Corte di Cassazione sentenza n. 16641 depositata il 23 maggio 2022
IMU – immobili adibiti a culto religioso
FATTI DI CAUSA
L’Associazione ha impugnato la cartella di pagamento relativa alla Tarsu dell’anno 2008, pretesa dal Comune, deducendo che i locali oggetto di tassazione sono adibiti al culto, ed in quanto tali beneficiano della esenzione prevista dal Regolamento comunale in materia di Tarsu.
Il ricorso è stato respinto in primo grado. La contribuente ha proposto appello, che la Commissione tributaria regionale dell’Abbruzzo ha respinto, sul rilievo che la Testimoni di Geova non hanno ancora stipulato con lo Stato italiano una intesa ai sensi del comma 3 dell’art.8 della Costituzione, e pertanto manca il riconoscimento del carattere di confessione religiosa.
La contribuente ha quindi proposto ricorso per cassazione affidandosi a quattro motivi.
Non si è costituito il Comune, né Agenzia delle entrate – riscossione.
L’ Associazione ha depositato una memoria e alla pubblica udienza del 26 aprile 2022 ha discusso la causa.
Il Procuratore generale ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art 360 n. 3 c.p.c la violazione e falsa applicazione degli artt. 6,9,11 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, nonché degli artt. 8, 19,20 della Costituzione. La ricorrente deduce che non sono consentiti trattamenti discriminatori nei confronti delle religioni diverse da quella cattolica e pertanto sono vietate speciali limitazioni o speciali gravami fiscali per le confessioni religiose e ciò a prescindere dalla circostanza che abbiano o meno stipulato un’intesa.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 62 e 67 del D.lgs. 507 del 1993 nonché dell’articolo 10 del regolamento Tarsu del Comune di Sulmona. Deduce che il Comune di Sulmona nel suo regolamento Tarsu prevede l’esenzione dalla tassa per gli edifici adibiti al culto. La ricorrente deduce che ha errato il giudice d’appello a ritenere necessaria la stipula con lo Stato una intesa ex art. 8, comma 3, Cost., in quanto la norma regolamentare prevede soltanto che l’edificio sia adibito al culto e non specifica che a tal fine è necessaria una intesa con lo Stato, intesa che peraltro non ha alcuna valenza ai fini del riconoscimento quale confessione religiosa. 3.- Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 commi 161 e 162 della legge n. 296 del 2006 e dell’art, 6 comma 5 della legge n. 212 del 2000, per nullità della cartella in quanto non preceduta da avviso di accertamento nonché la violazione dell’art. 41 della Carta fondamentale dei diritti dell’uomo per avere la commissione tributaria avallato la illegittima condotta del Comune di Sulmona.
4-.- Con il quarto motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 32, 72, 24 e 23 del D.lgs. n. 546 del 1992 nonché dell’art. 24 della Costituzione e la omissione di pronuncia da parte del collegio giudicante in relazione
alla tardiva costituzione in giudizio del Comune di Sulmona e dell’irrituale deposito delle controdeduzioni via pec, in relazione all’art. 360 n. 5 c pc.
4.- I primi due motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono fondati nei limiti di cui appresso si dirà.
IL Regolamento del Comune di Sulmona prevede l’esenzione dalla Tarsu per gli edifici adibiti al culto.
L’esenzione dalla imposta è stata negata interpretando la norma nel senso che si applica solo alle comunità religiose hanno stipulato un’intesa ai sensi dell’art. 8 comma 3 della Costituzione; diversamente, come nel caso della Congregazione dei testimoni di Geova, mancherebbe il “riconoscimento del carattere di confessione religiosa”.
Si tratta tuttavia di un’interpretazione che non può condividersi, perché non conforme alla lettera della norma, né alla sua finalità.
Il giudice d’appello non coglie il senso e la portata della norma regolamentare poiché la confessione religiosa non ha necessità di un riconoscimento per qualificarsi tale, né di stipulare una intesa con lo Stato; inoltre non considera il rango di norma secondaria del regolamento, che deve interpretarsi in armonia con la norma primaria, i suoi scopi e le sue finalità, nonché con la normativa sovranazionale e la Costituzione italiana.
