CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 14216 depositata il 23 maggio 2023

Lavoro – Agevolazione tariffaria sul consumo di energia elettrica – Superstiti e pensionati – Natura non retributiva dell’agevolazione tariffaria – Diritti quesiti – Esclusione – Revoca unilaterale del beneficio – Mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione – Irrilevanza – Rigetto

Fatti di causa

1. Con separati ricorsi, gli attuali ricorrenti per cassazione in epigrafe indicati, insieme ad altri attori (in questa sede intimati), convenivano innanzi al Tribunale di Roma l’E. s.p.a., chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni: 1) accertare e dichiarare il loro diritto, quali pensionati E. s.p.a. ovvero quali superstiti di ex dipendenti di E. s.p.a., al mantenimento dell’agevolazione tariffaria sul consumo di energia elettrica nella misura dell’80%, e come beneficiata sino al 31.12.2015 e nella misura di un consumo massimo di 7.000 Kwh ovvero 2.500 Kwh annui; 2) per l’effetto, con condanna della convenuta al ripristino dell’erogazione dell’energia elettrica applicando lo sconto dell’80% e condannare altresì la convenuta al rimborso degli importi pagati in più dai ricorrenti a decorrere dall’1.1.2016 sino al soddisfo a seguito della mancata applicazione dello sconto tariffario dell’80% sul consumo di energia elettrica, oltre interessi e rivalutazione monetaria dalle singole scadenze al saldo; 3) in via subordinata, nel caso in cui il Tribunale ritenesse legittima e valida la revoca unilaterale del beneficio dello sconto tariffario effettuata da E. s.p.a., ed accertata la incongruità e la irragionevole disparità del trattamento economico proposto ai ricorrenti rispetto a quanto offerto ai dipendenti destinatari dell’accordo del maggio-dicembre 2011, condannare E. s.p.a. a corrispondere agli istanti le medesime somme riportate nelle tabelle allegate all’accordo del 2011, oltre rivalutazione; 4) in via ulteriormente subordinata, in caso di mancato accoglimento delle domande precedenti, accertata l’inopponibilità, invalidità ed inefficacia al cospetto degli istanti della condizione prevista a pena di decadenza per l’accettazione della una tantum offerta a compensazione della perdita dello sconto tariffario, così come prevista nelle comunicazioni di E. del 15.12.2015, condannare E. s.p.a. alla corresponsione in favore di ciascun istante della una tantum allo stesso spettante in ragione della tabella allegata alle missive richiamate, oltre rivalutazione dall’1.1.2016 fino al soddisfo; con vittoria di spese in distrazione.

2. Costituitasi la convenuta che contestava tali domande, il Tribunale adito, con sentenza del 19.9.2017, rigettava le domande degli attori, condannandoli al pagamento delle spese processuali.

3. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello che i soccombenti avevano proposto contro la decisione di primo grado, condannandoli al pagamento delle spese del secondo grado, come liquidate e in distrazione, e dichiarando sussistenti per gli appellanti le condizioni per il raddoppio del contributo unificato.

4. Per quanto qui ora soprattutto interessa, la Corte territoriale, nel disattendere i cinque motivi d’appello degli impugnanti, giungeva, come il primo giudice, alla conclusione che “l’agevolazione tariffaria di cui godevano gli stessi non era oggetto di un diritto quesito e intangibile, ma costituiva una mera aspettativa alla conservazione di un beneficio contrattuale sulla quale poteva validamente incidere la disdetta unilaterale attuata dalla società (come pure una contrattazione successiva)”, escludendo, comunque, la natura retributiva di detta agevolazione. I giudici d’appello, inoltre, ritenevano infondato il motivo di gravame, con cui gli appellanti lamentavano il mancato riconoscimento dell’assegno una tantum (non avendo essi sottoscritto il verbale di conciliazione sindacale entro la data indicata nell’accordo), e prive di fondamento le doglianze degli stessi in ordine alla condanna alle spese a loro carico (in quanto regolate secondo soccombenza).

