Corte di Cassazione sentenza n. 16651 depositata il 23 maggio 2022
TRASU – natura della denuncia
FATTI DI CAUSA
La Congregazione ha impugnato la cartella di pagamento relativa alla Tarsu dell’anno 2012, pretesa dal Comune, deducendo che i locali oggetto di tassazione sono adibiti al culto, ed in quanto tali beneficiano della esenzione prevista dall’art 5 del Regolamento comunale in materia di Tarsu.
Il ricorso è stato respinto in primo grado.
La contribuente ha proposto appello, che la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha respinto, sul rilievo che, pur dovendosi prendere atto che la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova ha ottenuto il riconoscimento da parte dello Stato, sicché non è decisiva la questione della mancata stipulazione di una intesa ai sensi dell’art. 8 comma 3 della Costituzione, il beneficio fiscale non può essere riconosciuto perché la parte non ha ritualmente formalizzato le denunce necessarie a fare valere la pretesa esenzione. Osserva che contribuente non ha segnalato la destinazione a culto dei locali nella originaria denuncia né presentato alcuna denuncia in variazione.
Avverso la predetta sentenza la Congregazione ha proposto ricorso per cassazione affidandosi a quattro motivi.
Non si è costituito il Comune, né l’agente di riscossione. La Congregazione ha depositato una memoria e alla pubblica udienza del 26 aprile 2022 ha discusso la causa.
Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art 360 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 62 e 70 del D.lgs. 503/1993 e dell’art. 5, comma 2, lett. f) del Regolamento per l’applicazione della Tarsu del Comune di Trescore Balneario.
La ricorrente deduce che non era tenuta a presentare alcuna denuncia di variazione perché non era intervenuta alcuna modifica nella destinazione dei locali, che è sempre stato utilizzato quale luogo di culto. Essendo caduta in errore nelle denuncia originaria, avrebbe dovuto unicamente fare valere il proprio diritto all’esenzione in base al Regolamento e ciò è avvenuto con la presentazione della istanza in autotutela dell’11 aprile 2013 oltre che con la presentazione della domanda giudiziale. Invoca la circolare del Ministero dell’economia e finanze 95 E/1994 secondo la quale qualora la causa di esclusione del tributo non sia indicata nella denuncia originaria si ha soltanto l’inversione dell’onere della prova che la parte può produrre anche successivamente con diritto a sgravio o restituzione del tributo.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art 360 n. 5 c.p.c. l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Secondo la ricorrente la Commissione regionale ha omesso considerare un fattore decisivo cioè che la parte ha presentato un’istanza in autotutela in data 11 aprile 2013. Pur se la Congregazione aveva presentato erroneamente la denuncia ai fini della tassazione dell’immobile e pur se è vero che tale denuncia ha effetto per gli anni successivi è altrettanto vero che una volta acquisita la consapevolezza di essere caduta in errore la stessa Congregazione nelle istanze in autotutela
dell’11 aprile 13 ha allegato tutti gli elementi atti a dimostrare il regime di esenzione per fini di culto. L’istanza di autotutela emenda quindi l’erronea denuncia originaria. Con il terzo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art 360 n. 5 c.p.c. l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia oggetto discussione tra le parti e cioè la sussistenza del presupposto per fruire del beneficio previsto dall’art 5 del Regolamento comunale, poiché la Congregazione appartiene alle religioni “riconosciute” dallo Stato non essendo a tal fine rilevante la stipulazione di una intesa ai sensi dell’art 8 comma 3 della Costituzione.
3.- Con il quarto motivo del ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione degli articoli 9, 11 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. La ricorrente deduce che ha errato il giudice d’appello a individuare la soluzione della controversia facendo ricorso a inesistenti questioni di natura formale e non esentando dalla Tarsu l’edificio di culto e così violando la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo perché l’edificio destinato a esercizio di culto è improduttivo rifiuti. La ricorrente deduce che il bene immobile di cui si tratta deve essere considerato luogo improduttivo di rifiuti per la sua specifica destinazione, essendo catastato in categoria E/ 7, quale luogo di culto pubblico e che sulla predetta eccezione il giudice d’appello non si è pronunciato.
4.- I motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono infondati.
Preliminarmente si osserva che la sentenza d’appello è esente dai vizi di motivazione dedotti dalla parte ricorrente, atteso che la Commissione regionale ha esaminato tutti i fatti rilevanti e decisivi ai fini della soluzione della controversia.
Il giudice d’appello ha dato atto che ai fini della decisione della controversia non è decisiva la circostanza che la Congregazione non abbia stipulato una intesa con lo Stato italiano, perché comunque ha ottenuto il riconoscimento in virtù del decreto del Ministero dell’nterno n. 783 del 1986. La Commissione regionale ha piuttosto dato rilievo decisivo alla mancata indicazione di questi locali quali locali destinati al culto nella denuncia, ai sensi degli articoli 62 e 70 del D.lgs. 507 del 1993, ritenendo tale difetto non emendabile. Con tale motivazione il giudice d’appello ha esplicitato in maniera chiara le ragioni della decisione, peraltro facendo corretta applicazione della normativa vigente in materia di Tarsu, come meglio appresso si dirà. Di contro i fatti cui fa riferimento la ricorrente nei motivi di ricorso, e cioè la circostanza che i locali siano effettivamente destinati al culto, che l’esercizio del culto è libero, e che l’originario errore nella denuncia di dichiarazione sia stato emendato con una istanza in autotutela non possono qualificarsi come decisivi.
