CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 14045 depositata il 22 maggio 2023
Lavoro – Collaborazione nell’impresa familiare – Diritto di prelazione nell’acquisto del ramo d’azienda – Errore di fatto idoneo a costituire il vizio revocatorio – Inammissibilità – i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso
Ritenuto in fatto
Con sentenza n. 14692 depositata in data 26 maggio 2021, la Sezione Sesta di questa Corte ha respinto il ricorso proposto da V.M. avverso la decisione della Corte d’appello di Bari che, qualificata quale collaborazione nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230 bis cod. civ., la prestazione lavorativa resa dall’appellante nell’azienda di trasporti di titolarità del padre, G.M., aveva negato in capo al ricorrente la sussistenza di un diritto di prelazione nell’acquisto del ramo d’azienda ceduto dal padre alla A.D. di V.C. s.r.l.
In particolare, la Corte territoriale aveva accertato che con atto transattivo del 16 marzo 2006, antecedente al trasferimento, avvenuto in data 20 marzo 2006, V.M. aveva ricevuto dal padre G. euro 100.000,00 a titolo di liquidazione della propria quota di partecipazione agli utili e di incrementi patrimoniali per il rapporto di collaborazione all’impresa familiare, avendo contestualmente rinunciato ad ogni ulteriore pretesa nei confronti dell’attività familiare.
Questa Corte, nel respingere il ricorso, fondato su un unico motivo ai sensi dell’art. 360. co 1, n. 5, cod. proc. civ. – con cui si deduceva la violazione degli artt. 230 bis cod civ. e 1362 cod. civ., nonché l’omesso esame di fatto decisivo – ha ritenuto che i giudici di secondo grado si fossero conformati alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di lavoro familiare il limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell’art. 230 bis va individuato nel momento della liquidazione della quota al partecipe.
Ha, quindi, ritenuto che la Corte territoriale avesse svolto un accertamento di fatto dal quale era risultato che all’atto della cessione del ramo d’azienda, V.M. aveva già perso la propria qualità di socio, per aver ottenuto la liquidazione della quota di spettanza.
Per la revocazione della pronunzia propone ricorso assistito da memoria V.M., affidandolo ad un motivo.
Resiste, con controricorso assistito da memoria A.D. di V.C. s.r.l.
Considerato in diritto
In applicazione del principio della c.d. ragione più liquida, che trae fondamento dalle disposizioni di cui agli artt. 24 e 11 Cost., interpretati nel senso che la tutela giurisdizionale deve risultare effettiva e celere per le parti in giudizio, si ritiene opportuno esaminare i motivi di ricorso onde assicurare la definizione del giudizio, senza valutare la fondatezza o meno della questione pregiudiziale relativa alla mancata notifica del ricorso a L.S. e P.A.M., quali eredi di G.M. (Cass. SU 8 maggio 2014, n. 9936; Cass. 12 dicembre 2014, n. 26242).
Con l’unico motivo di ricorso si denunzia la violazione dell’art. 391 bis. cod. proc. civ., allegandosi la sussistenza di un errore di percezione della Corte territoriale là dove ha ritenuto che la presunta liquidazione della quota in favore del partecipe all’impresa familiare sarebbe avvenuta dopo la cessione del ramo di azienda.
Va preliminarmente rilevato che, con riferimento alle sentenze emesse in sede di legittimità, l’errore di fatto idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395 n. 4 cod. proc. civ., oltre a consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente e immediatamente rilevabile e tale da aver indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile, a essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa, a non dover cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata, a presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche, deve «riguardare gli atti interni, cioè quelli che la Corte esamina direttamente, con propria autonoma indagine di fatto, nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d’ufficio, e avere quindi carattere autonomo, nel senso di incidere direttamente ed esclusivamente sulla sentenza della S.C., perché, se invece l’errore è stato causa determinante della decisione di merito, in relazione ad atti o documenti che ai fini della stessa sono stati o avrebbero dovuto essere esaminati, il vizio che inficia la sentenza dà adito agli specifici mezzi di impugnazione esperibili contro le sentenze di merito» (Cass. 8295/2005; Cass. 26643/2018).
