CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 15226 depositata il 30 maggio 2023
Lavoro – Decadenza impugnazione contratti a termine – Singole impugnative stragiudiziali – Clausola di contingentamento – Capacità espansiva dell’impugnazione ultimo contratto – Termine di decadenza dalla data di scadenza del contratto – Direttiva 2008/104/CE – Durata massima del contratto – Rinnovi massimi – Abusiva reiterazione – Principio di acausalità – Accoglimento
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che, per quanto ancora interessa, aveva dichiarato decaduto il ricorrente dalla facoltà di impugnare gli otto contratti a tempo determinato intercorsi con la C.F. s.p.a. nel periodo dal 5.4.2011 al 31.10.2014.
2. Il giudice di appello ha ritenuto che nel caso di plurimi contratti a tempo determinato, anche succedutisi nel tempo in sostanziale continuità, l’obbligo di impugnazione in sede stragiudiziale nel termine di sessanta giorni (cui deve far seguito poi il ricorso giudiziale nel termine fissato da prima in 270 giorni e poi in 180 giorni) decorre dalla scadenza dei singoli contratti e non, come ritenuto dal ricorrente, dalla scadenza dell’ultimo della sequenza.
3. Ha rilevato infatti che il legislatore nulla ha previsto che possa orientare in tal senso ed ha poi evidenziato che, al momento della cessazione del rapporto per scadenza del termine, quella del lavoratore alla stipula di un nuovo contratto è una mera aspettativa di fatto e che la decorrenza del termine non può restare sospesa posto che il lavoratore, a quella data, non può sapere se, come e quando un nuovo contratto verrà concluso. Inoltre, ha ritenuto che anche nella pendenza di un nuovo contratto a termine sia comunque attuale l’interesse del lavoratore all’impugnazione.
4. Ciò posto, e con riguardo all’ultimo dei contratti sottoscritti dal lavoratore (quello acausale dal 19.1.2015 al 21.2.2015) il giudice di appello ha ritenuto generiche le censure con le quali era stata denunciata la violazione della disciplina unionale. Quanto al dedotto mancato rispetto della clausola di contingentamento, la Corte di merito ha ritenuto generica la censura osservando che il lavoratore non poteva limitarsi ad indicare le norme di legge che assumeva essere state violate ma doveva allegare i fatti in base ai quali riteneva sussistere la violazione.
5. A.J. ha chiesto la cassazione della sentenza articolando due motivi. La C.F. s.p.a. è rimasta intimata.
Il Procuratore generale ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo di ricorso ed il rigetto del primo. Il ricorrente ha depositato memoria in vista dell’udienza di discussione che poi è stata rinviata di nuovo per l’odierna udienza.
Ragioni della decisione
6. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la falsa applicazione dell’art. 6 legge 604 del 1966 come modificato dall’ art. 32 comma 1 della legge n. 183 del 2010, in relazione all’art. 2966 c.c. e 24 Cost. Il ricorrente sostiene che, nel caso di rapporti plurimi succedutisi con sostanziale continuità e comunque con intervalli inferiori al termine di impugnativa stragiudiziale, l’impugnazione dell’ultimo contratto si comunichi anche ai precedenti poiché la riassunzione del lavoratore entro il termine di decadenza ne impedisce il decorso. Ad avviso del ricorrente sarebbe illogico un sistema che preveda singole impugnative stragiudiziali (nei 120 giorni) e ricorsi (nei successivi 180 giorni) per ciascuno dei contratti che intercorrano tra le parti. A tal riguardo, deduce che in caso di impugnazione diverrebbe certo il non rinnovo e deduce che una tale interpretazione sarebbe inconciliabile con la direttiva CE 2008/104 relativa al lavoro tramite agenzia interinale.
7. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 in relazione al considerando n. 6 della direttiva 1999/70/CE e si deduce che alla costituzione di un contratto di lavoro a tempo determinato, dopo una lunga serie di contratti a termine tra le stesse parti, devono comunque sottostare ragioni di carattere temporaneo. Ad avviso del ricorrente, infatti, la circostanza che non sia più necessario indicare nel contratto le ragioni dell’apposizione del termine non esclude che tali ragioni debbano esistere ontologicamente e debbano essere provate dal datore di lavoro in giudizio. Diversamente non vi sarebbe alcuna distinzione tra lavoro a tempo indeterminato e a termine e se ne determinerebbe una sostanziale liberalizzazione in contrasto con la disciplina europea che prevede il contratto a tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro.
8. Il primo motivo di ricorso è infondato.
8.1. Ritiene il Collegio che anche nell’ambito della specifica disciplina dettata dal d.lgs. n. 368 del 2001 per i contratti a termine valgano i principi già affermati da questa Corte in numerose sentenze rese nell’ambito dei contratti di somministrazione a tempo determinato nelle quali si è già avuto occasione di confrontarsi con il tema della capacità espansiva dell’impugnazione dell’ultimo contratto di lavoro a termine anche a quelli che lo hanno preceduto proprio con riferimento all’ipotesi in cui tra un contratto e l’altro sia intercorso un termine inferiore a quello utile per l’impugnazione stragiudiziale (cfr. Cass. 25/02/2020 n. 5037). In quella sede, nel richiamare altre pronunce (Cass. n. 30134, 30135, 30136, 32702 del 2018 e nn. 422, 2283 e 24356 del 2019) si è ribadito il principio secondo cui: «in tema di successione di contratti di lavoro a termine in somministrazione, l’impugnazione stragiudiziale dell’ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l’impugnativa». In particolare, va condiviso l’orientamento espresso da questa Corte già con la sentenza 08/02/2020 n. 2420 con la quale era stato affermato che il termine di decadenza di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966, come successivamente modificato, decorre, per i contratti di somministrazione, dalla data di scadenza originariamente pattuita.
8.2. In quella sede si specificò che il potenziale rinnovo per un numero indefinito di volte dei contratti di somministrazione, a differenza di quanto previsto per i contratti a termine, non autorizzava di per sé il lavoratore a nutrire alcun affidamento tale da rendere necessaria una comunicazione del datore di lavoro. Nel confermare tale statuizione anche con riguardo ai contratti a termine, sembra opportuno chiarire che, al di fuori dei casi specifici previsti dall’art. 5 commi 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 per i quali la reiterazione del contratto a termine comporta per legge che il secondo contratto si consideri a tempo indeterminato ovvero che il rapporto sia tale sin dalla stipula del primo contratto ( è questo il caso della successione di assunzioni a termine senza soluzione di continuità) (cfr. 11/03/2022 n. 8038), la mera reiterazione dei contratti a termine non può ingenerare alcun affidamento del lavoratore.
8.3. In continuità con quanto già affermato nell’ambito della somministrazione a termine va ribadito allora che, al di fuori dei casi su richiamati, la singolarità dei contratti e l’inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro evidenzia la necessità che a ciascuno di essi si applichino le regole inerenti alla loro impugnabilità, venendo altrimenti anticipata in modo non giustificato una eventuale considerazione unitaria del rapporto lavorativo, estranea al fatto storico allegato, il cui rilievo giuridico è oggetto della domanda avanzata.
8.4. Inoltre, non è pertinente il richiamo a fatti impeditivi della decadenza (art. 2966 cod.civ.), in quanto specificamente previsti e, dunque, non suscettibili di applicazione estensiva ed analogica.
8.5. Quanto alla tenuta dei principi esposti con riguardo al Diritto dell’Unione prospettata proprio con riguardo alla Direttiva 2008/104/CE, è stato già precisato che l’interpretazione qui richiamata e condivisa non «si pone in contrasto con il diritto dell’Unione quale fattore – ai sensi dell’art. 6, comma 2, della direttiva 2008/104/CE – di ostacolo o impedimento alla “stipulazione di un contratto di lavoro o l’avvio di un rapporto di lavoro tra l’impresa utilizzatrice e il lavoratore tramite agenzia interinale al termine della sua missione”, poiché la direttiva in questione, che non è autoapplicativa, si rivolge unicamente agli Stati membri, senza imporre alle autorità giudiziarie nazionali un obbligo di disapplicazione di qualsiasi disposizione di diritto nazionale che preveda, al riguardo, divieti o restrizioni che non siano giustificati da ragioni di interesse generale» (cfr. Cass. 30/09/2019 n. 24356).
