondato. In caso di domanda formulata in più capi, come in questo caso, con cui si chiedeva la condanna della società al pagamento delle retribuzioni dovute in conseguenza del rifiuto della stessa di ottemperare all’ordine giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro nonché il riconoscimento del diritto all’inquadramento nel VI livello contrattuale, l’accoglimento della domanda limitatamente ad uno o più capi determina una condizione di reciproca soccombenza che legittima la disposta compensazione parziale delle spese di lite (v. Cass., S.U. n. 32061 del 2022).
37. Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. nonché del d.m. 55 del 2014 e del d.m. 3.7.2018. Si premette che la Corte di appello ha liquidato, all’esito della parziale compensazione, euro 20.000,00 per il primo grado e euro 24.000,00 per il secondo grado; che secondo i citati decreti ministeriali l’onorario medio in appello, tenuto conto del valore della causa dichiarato dalle lavoratrici, è pari a complessivi euro 24.908,00; che la materia oggetto del processo avrebbe giustificato un aumento per il numero dei dipendenti; che, comunque, la limitazione del compenso ad euro 24.000,00 è priva di giustificazioni. Si rileva inoltre che nel giudizio di primo grado le lavoratrici hanno proposto separati ricorsi, riuniti solo in fase di discussione; che per la fase di discussione doveva essere liquidato un unico compenso, mentre per le precedenti fasi la liquidazione doveva essere commisurata al valore di ciascuna causa.
38. La prima censura è infondata. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite nei casi previsti dal codice, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti minimi e massimi fissati dalle tabelle vigenti (v. Cass. n. 19613 del 2017; n. 8421 del 2017; Sez. 6 n. 24502 del 2017). Nel caso di specie, non è dedotta la violazione dei minimi tariffari ma si chiede la liquidazione della somma di euro 24.908,00 corrispondente, secondo la tesi delle stesse ricorrenti incidentali, al valore medio, ma ciò esula dalle censure spendibili in sede di legittimità. L’aumento del compenso, per l’ipotesi in cui l’avvocato assiste più soggetti aventi la stessa posizione processuale ha carattere discrezionale (art. 4, comma 2, d.m. n. 55/2014) il cui mancato esercizio non può essere dedotto come violazione di legge.
39. La seconda censura del quarto motivo è invece fondata. L’art. 4, comma 2, secondo periodo del d.m. n. 55/2014 prevede che “la disposizione di cui al periodo precedente (ndr. sull’aumento del compenso per il numero delle persone assistite) si applica quando più cause vengono riunite, dal momento dell’avvenuta riunione”. Sul punto questa Corte ha affermato che “in tema di compensi professionali, in caso di riunione di più cause, la liquidazione dei compensi per l’attività svolta prima della riunione deve essere separatamente liquidata per ciascuna causa in relazione all’attività prestata in ciascuna di esse, mentre, per la fase successiva alla riunione, può essere liquidato un compenso unico […], compenso sul quale è facoltà del giudice applicare la maggiorazione […] in presenza dei presupposti previsti dalla tariffa” (Cass. n. 13276 del 2018; v. anche Cass. n. 15860 del 2014; Cass. n. 27295 del 2022). Risultano depositati in allegato al ricorso per cassazione i singoli ricorsi introduttivi di primo grado e il successivo verbale di riunione dei procedimenti. Atteso che la Corte di merito non si è attenuta, nella liquidazione del compenso, al citato principio di diritto, la censura in esame risulta fondata.
40. Per le ragioni finora esposte, la Corte accoglie il quarto motivo del ricorso principale relativo alle ricorrenti L. L., L. D., G. L. e L. G., rigetta il primo e il secondo motivo, dichiara assorbiti il terzo e il quinto ed inammissibile il sesto motivo dello stesso ricorso principale; accoglie il quarto motivo del ricorso incidentale nei limiti di cui in motivazione e rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il quarto motivo del ricorso principale relativo alle ricorrenti L. L., L. D., G. L. e L. G., rigetta il primo e il secondo motivo, dichiara assorbiti il terzo e il quinto e inammissibile il sesto motivo; accoglie il quarto motivo del ricorso incidentale nei limiti di cui in motivazione e rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 luglio 2019, n. 17786 - In tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad…
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 31 luglio 2019, n. 20725 - In tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad…
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 agosto 2019, n. 21159 - In tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 01 settembre 2022, n. 25853 - In tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad…
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