Sempre questa Corte, a Sezioni Unite, (Cass. n. 31032/2019) ha affermato che «L’impugnazione per revocazione delle sentenze della Corte di cassazione è ammessa nell’ipotesi di errore compiuto nella lettura degli atti interni al giudizio di legittimità, errore che presuppone l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa; pertanto, è esperibile, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, comma 1, n. 4, c.p.c., la revocazione per l’errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità che non abbia deciso su uno o più motivi di ricorso, ma deve escludersi il vizio revocatorio tutte volte che la pronunzia sul motivo sia effettivamente intervenuta, anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi di censura del punto, perché in tal caso è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva immediatamente percepibile), bensì un’errata considerazione e interpretazione dell’oggetto di ricorso e, quindi, un errore di giudizio».
Nella specie, dal fatto, per come lo stesso risulta descritto nella decisione impugnata in sede di revocazione, risulta che: “la Corte territoriale ha quindi negato la sussistenza, in capo a V.M., di un diritto di prelazione nell’acquisto del ramo d’impresa, ceduto dal padre G.M. alle A.D. di V.C. s.r.I., avendo accertato che con atto transattivo del 16.03.2006, antecedente al trasferimento avvenuto in data 20.03.2006, V.M. aveva ricevuto dal padre Euro 100.000 a titolo di liquidazione della propria quota di partecipazione agli utili e di incrementi patrimoniali per il rapporto di collaborazione all’impresa familiare, ed aveva contestualmente rinunciato ad ogni ulteriore pretesa nei confronti dell’attività familiare”.
Secondo quanto affermato in sede di legittimità, quindi, la Corte d’appello ha svolto un accertamento di fatto, dal quale è risultato che all’atto della cessione del ramo d’impresa da parte di G.M. alle A.D. di V.C. s.r.l., V.M. aveva già perso la qualità di socio, per aver ottenuto la liquidazione della propria quota.
Tale ricostruzione dei fatti non risulta contestata in modo rispondente al disposto di cui all’art. 366 cod. proc. civ. con il ricorso per cassazione, come è confermato sempre dalla sentenza n. 14692 del 2021 oggetto di ricorso per revocazione.
Si legge, infatti, ancora, nella richiamata pronunzia di legittimità, che tale accertamento di fatto “non risulta in questa sede adeguatamente censurato da V.M., né la prospettazione dei fatti da lui avanzata offre, sul piano dell’attuazione delle norme e dei principi di diritto applicabili alla fattispecie, ragioni plausibili all’accoglimento delle critiche rivolte al percorso logico – argomentativo seguito dalla Corte territoriale”.
In particolare, nel ricorso per revocazione ci si lamenta del mancato esame dell’atto di cessione di ramo di azienda del 20 febbraio 2006 e della scrittura privata del 16 marzo 2006, affermandosi che gli stessi risultano essere “in atti”, ma non risulta che i documenti in questione siano stati ritualmente sottoposti all’attenzione della Corte con deposito integrale e trascrizione in ricorso delle loro parti salienti.
Hanno precisato, al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 34469 del 27/12/2019), non solo che sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., le censure afferenti a domande di cui non vi sia compiuta riproduzione nel ricorso, ma anche quelle fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità.
D’altra parte, è consolidato il principio secondo cui i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 13/11/2018; n. 8480 del 2020).
Parte ricorrente non indica in alcun modo la collocazione dei documenti considerati, né riassume per estratto il contenuto dei medesimi onde appare impossibile a questa Corte stabilirne il contenuto con le conseguenze in termini di inammissibilità dell’impugnativa ad essa riconnesse atteso che anche il ricorso per revocazione presenta le medesime lacune.
In ogni caso, è evidente che con esso si mira a denunciare un supposto errore di diritto derivante dal riferimento della Corte di cassazione e, prima ancora, della Corte d’appello su quanto affermato da Cass. n. 17369 del 2016 con riguardo al limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto, da individuarsi nel momento della liquidazione della quota al partecipe, per giungere ad una affermazione di fatto secondo cui alla data della cessione familiare (27 febbraio 2006) il ricorrente sarebbe stato ancora titolare della quota: nessun elemento risulta essere stato allegato, in punto di fatto, quanto al riferimento che si asserisce essere contenuto nella scrittura privata del 16 marzo alla collaborazione familiare.
In verità, è proprio tale ricostruzione fattuale ad essere smentita da quanto accertato in primo e secondo grado (con doppia decisione conforme, quindi) e la Corte di cassazione non poteva che limitarsi a tener conto della ricostruzione effettuata in sede di merito che ancora in sede di revocazione, in difetto di qualsivoglia allegazione di segno contrario affidata alle fasi precedenti, si intende porre in discussione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese in favore della parte controricorrente, che liquida in complessivi euro 6000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborso oltre accessori.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
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