9. Il secondo motivo di ricorso è invece fondato e deve essere accolto.
9.1. Alla presente fattispecie trova applicazione l’art. 1 comma 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 nel testo in vigore al momento della conclusione del contratto (stipulato il 19.1.2015) che dispone che al comma 1 dell’art. 1 “le parole da «a fronte» a «di lavoro»” sono sostituite da “«di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro ((. . .)) e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276” e, fatto salvo quanto disposto dall’articolo 10, comma 7, introduce una clausola di contingentamento delle assunzioni a tempo determinato che non possono eccedere il limite del 20 per cento da calcolare secondo i criteri fissati dalla norma.
9.2. In sintesi, la disposizione pone quale unico vincolo per la stipula di contratti acausali la durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe e ne condiziona la legittimità al limite percentuale del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1º gennaio dell’anno di assunzione.
9.3. Orbene nel caso in esame occorre verificare se tale assetto violi la direttiva 1999/70/CE, alla luce del suo considerando n. 6. Non si discute infatti dell’accertamento compiuto dalla Corte territoriale relativamente al mancato superamento del limite dei trentasei mesi né tanto meno viene riproposta la questione, ritenuta generica dal giudice di appello, del superamento dei limiti di contingentamento.
9.4. Al riguardo va rilevato che né la Corte di merito né, prima ancora, il Tribunale si sono confrontati con la posta questione della compatibilità con il diritto dell’Unione della disciplina dettata dalla normativa denunciata. Si tratta di questione che sarebbe comunque rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado e che impone a questa Corte di verificare la conformità della disciplina e della sua interpretazione all’ordinamento comunitario sollevando, quando si nutrano dubbi, la relativa questione davanti alla Corte di Giustizia (cfr. tra le altre Cass. 15/10/2012 n. 17645 e già 03/05/2007 n. 10208).
9.5. Tanto premesso va qui ribadito che è principio generale del nostro ordinamento, coerente con i principi dettati dalla direttiva dell’Unione in materia di contratti a termine, che il contratto di lavoro è normalmente a tempo indeterminato ed il contratto a termine resta una ipotesi eccezionale. L’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 6 settembre 2001 con il quale è stata recepita la direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall’UNICE e dal CEEP, nella sua formulazione originaria disponeva che il contratto a termine potesse essere legittimamente stipulato solo a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.
9.6. Tale disposizione è stata poi radicalmente modificata, con il d.l. n. 34 del 2014 convertito nella legge n. 78 del 2014, ed è stato cancellato ogni riferimento alle ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive giustificative dell’adozione del contratto a termine. Tale impostazione aveva successivamente trovato conferma col d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, il cui impianto è stato però in parte superato dal d.l. n. 87 del 12 luglio 2018 (poi convertito nella legge n. 96 del 9 agosto 2018) che ha parzialmente ripristinato l’obbligo di indicare le causali.
9.7. La norma confermata in sede di conversione, e applicabile alla presente fattispecie, consente perciò l’apposizione del termine al contratto di lavoro senza che sia necessario indicare “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Il criterio per valutare la legittimità del termine è ravvisato dalla disposizione nel periodo massimo di utilizzo della prestazione individuato in trentasei mesi e nella possibilità di prevedere, in tale limite, non più di cinque proroghe dell’originario contratto.
9.8. Nel verificare la conformità o meno della disposizione alla disciplina eurounitaria ed il rispetto della previsione dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 ed allegato alla direttiva 1999/70/CE, va ricordato che con la clausola 5 si statuisce che per contrastare il ricorso abusivo al contratto a termine “…gli Stati membri, previa consultazioni delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e delle prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti “
9.9. In base al tenore letterale della ricordata clausola, gli strumenti per contrastare i fenomeni di abuso possono essere tra loro alternativi con la conseguenza che anche la previsione di un limite temporale massimo soddisfa il presupposto di legittimità, dal momento che è stata lasciata agli Stati membri la discrezionalità di scegliere quale delle misure adottare (cfr. a tal riguardo la sentenza
Mascolo e altri del 26 novembre 2014 punti 74 e ss. e già F. e a. del 3 luglio 2014 punto 59 che richiama le sentenze Impact, 15 aprile 2008 punto 71, A. e a. 23 aprile 2009 punti 81 e 93).