5. Avverso tale decisione soltanto la B., il S., il B., il B. e il M. (del maggior numero degli appellanti) hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

6. Ha resistito l’intimata società con controricorso.

7. Gli altri intimati (vale a dire, le ulteriori persone fisiche che rivestivano la qualità di appellanti in secondo grado e indicati in epigrafe) sono rimasti tali, non essendosi costituiti in questa sede di legittimità.

8. Le parti private costituite e contrapposte hanno prodotto memoria.

9. Il P.G. pure ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano “Nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2094 – 2099 c.c. – art. 360 cpc n. 3)”. Secondo gli stessi, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, nel contesto da loro evidenziato, lo sconto tariffario, che sicuramente non poteva essere ritenuto una liberalità del datore di lavoro, aveva tutte le caratteristiche della retribuzione: obbligatorietà, continuità ed irriducibilità. Infatti, lo sconto si era sempre caratterizzato come una componente della retribuzione corrisposta o della pensione, come nel caso di specie, e quindi come un cd. fringe benefit sottoposto a tassazione da reddito di lavoro dipendente quando il suo valore superava l’importo di € 258,23. Per i ricorrenti, inoltre, era in errore la stessa Corte nell’aver ritenuto che non si trattasse di diritti quesiti, in quanto lo sconto tariffario era entrato nel patrimonio del dipendente, a tal punto da modificarne lo stile di vita, e proprio in forza dell’affidamento allo stesso, necessitava di uno specifico procedimento di modifica.

2. Con il secondo motivo, denunciano “Nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro – mancanza rappresentanza organi sindacali (Art. 1362 c.c. Art. 360 n. 3)”. Deducono che la Corte distrettuale non avrebbe in alcun modo considerato che gli Accordi del 19 aprile 2002, o perlomeno quello successivo del 27 novembre 2015, conclusosi oltre dieci anni dopo, sono stati sottoscritti da organizzazioni sindacali prive della rappresentanza dei ricorrenti, oramai non più lavoratori in attività ma pensionati, quindi non rappresentabili da una diversa categoria ed oltretutto le organizzazioni sindacali avevano agito prive di espresso mandato da parte dei ricorrenti.

3. Con un terzo motivo, denunciano “Nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione di norme di diritto D.M. 55/2014 art. 4, comma 4”. Lamentano che la Corte d’appello nella specie aveva sì operato una riduzione degli onorari rispetto alla nota spese prodotta dalla controparte, però non attenendosi ai principi di cui alle sent. n. 21064/2009 e n. 29651/2018 di questa Corte, e con quantificazione di tali onorari difforme da quella operata in altra sentenza della medesima Corte d’appello di Roma, la sent. n. 1680/2021, resa in caso analogo.

4. I primi due motivi, da esaminare congiuntamente essendo all’evidenza collegati, sono infondati.

4.1. La Corte d’appello, richiamando una serie di precedenti della medesima Corte e di altre Corti d’appello, ha ritenuto incontestato che il controvalore del beneficio non ha mai avuto alcuna incidenza sul calcolo degli istituti contrattuali (mensilità aggiuntive e TFR) e tanto meno sulla misura della pensione; ha ritenuto pacifico che il godimento del beneficio prescindeva totalmente dall’anzianità, dalle mansioni, dalla qualifica e dalle ore lavorate e che la misura della riduzione tariffaria era sempre stata determinata in maniera del tutto indipendente rispetto a qualsiasi parametro riferibile alla prestazione lavorativa del singolo beneficiario. Ha inoltre evidenziato che il benefico era sempre stato strettamente collegato all’uso familiare dell’abitazione principale, tanto che qualora vi fossero stati più componenti di uno stesso nucleo familiare tutti dipendenti E., l’agevolazione spettava comunque per una sola utenza, come espressamente previsto da tutti i contratti collettivi succedutisi dal 1961 in avanti. Segnalava, menzionando specifiche previsioni dei CCNL mano a mano nel tempo intervenuti, che in origine il beneficio poteva essere concesso a lavoratori che, già al momento del suo primo riconoscimento, erano in pensione e quindi non prestavano alcuna attività lavorativa in favore del soggetto concedente, nonché a soggetti che non erano mai stati dipendenti, quali vedove di lavoratori deceduti per causa di servizio o pensionati, oltre che ai famigliari di lavoratori assenti dal servizio. Considerava, pertanto, che si tratta, nel complesso, di caratteristiche talmente particolari che non consentono di qualificare il beneficio in questione alla stregua di un emolumento retributivo in natura, e che difettava nella specie un reale profilo di corrispettività tra beneficio in questione e l’obbligazione gravante sul lavoratore. Riteneva, infine, evidente che le sentenze n. 25024/15 e n. 586/17 di questa Corte, richiamate dagli allora appellanti, avevano espressamente accertato la natura della agevolazione tariffaria ai soli fini fiscali, e non consentivano di ritenere che questa Suprema Corte abbia inteso ricondurre l’agevolazione all’interno della nozione di retribuzione propria della disciplina civilistica del rapporto di lavoro.