5.- La norma regolamentare in esame è una norma attuativa dell’art. 62 comma 2 del D.lgs. 507/1993 il quale dispone che: “Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell’anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione”.
Si tratta quindi di una norma che specifica ed esemplifica quali locali, per l’uso cui sono destinati, sono esenti dalla Tarsu.
La norma primaria a sua volta deve essere interpretata in armonia con il principio eurounitario “chi inquina paga” espresso nell’art. 15 della direttiva 2006/12/CE e nell’art. 14 della direttiva 2008/98/CE, cui si ispira l’art. 62 del D.lgs. 507/1993, sicché non potrebbe trovare spazio una norma regolamentare che esenti dal pagamento della Tarsu locali che sono invece idonei alla produzione dei rifiuti.
La finalità della norma regolamentare in esame non è quella distinguere i culti e le confessioni religiose a seconda se abbiano stipulato o meno intese con lo Stato, quanto piuttosto quella di individuare con un certo margine di precisione quali sono i locali che, in ragione della loro destinazione d’uso, si esonerano dal tributo. Ciò in quanto la norma presuppone, a monte, la valutazione sulla non idoneità a produrre rifiuti dei locali destinati all’esercizio del culto.
Per potersi parlare di locali destinati ad esercizio del culto è necessario, in primo luogo, accertare che la comunità che ivi si riunisce sia una confessione religiosa e non un altro tipo di associazione, ed inoltre che detta comunità si riunisca in quel determinato luogo per l’esercizio del culto e non per altre, sia pur lecite, finalità. Il che comporta, come meglio appresso si dirà, non solo il dovere dell’ente di individuare le comunità religiose secondo criteri appropriati e compatibili con la nostra Costituzione e senza operare trattamenti discriminatori, ma anche un onere dichiarativo da parte della comunità che aspiri al riconoscimento del beneficio fiscale.
6.- In primo luogo viene in rilievo la definizione di culto e di confessione religiosa.
Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d’appello, non è la stipulazione di un’intesa nei termini previsti dall’art. 8 della Costituzione che consente di qualificare una determinata pratica come culto e una determinata formazione sociale come confessione religiosa.
Allo stato della vigente legislazione nazionale, il riconoscimento della confessione religiosa è cosa diversa dalla stipulazione dell’intesa e né l’uno né l’altra hanno alcuna rilevanza ai fini del libero esercizio del culto, in forma individuale o associata, diritto protetto dagli artt. 8 e 19 della Costituzione.
Il riconoscimento e l’intesa, infatti, operano su piani diversi da quello dell’esercizio della libertà di culto.
L’art. 8 della Costituzione stabilisce in primo luogo che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge, e che anche le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastanti con l’ordinamento giuridico italiano, correlandosi all’art. 19, a mente del quale tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma individuale o associata e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. Il libero esercizio del culto, anche in forma associata, è quindi un diritto fondamentale dell’individuo, preesistente al riconoscimento da parte dello Stato, il quale esercita un controllo esterno; si limita cioè a verificare che l’esercizio del culto sia compatibile con i principi di ordine pubblico e buon costume.
Il riconoscimento opera sul piano della configurazione giuridica di una confessione religiosa nell’ordinamento italiano, affinché si possa dotare di propri statuti e se ne possa così verificare la compatibilità con i principi dell’ordinamento giuridico italiano, in conformità a quanto previsto dal comma secondo dell’art. 8 Cost. Tramite le intese, invece, si riconoscono le esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose (Corte Cost. n. 235 del 1997), ovvero si concedono loro particolari vantaggi o eventualmente si impongono particolari limitazioni (Corte Cost. n. 59 del 1958), ovvero si conferisce rilevanza, nell’ordinamento, a specifici atti propri della confessione religiosa (Corte Cost. n. 52 del 2016). L’intesa, finalizzata al riconoscimento di esigenze peculiari del gruppo religioso, non costituisce una condizione imposta dai pubblici poteri allo scopo di consentire alle confessioni religiose di usufruire della libertà di organizzazione e di azione, o di giovarsi dell’applicazione delle norme, loro destinate, nei diversi settori dell’ordinamento.