9.10. Occorre tuttavia verificare la tenuta di tale ricostruzione alla luce delle affermazioni contenute nella sentenza della C.G.U.E. 14 ottobre 2020 nella causa C-681/18 JH contro KG in quanto, sebbene la pronuncia sia riferita all’Istituto della somministrazione, essa tuttavia presenta profili di forte contiguità con la disciplina che ha innovato anche la materia dei contratti a termine (è la medesima norma, l’art. 1 del d.l. n. 34 del 2014 convertito nella legge n. 78 del 2014, che ha eliminato la necessità delle causali per entrambi gli istituti).
9.11. Orbene in tale sentenza la Corte di giustizia rammenta che la Direttiva mira a conciliare l’obiettivo di flessibilità perseguito dalle imprese con il rispetto dei principi di parità di trattamento dei lavoratori che operano per il tramite di agenzia interinali e con l’obiettivo di consentire solo le restrizioni che siano giustificate da interessi di carattere generale e che ineriscano alla tutela dei lavoratori.
9.12. Si tratta di obiettivi finalizzati a ravvicinare le condizioni del lavoro, in quel caso tra lavoratori interni e lavoratori somministrati, posto che anche per tale specifica disciplina vige la regola generale (dettata al considerando n. 15 di quella Direttiva, la 2008/104) che la forma comune dei rapporti di lavoro è il contratto a tempo indeterminato.
9.13. La finalità è individuata dalla Corte di Giustizia nell’adozione di misure che impediscano abusi ed elusioni della direttiva per mezzo di ripetute successive missioni e in tale prospettiva la Corte dell’Unione, pur ritenendo che non ostasse alla direttiva (l’art. 5, par. 5, prima frase, direttiva 2008/104/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008) una normativa nazionale che non limiti il numero di missioni successive di un medesimo lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice e non prescriva, ai fini della legittimità del contratto, l’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustifichino tale ricorso per altro aspetto, tuttavia ha chiarito che la disposizione nazionale deve essere interpretata nel senso che essa osta a che uno Stato membro non adotti alcuna misura al fine di preservare la natura temporanea del lavoro tramite agenzia interinale, nonché ad una normativa nazionale che non preveda alcuna misura al fine di evitare l’assegnazione ad un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale di missioni successive presso la stessa impresa utilizzatrice con lo scopo di eludere le disposizioni della direttiva 2008/104 nel suo insieme.
9.14. La Corte ha sottolineato che, per costante giurisprudenza, l’obbligo dello Stato membro, derivante da una direttiva, di raggiungere il risultato ivi previsto e il dovere, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE e dell’articolo 288 TFUE, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi dello Stato, compresi, nell’ambito della loro competenza, quelli giurisdizionali (cfr. la sentenza 19 settembre 2019, R., C-467/18, EU:C:2019:765, punto 59 e la giurisprudenza ivi citata) e che il principio d’interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio, nei limiti delle loro competenze, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione e per pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultimo (in tal senso vedi ancora la citata R. al punto 60 e la giurisprudenza ivi citata). In questa prospettiva ha poi precisato che il principio dell’interpretazione conforme del diritto nazionale è soggetto a dei limiti e che l’obbligo, per il giudice nazionale, di fare riferimento al contenuto del diritto dell’Unione nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto interno non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (R., punto 61 e giurisprudenza ivi citata).