4.2. Tale motivata affermazione della natura non retributiva dell’agevolazione tariffaria, da parte della Corte territoriale, appare condivisibile alla luce della regolamentazione collettiva dell’istituto che esclude ogni collegamento tra l’agevolazione in questione e la prestazione del singolo lavoratore.

Né potrebbe valere a sorreggere l’affermazione della natura retributiva dell’agevolazione in questione la sua qualificazione come “reddito da lavoro” ai fini IRPEF in talune decisioni di questa Corte, tenuto conto delle specifiche finalità della legge tributaria per la quale ciò che rileva è che una determinata erogazione (o il suo controvalore) costituisca indice di capacità contributiva che lo renda assoggettabile a prelievo fiscale; tanto esclude che dalla qualificazione ai fini fiscali dell’agevolazione tariffaria possano trarsi indicazioni destinate ad incidere sulla configurabilità dell’istituto in oggetto nell’ambito del rapporto di lavoro.

Del resto, le ulteriori decisioni di legittimità, richiamate dai ricorrenti (Cass. n. 27713/2017 e n. 24279/2020, ma v. anche id. n. 30343/2018; n. 11676/2019, tutte della Sezione tributaria di questa Corte), come risulta dalle relative motivazioni, al pari di quelle considerate dalla Corte territoriale, e come esattamente ritenuto da quest’ultima, non hanno espresso valutazioni volte a sostenere che il beneficio in quanto tale dovesse essere qualificato di natura retributiva o corrispettiva in generale e, segnatamente, sul piano del rapporto di lavoro, oltre che assoggettato ad imposizione fiscale in base alle apposite norme ivi richiamate. Queste ultime norme, infatti, e segnatamente l’art. 51, comma 1, TUIR, cui fanno precipuo riferimento dette pronunzie, considerano reddito da lavoro dipendente, e non retribuzione, “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”.

E analogamente sul fronte contributivo-previdenziale, cui pure fanno cenno i ricorrenti, questa Corte ha posto in luce che la nozione di retribuzione imponibile ai fini contributivi è più ampia della nozione civilistica, di generale applicazione, della retribuzione (art. 2099 c.c.), in quanto non ricomprende solo il corrispettivo della prestazione lavorativa, ma tutto ciò che il lavoratore riceve, oppure ha diritto di ricevere, dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro (così, ad es., Cass. civ., sez. lav., 2.8.2010, n. 17990). Del resto, s’è visto che la Corte territoriale ha accertato che lo sconto tariffario non aveva alcun riflesso sul quantum della pensione degli interessati.

6. Quanto, poi, alla tesi dei ricorrenti secondo la quale essi rispetto allo sconto tariffario vantavano altrettanti diritti ormai quesiti, si deve anzitutto evidenziare che la Corte d’appello in proposito ha espresso una ratio decidendi dichiaratamente autonoma rispetto a quella circa la natura del beneficio. Ha, infatti, osservato che: <ai fini della intangibilità di un emolumento riconosciuto ai lavoratori e pensionati per effetto della contrattazione collettiva, non basta dimostrare la sua natura retributiva, ma occorre provare che esso è diventato parte del patrimonio del dipendente come “diritto quesito”>.

I ricorrenti nella specie hanno impugnato la sentenza della Corte di merito pure sotto tale profilo.