La confessione religiosa non necessariamente deve stipulare l’intesa, potendosi limitare a chiedere il riconoscimento civile secondo lo schema previsto dall’ordinamento: presentazione di un’istanza al Ministero dell’Interno, con allegata copia autentica dello Statuto, oltre ai documenti che l’istante ritenga idonei per far conoscere la propria natura. La Direzione degli affari dei culti del Ministero verifica lo Statuto e i documenti, controlla la non contrarietà del primo con l’ordinamento giuridico e, eventualmente, concede la personalità giuridica civile ai sensi della legge n. 1159/1929.
7.- La qualificazione di una comunità come confessione religiosa non dipende tuttavia dal riconoscimento, atto con il quale lo Stato italiano verifica la natura della associazione e la non contrarietà all’ordine pubblico dello Statuto, né dalla stipulazione dell’intesa.
Nel nostro ordinamento non esiste una legislazione generale e complessiva sul fenomeno religioso, né una specifica definizione normativa della nozione di culto. Analogamente non esiste una definizione normativa di confessione religiosa, se non nei termini generali di cui all’art. 19 della Costituzione il quale fa riferimento alle forme associate tramite le quali la persona professa la propria fede religiosa.
La Corte costituzionale, con plurimi interventi, ha chiarito che, in assenza nell’ordinamento di criteri legali precisi che definiscano le “confessioni religiose”, non è l’esistenza dell’intesa di cui all’art 8 Cost. l’elemento oggettivo di qualificazione delle organizzazioni richiedenti, atto a distinguere le confessioni religiose da diversi fenomeni di organizzazione sociale (Corte Cost. 346/2002; Corte Cost. 52/2016). Ha altresì affermato che il problema di qualificazione si pone sia in sede di applicazione dell’art. 8 terzo comma della Costituzione, ai fini di identificare i soggetti che possono chiedere di stipulare le intese, sia in sede di applicazione, amministrativa o giurisprudenziale, di ogni altra norma che abbia come destinatarie le confessioni religiose. Ma ciò non significa che si possa confondere tale problema qualificatorio – che può essere, in concreto, di più o meno difficile soluzione – con un requisito, quello della stipulazione di intese, che presuppone bensì la qualità di confessione religiosa, ma non si identifica con essa.
Le confessioni religiose, a prescindere dalla circostanza che abbiano concluso un’intesa, sono destinatarie di una serie complessa di regole, in vari settori. La giurisprudenza della Corte Costituzionale afferma che, in assenza di una legge che definisca la nozione di “confessione religiosa”, e non essendo sufficiente l’auto- qualificazione, «la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione», criteri che, nell’esperienza giuridica, vengono utilizzati per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali (Corte Cost. n. 195/1993; in termini analoghi, Corte Cost. n. 467/ 1992).
E’ chiara, nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, la distinzione tra i primi due commi dell’art 8 Cost. ed il terzo, che non è considerato servente rispetto ai primi due commi, e quindi alla realizzazione dei principi di eguaglianza e pluralismo in materia religiosa. Il terzo comma, piuttosto, ha l’autonomo significato di permettere l’estensione del “metodo bilaterale” alla materia dei rapporti tra Stato e confessioni non cattoliche, ove il riferimento a tale metodo evoca l’incontro della volontà delle due parti già sulla scelta di avviare le trattative (Corte Cost. 52/2016).
Con riferimento agli ordinamenti che, invece, subordinano l’accesso alla disciplina prevista per le associazioni religiose ad un riconoscimento pubblico, o a quelli ove si riscontra, comunque, un più dettagliato assetto normativo in tema di associazioni e confessioni religiose, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenze 12 marzo 2009, Gütl contro Austria e Löffelmann contro Austria; sentenza 19 marzo 2009, Lang contro Austria; sentenza 25 settembre 2012 Jehovas Zeugen in Österreich contro Austria e la più recente 5 aprile 2022, Assemblée Chrétienne des témoins de Jéhovah d’Anderlecht et autres c. Belgique, citata nella memoria di parte ricorrente) ha potuto identificare casi nei quali un’applicazione discriminatoria della normativa comporta una violazione degli artt. 9 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Nel nostro ordinamento, invece, caratterizzato dal principio di laicità e, quindi, di imparzialità ed equidistanza rispetto a ciascuna confessione religiosa (Corte Cost. n. 508 del 2000 e n. 329 del 1997), non è in sé stessa la stipulazione dell’intesa a consentire la realizzazione dell’eguaglianza tra le confessioni: quest’ultima risulta invece complessivamente tutelata dagli artt. 3 e 8, primo e secondo comma, Cost., dall’art. 19 Cost., ove è garantito il diritto di tutti di professare liberamente la propria fede religiosa, in forma individuale o associata, nonché dall’art. 20 Cost.