9.16. Nello specifico contesto del contratto di somministrazione di lavoro, allora, la Corte di Giustizia ha individuato i temi con i quali il giudice nazionale in sede di rinvio doveva confrontarsi: a) se le ripetute missioni determinassero, valutate nel loro complesso, una durata del rapporto elusiva della sua natura temporanea; b) se sia ravvisabile un abuso di tale forma di rapporto nelle missioni successive assegnate al medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice; c) se dal ripetersi delle missioni risulti compromesso l’equilibrio realizzato da tale direttiva tra la flessibilità per i datori di lavoro e la sicurezza per i lavoratori, a discapito di quest’ultima e se tenendo conto delle circostanze del caso specifico risultino aggirate le prescrizioni della direttiva.
10. Ritiene allora il Collegio che nell’interpretare l’art. 1 del d.lgs. 368 del 2001 come modificato dall’art. 1 comma 1 lett. a) n. 1 del d.l. n. 34 del 2014 come convertito dalla legge n. 78 del 2014 non si possa prescindere, anche con riguardo ai contratti a termine, dall’interpretazione offertane dalla CGUE con la sentenza su richiamata trattandosi di una lettura che ad essi ben si attaglia stante che, anche per i contratti a termine, come si è in principio ricordato, è stato previsto un generale principio di acausalità con una limitazione esclusivamente temporale di durata complessiva.
10.1. Anche in tale ipotesi si ha riguardo ad una successione di contratti che assume rilievo ai fini della qualificazione del termine come legittimo o meno.
10.2. Ne consegue che per ritenere temporanea l’esigenza la valutazione non può essere parcellizzata e deve estendersi necessariamente alle modalità complessive di svolgimento del rapporto.
10.3. La circostanza che il ricorrente sia decaduto dalla possibilità di impugnare specificatamente i termini apposti ai contratti precedenti non esclude che il giudice debba tenere conto, nel valutare la legittimità del contratto tempestivamente impugnato anche alla luce del dato fattuale dell’esistenza di pregressi contratti a termine con lo stesso datore di lavoro per accertare se complessivamente l’attività “possa ragionevolmente qualificarsi «temporanea», alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore” o non denoti piuttosto un ricorso abusivo a tale forma di lavoro e perciò illegittimo (in tale prospettiva v. anche CGUE 17 marzo 2022, nella causa C- 232/20 sempre con riguardo alla medesima norma).
10.4. In sostanza non è precluso l’accertamento di un’abusiva reiterazione ove, come nella specie, l’impugnazione stragiudiziale venga rivolta nei confronti dell’ultimo contratto di una serie, quando la parte sia decaduta dall’impugnativa dei contratti precedenti.
La vicenda contrattuale, pur insuscettibile di poter costituire fonte di azione diretta per essere intervenuta la decadenza, può tuttavia rilevare come antecedente storico che entra a far parte di una sequenza di rapporti, valutabile, in via incidentale, dal giudice, al fine di verificare se la reiterazione dei contratti abbia oltrepassato il limite di durata che per poter ritenere rispettato il limite massimo di trentasei mesi. La vicenda contrattuale può «rilevare fattualmente» (cfr. Cass. n. 22861 del 2022 resa in materia di contratti a termine nell’ambito di rapporti di lavoro in somministrazione, ma che sul punto può trovare applicazione rispetto alla fattispecie in esame ed alla quale hanno fatto seguito anche le nn. 23490,23494,23499, 23531 e 29570 del 2022): in particolare, «come antecedente storico che entra a fare parte di una sequenza di rapporti e che può essere valutato, in via incidentale, dal giudice» (Cass. n. 22861 del 2022 cit.), al fine di verificare se la reiterazione dei contratti del lavoratore con lo stesso datore di lavoro abbia oltrepassato il limite legale di durata, sì da realizzare una elusione degli obiettivi della direttiva 1999/70/CE, atteso che «quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario» (CGUE, causa C- C-53/04, M.S.).
11. Per le ragioni esposte il secondo motivo di ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata deve essere rinviata alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione che procederà ad un nuovo esame della legittimità del termine apposto al contratto del 19 gennaio 2015 applicando i principi su esposti. Alla Corte del rinvio è demandata anche la regolazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo di ricorso. Accoglie il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione anche per le spese del giudizio di legittimità.