Tuttavia, la preliminare osservazione della stessa Corte serba rilievo per mettere in luce altro aspetto. La nozione di diritti quesiti, benché di frequente applicazione a livello giurisprudenziale soprattutto nel campo lavoristico e previdenziale, è generale. La locuzione “diritti quesiti”, del resto, è da tempo utilizzata dallo stesso legislatore nei campi più disparati (cfr., ad es., in ambito processuale, l’art. 164, comma quinto, c.p.c., ma, sempre a mero titolo esemplificativo, l’art. 50, comma 1, lett. b), l. n. 52/1996; l’art. 62 d.lgs. n. 139/2005), di solito per salvaguardare o far salvi determinati diritti, appunto quesiti.

Il relativo concetto, sul piano tecnico-giuridico, è pacificamente quello di diritti che siano già entrati nel patrimonio di un determinato soggetto (non sempre un lavoratore o un pensionato).

Ebbene, nel caso di specie, il collegio d’appello ha incisivamente osservato “che il diritto alla agevolazione tariffaria non possa essere considerato un diritto quesito, in quanto non si discute di revoca delle agevolazioni per servizi già fruiti nella vigenza della pattuizione collettiva, bensì di cessazione ex nunc dell’applicazione dello sconto per le future erogazioni di energia elettrica, incerte nell’an e nel quantum”.

Questa affermazione, quindi, rispetto al beneficio di cui si discute è senz’altro giuridicamente corretta anzitutto in relazione alla nozione generale di diritto quesito sopra ricordata.

6.1. La stessa Corte, poi, in proposito ha richiamato Cass. civ., sez. lav., 20.8.2009, n. 18548.

Ma la conclusione tratta è conforme ad un consolidato indirizzo di questa Corte, secondo il quale, (anche) nell’ambito del rapporto di lavoro sono configurabili diritti quesiti, che non possono essere incisi dalla contrattazione collettiva, solo con riferimento a situazioni che siano già entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato (cfr., ad es., Cass. civ., sez. lav., 17.8.2018, n. 20765), ad esempio quale corrispettivo di una prestazione già resa (cfr. Cass. civ., sez. lav., 18.6.2018, n. 16043; id., sez. lav., 19.2.2014, n. 3982; id., sez. lav., 2.4.2001, n. 4839) o di una fase del rapporto già esaurita (id. n. 18548/2009, richiamata dalla Corte d’appello), oppure ancora in relazione ad evento già maturato (cfr. Cass. civ., sez. lav., 8.5.2000, n. 5825).

Nessuna di queste ultime condizioni è stata allegata dai ricorrenti, o comunque riscontrata dai giudici del doppio grado di giudizio nel merito.

6.3. Gli attuali ricorrenti, piuttosto, deducono essere evidente che l’E. attribuendo un beneficio di tale tipo (80% di sconto sulla tariffa elettrica) ha indotto un (astratto) “dipendente a organizzare la propria vita quotidiana potendo godere dell’agevolazione assegnatagli dal datore di lavoro, portandolo a fare scelte economiche e di condizione famigliare (elettricità preferita al gas) per la sua quotidianità, proprio in forza di quel beneficio di cui godeva e del quale poteva fare affidamento nell’economia domestica”. Secondo gli stessi, perciò, “lo sconto tariffario era entrato nel patrimonio del dipendente, a tal punto da modificarne lo stile di vita”.

Sennonché in disparte la genericità del rilievo, sganciato da qualsiasi accertamento probatorio compiuto dai giudici di merito, men che meno in ordine ad ognuno degli attuali ricorrenti, ciò che questi descrivono ed allegano corrisponde ad una mera aspettativa legata al fare affidamento sul fatto che anche in futuro e sine die avrebbero goduto di un peculiare beneficio, non previsto però da una norma di legge, ma di matrice collettiva.

Tanto, però, non corrisponde assolutamente a ciò che può far reputare già acquisito nel patrimonio individuale di ognuno di loro il diritto all’agevolazione in occasione dei futuri consumi di energia elettrica. Le norme collettive succedutesi nel tempo, infatti, andavano a regolare solo le condizioni di acquisto di diritti futuri.