8.-Le intese non sono pertanto una condizione imposta dai pubblici poteri allo scopo di consentire alle confessioni religiose di usufruire della libertà di organizzazione e di azione, o di giovarsi dell’applicazione delle norme, loro destinate, nei diversi settori dell’ordinamento.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale è costante nell’affermare che il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese (Corte Cost. n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993). Ciò in quanto la scelta relativa all’avvio delle trattative per stipulare l’intesa presenta i tratti tipici della discrezionalità valutativa come ponderazione di interessi: da un lato, quello dell’associazione istante ad addivenire all’intesa, che ha una mera facoltà, e non un obbligo, di chiedere di stipulare un’intesa con lo Stato, dall’altro, l’interesse pubblico alla selezione dei soggetti con cui avviare le trattative che comporta l’accertamento preliminare se l’organizzazione richiedente sia o meno riconducibile alla categoria delle “confessioni religiose” (Consiglio di Stato n. 6038/2011).
Ini sintesi, può dirsi che poiché la libertà di culto è riconosciuta e protetta dalla Costituzione, quale diritto fondamentale dell’individuo, qualsiasi atto proveniente dallo Stato e diretto a regolare rapporti tra la comunità religiosa e i pubblici poteri, ovvero a riconoscere effetti giuridici ai suoi atti, non è costitutivo dello status della comunità quale confessione religiosa, ma semmai ricognitivo di esso e di accertamento della non contrarietà all’ordinamento delle sue regole.
9.- Tornando quindi al problema che ci riguarda e cioè l’interpretazione del Regolamento del Comune di Sulmona, sulla scorta di principi sopra precisati, si può osservare che una interpretazione armonica e coerente con la normativa primaria, le Direttive UE e la Costituzione, impone di considerare per locali adibiti all’esercizio del culto quei locali che nei quali in concreto si esercita una pratica che può definirsi culto, nell’ambito di una confessione religiosa in cui fini non contrastano con i principi fondamentali dell’ordinamento nazionale.
La Associazione Cristina dei Testimoni di Geova risponde invero a queste caratteristiche, poiché, come si riferisce in ricorso, è aderente per statuto alla Congregazione cristiana dei testimoni di Geova, ente confessionale riconosciuto dallo Stato con D.P.R. n. 783 del 1986 reso ai sensi dell’art. 2 della legge 1159/1992; la Congregazione ha anche richiesto la stipula di una intesa con lo Stato, intesa che è stata anche predisposta e firmata, ma che non è ancora stata approvata dal Parlamento. Questi elementi depongo per la qualificabilità della comunità denominata Testimoni di Geova come una confessione religiosa, posto che, come sopra si diceva, detta qualificazione non discende dalla stipula dell’intesa ma è il (preesistente) requisito per richiederla.
9.2.- Ciò tuttavia non è sufficiente ai fini della esenzione Tarsu, poiché occorre anche accertare che nei locali per i quali è richiesta l’esenzione la comunità si riunisca per esercitare il culto e non ad altri fini. Detta verifica deve eseguirsi in concreto e non in astratto e pertanto non è sufficiente la classificazione catastale dei locali come edifici destinati al culto.
La norma regolamentare deve essere interpretata in termini coerenti con la norma primaria, nonché con i principi posti dalla Direttive UE. E’ allora necessario che si accerti se effettivamente la parte contribuente abbia dichiarato che i locali sono destinati al culto nella denuncia originaria o in quella di variazione e che tale effettiva destinazione sia stata debitamente riscontrata in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione; con la precisazione che la mancanza del primo di questi requisiti e cioè la denuncia o la variazione non è emendabile in giudizio, mentre in caso di contestazione lo è il secondo requisito e cioè la prova della effettiva destinazione dei locali.