La giurisprudenza di questa Corte, pertanto, è costante nell’escludere che costituiscono diritti quesiti dei lavoratori solo quei diritti che siano già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore, ad esempio quale corrispettivo di una prestazione già resa, e non con riferimento alla tutela di semplici pretese alla stabilità nel tempo di normative collettive più favorevoli ovvero di aspettative sorte sulla base di tali regolamentazioni previgenti (così Cass. civ., sez. lav., 18.6.2018, n. 16043; e in termini esatti o analoghi id., sez. lav., 28.11.2016, n. 24109; id., n. 18548/2009, già cit.; id., sez. lav., 18.9.2007, n. 19351; id., sez. lav., 8.5.2000, n. 5825).

6.4. Le residuali argomentazioni dei ricorrenti si fondano su talune disposizioni di CCNL e di accordi collettivi, in base alle quali si dovrebbe concludere che tra le parti collettive era stato esplicitamente escluso che il beneficio dello sconto tariffario potesse godere della revoca unilaterale, in quanto non prevista (cfr. pagg. 16- 17 e 20 del ricorso).

In parte qua, i motivi in esame presentano profili d’inammissibilità per difetto di autosufficienza e di specificità.

Vengono, invero, richiamati anche svariati accordi non prodotti in questa sede, dei quali non viene specificato se e da chi fossero stati prodotti in precedenza e, in caso di pregressa produzione, dove attualmente si trovino nell’incarto processuale; per giunta di tali accordi non vengono trascritte o richiamate le specifiche disposizioni asseritamente rilevanti.

In ogni caso, quand’anche tali pregresse disposizioni collettive non avessero previsto la possibilità di revoca unilaterale di quella specifica che prevedeva l’agevolazione, la disdetta contestata era invece consentita e legittima.

A questo specifico proposito, la Corte territoriale correttamente ha richiamato Cass. n. 18549/2009, già cit., secondo la quale: “Il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare – nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del vincolo obbligatorio. Ne consegue che, in caso di disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione (negli esatti termini id., sez. lav., 18.9.2007, n. 19351).

6.5. Nell’ambito del secondo motivo i ricorrenti hanno richiamato Cass. civ., sez. lav., 28.10.2013, n. 24268, la quale aveva confermato i medesimi principi di diritto espressi da Cass. n. 18548/2009 e n. 19351/2007, ma li aveva ritenuti violati nella fattispecie concreta di soppressione della fornitura di gas a tariffa ridotta per i dipendenti, anche in pensione, di una società di gestione del relativo servizio, che avevano optato per tale beneficio in natura in luogo di un assegno ad personam pensionabile, senza che fosse stato loro assicurato, dopo il collocamento a riposo, il corrispondente controvalore economico. Anche Cass. n. 24533/2013 riguardava pressoché identica fattispecie.

Si tratta, però, di precedenti di questa Corte che hanno scrutinato fattispecie non sovrapponibili a quella in esame. In quei casi, infatti, il beneficio simile allo sconto tariffario sui consumi di energia elettrica, e cioè consistente nell’usufruire del gas a tariffa ridotta, in base ad apposito accordo aziendale era stato optato dagli interessati in sostituzione di un assegno retributivo mensile previsto per tutti i dipendenti e i pensionati.

E’ stato, allora, evidenziato nella motivazione di quelle decisioni che l’opzione suddetta, tra l’altro, “comportò da un lato la corresponsione di una retribuzione inferiore rispetto a quella percepita dai lavoratori che avevano viceversa optato per l’erogazione dell’assegno; dall’altro la determinazione, all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, di una pensione in misura inferiore rispetto a quella degli altri colleghi, perché calcolata su una retribuzione non comprensiva di tale assegno”. E’ stato, perciò, considerato che quei “dipendenti che avevano operato la scelta, acquisendo il diritto, non più modificabile per espressa pattuizione, al mantenimento del beneficio in natura, sono stati privati di un diritto già entrato a far parte del loro patrimonio e, come tale intangibile, in quanto connesso, al momento dell’opzione, alla loro prestazione lavorativa”, e che “correttamente, la sentenza impugnata abbia ritenuto trattarsi di un diritto avente natura retributiva, entrato a far parte a pieno titolo del sinallagma genetico del rapporto e di conseguenza del patrimonio individuale di ogni singolo lavoratore e quindi insuscettibile di essere revocato”.