Le deroghe indicate dal comma 2 dell’art 62 del D.lgs. 507/1993, di cui la norma regolamentare in esame è attuativa, non operano in via automatica in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo il contribuente dedurre e provare i relativi presupposti (Cass. n. 18054/2016), poiché sull’interessato grava, in uno con l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 70 del D.lgs. n. 507/1993, un onere d’informazione, al fine di ottenere l’esclusione delle aree indicate dalla superficie tassabile (Cass. 2125/2017; Cass. 21011/2021). Se la parte non assolve a detto onere di preventiva informazione, la relativa circostanza non può essere fatta valere nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo (Cass. 14037/2019; Cass. 31460/2019).
La denuncia (o variazione) assolve infatti alla finalità di portare a conoscenza dell’ente impositore quali sono i locali occupati o detenuti e quelli per i quali sussistono- secondo il contribuente- i requisiti della esenzione, così da consentire all’ente di avere un quadro completo della produzione di rifiuti sul territorio, del soggetto responsabile, e di avviare gli opportuni controlli nonché di organizzare la gestione del servizio; al tempo stesso essa integra la dichiarazione della volontà di avvalersi del beneficio per i locali indicati come superficie non tassabile. Per queste ragioni, la sua carenza non è emendabile se non per il futuro, e cioè con riferimento agli anni di imposta non ancora scaduti, tramite la presentazione, nei termini previsti dall’art 70 del D.lgs. 507/1993, della denuncia o della variazione. Solo se il contribuente ha presentato la denuncia o la variazione, potrà integrare, in caso di contestazione, in via stragiudiziale ovvero anche in giudizio, la prova della effettiva destinazione dei locali.
10.- In sintesi, deve rilevarsi l’errore del giudice d’appello che ha escluso il beneficio fiscale solo in base alla circostanza che la Associazione o la Congregazione alla quale essa aderisce, non abbia stipulato intese (approvate dal Parlamento) con lo Stato italiano ai sensi dell’art. 8 della Costituzione e ha omesso di verificare, in termini specifici, se la Associazione aveva debitamente denunciato e provato la destinazione a culto dei locali.
Ne consegue, in accoglimento per quanto di ragione dei primi due motivi del ricorso, assorbiti gli altri, la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio alla Commissione regionale tributaria dell’Abruzzo per un nuovo esame, attenendosi ai seguenti principi di diritto:
- E’ facoltà dei singoli Comuni prevedere nel regolamento comunale che gli edifici adibiti a culto religioso siano esenti da Tari e Tarsu purché la norma venga applicata in armonia con il principio comunitario “chi inquina paga” e con le disposizioni degli artt. 62 e 70 del D.lgs. n. 507/ 1993; pertanto, possono essere esentati da Tari e Tarsu soltanto gli edifici effettivamente destinati all’esercizio del culto e come tali specificamente indicati nella denuncia o nella successiva variazione, non essendo sufficiente a tal fine la mera classificazione catastale. Se il contribuente non assolve all’onere di preventiva informazione tramite denuncia, la circostanza della destinazione a culto non può essere fatta valere nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo.
- Le norme regolamentari di cui sopra devono essere interpretate in termini coerenti ed armonici non solo con la norma primaria ma anche con la Costituzione. Pertanto non è consentito escludere dal beneficio fiscale previsto per locali destinati a culto religioso quelle confessioni religiose che pur potendosi qualificare tali non hanno ancora stipulato le intese di cui all’art. 8 comma 3 della Costituzione; nell’accertare se una determinata comunità sociale può qualificarsi come confessione religiosa il giudice può avvalersi di alcuni indici presuntivi quali, esemplificativamente, la sussistenza di un riconoscimento ai sensi dell’art. 2 della legge 1159/1929 ovvero la circostanza che sia in fase di perfezionamento l’intesa di cui all’art. 8 della Costituzione, oppure operare detto accertamento tramite l’esame dello statuto, che ne esprima chiaramente i caratteri.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulla liquidazione delle spese.
P.Q.M.
Accoglie per quanto di ragione i primi due motivi del ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo in diversa composizione per un nuovo esame e per la liquidazione delle spese, anche del giudizio di legittimità.
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