7. Quanto alla specifica questione sollevata nel secondo motivo, circa l’assenza di rappresentatività, rispetto ai ricorrenti, delle associazioni sindacali che avevano stipulato in particolare l’Accordo del 27.11.2015, nota anzitutto il Collegio che non risulta che tale precipua questione fosse stata devoluta alla cognizione della Corte di merito nei motivi d’appello proposti (di cui si dà conto alla seconda e alla terza facciata dell’impugnata sentenza). La questione, perciò, risulterebbe nuova in questa sede di legittimità.

Peraltro, pur deducendosi che tale aspetto non sarebbe stato considerato dalla Corte territoriale, detta questione è stata qui posta esclusivamente in chiave di violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, e non invece in termini di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. su un motivo d’appello (deducibile ex art. 360, comma primo, n. 4), c.p.c.) oppure allegando il vizio di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c.

7.1. In ogni caso, la dedotta assenza di rappresentatività delle organizzazioni sindacali che avevano stipulato l’Accordo del 27.11.2015, ossia, quello che aveva portato all’eliminazione dell’agevolazione tariffaria, sarebbe irrilevante a fronte dell’inesistenza di diritti quesiti dei ricorrenti a riguardo, qui confermata, e dirimente a riguardo.

Infatti, secondo un risalente indirizzo di questa Corte, il principio per cui alla contrattazione collettiva non è consentito incidere, in relazione alla regola dell’intangibilità dei diritti quesiti, su posizioni già consolidate o su diritti già entrati nel patrimonio dei lavoratori in assenza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte degli stessi, non si applica alla distinta ipotesi in cui il contratto collettivo venga ad incidere su posizioni non ancora qualificabili come di diritto soggettivo, ma soltanto a regolare le condizioni di acquisto di diritti futuri (ad esempio: salario non maturato, contingenza non ancora scattata) (in tal senso Cass. civ., sez. lav., 17.3.1999, n. 2429; id., sez. lav., 12.9.1995, n. 9646; id., sez. lav., 23.7.1994, n. 6845, e in termini analoghi id., sez. lav., 1.7.2014, n. 14944; id., sez. lav., 29.9.2009, n. 20838; id., sez. lav., 22.6.2004, n. 11634).

8. Inammissibile, per difetto della specificità richiesta dall’art. 366, comma primo, n. 4), c.p.c. è il terzo motivo di ricorso, afferente il regolamento delle spese processuali di secondo grado.

In proposito si legge nell’impugnata sentenza: “Le spese seguono la soccombenza e si liquidano, con beneficio della distrazione, nel minimo tenuto conto che la fattispecie è ripetitiva ed è stata oggetto di numerose pronunce, tutte del medesimo tenore. La nota spese dell’appellata deve quindi essere disattesa”. Dette spese sono state, poi, liquidate in dispositivo “in complessivi € 12.200,00, oltre a spese generali al 15%, iva e cpa, da distrarsi”. Come premesso in narrativa gli allora appellanti, risultati soccombenti, erano in numero maggiore rispetto agli attuali ricorrenti, e precisamente erano diciassette.

Ebbene, dalla non perspicua censura ora in esame non è dato comprendere sotto quale profilo i ricorrenti sostengano la violazione dell’art. 4, comma 4, d.m. n. 55/2014 in relazione ad una liquidazione dei compensi in favore dei difensori della convenuta, che, come si è visto, la Corte territoriale ha specificato essere stata operata in relazione ai minimi applicabili, neppure avendo indicato i ricorrenti quale fosse il valore della causa in secondo grado, la tabella che sarebbe da prendere in considerazione e le fasi svoltesi in quel grado.

9. In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto con regolamento secondo soccombenza delle spese di lite, liquidate ai sensi del D.M. n. 147/2022, e da distrarre in favore dei difensori della controricorrente, dichiaratisi anticipatari.

10. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’art. 13 d.P.R. n. 115/2002.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 5.000,00 per compensi professionali, oltre a rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge, e distrae in favore dei difensori della società controricorrente, Avv.ti V. P. e P. Z..

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.