5.- L’art. 5 comma 3 lett. f) del Regolamento del Comune di Trescore dispone che la Tarsu non si applica “agli edifici adibiti al culto delle religioni riconosciute dallo Stato limitatamente ai locali destinati all’attività di culto vera e propria e alle aree scoperte di relativa pertinenza”.
La norma regolamentare in esame è una norma attuativa dell’art. 62 comma 2 del D.lgs. 507/1993 il quale dispone che: “Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell’anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione”.
Si tratta quindi di una norma che specifica ed esemplifica quali locali, per l’uso cui sono destinati, sono esenti dalla Tarsu. La norma primaria a sua volta deve essere interpretata in armonia con il principio eurounitario “chi inquina paga” espresso nell’art. 15 della direttiva 2006/12/CE e nell’art. 14 della direttiva 2008/98/CE, cui si ispira l’art. 62 del D.lgs. 507/1993, sicché non potrebbe trovare spazio una norma regolamentare che esenti dal pagamento della Tarsu locali che sono invece idonei alla produzione dei rifiuti.
E’ senz’altro condivisibile il rilievo che per qualificare una determinata comunità organizzata come confessione religiosa non è necessaria la stipula di una intesa ai sensi dell’art. 8 comma 3 della Costituzione. In questi termini, anche la Corte costituzionale, con plurimi interventi, ha chiarito che, in assenza nell’ordinamento di criteri legali precisi che definiscano le “confessioni religiose”, non è l’esistenza dell’intesa di cui all’art 8 Cost. l’elemento oggettivo di qualificazione delle organizzazioni richiedenti, atto a distinguere le confessioni religiose da diversi fenomeni di organizzazione sociale (Corte Cost. 346/2002; Corte Cost. 52/2016). La giurisprudenza della Corte Costituzionale afferma che, in assenza di una legge che definisca la nozione di “confessione religiosa”, e non essendo sufficiente l’auto-qualificazione, «la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione», criteri che, nell’esperienza giuridica, vengono utilizzati per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali (Corte Cost. n. 195/1993; in termini analoghi, Corte Cost. n. 467/ 1992).
Pertanto per locali adibiti all’esercizio del culto di religione “riconosciuta” allo Stato, devono intendersi i locali che nei quali in concreto si esercita una pratica che può definirsi culto, nell’ambito di una confessione religiosa in cui fini non contrastano con i principi fondamentali dell’ordinamento nazionale.
La Congregazione Cristina dei Testimoni di Geova risponde invero a queste caratteristiche, poiché è eretta in ente morale a sensi della legge n. 1159/1929, ed ha anche richiesto la stipula di una intesa con lo Stato, intesa che è stata anche predisposta e firmata ma che non è ancora stata approvata dal Parlamento. Questi elementi depongo per la qualificabilità della comunità denominata Testimoni di Geova come una confessione religiosa.
6.- Ciò tuttavia non è sufficiente ai fini della esenzione Tarsu, poiché occorre anche accertare che nei locali per i quali è richiesta l’esenzione la comunità si riunisca per esercitare il culto e non ad altri fini. Detta verifica deve eseguirsi in concreto e non in astratto e pertanto non è sufficiente la classificazione catastale dei locali come edifici destinati al culto.
La norma regolamentare deve essere interpretata in termini coerenti con la norma primaria, nonché con i principi posti dalla Direttive UE. E’ allora necessario che si accerti se effettivamente la parte contribuente abbia dichiarato che i locali sono destinati al culto nella denuncia originaria o in quella di variazione e che tale effettiva destinazione sia stata debitamente riscontrata in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione; con la precisazione che la mancanza del primo di questi requisiti e cioè la denuncia o la variazione non è emendabile in giudizio, mentre in caso di contestazione lo è il secondo requisito e cioè la prova della effettiva destinazione dei locali.
In tal senso la costante giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, che nella interpretazione della legge non è tenuta ad adeguarsi alle interpretazioni ministeriali, anzi deve correggerle se erronee, secondo la quale le deroghe indicate dal comma 2 dell’art .62 del D.lgs. 507/1993, di cui la norma regolamentare in esame è attuativa, non operano in via automatica in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo il contribuente dedurre e provare i relativi presupposti (Cass. n. 18054/2016), poiché sull’interessato grava, in uno con l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 70 del D.lgs. n. 507/1993, un onere d’informazione, al fine di ottenere l’esclusione delle aree indicate dalla superficie tassabile (Cass. 2125/2017; Cass. 21011/2021). Se la parte non assolve a detto onere di preventiva informazione, la relativa circostanza non può essere fatta valere nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo (Cass. 14037/2019; Cass. 31460/2019).
La denuncia (o variazione) assolve infatti alla finalità di portare a conoscenza dell’ente impositore quali sono i locali occupati o detenuti e quelli per i quali sussistono- secondo il contribuente- i requisiti della esenzione, così da consentire all’ente di avere un quadro completo della produzione di rifiuti sul territorio, del soggetto responsabile, e di avviare gli opportuni controlli nonché di organizzare la gestione del servizio; al tempo stesso essa integra la dichiarazione della volontà di avvalersi del beneficio per i locali indicati come superficie non tassabile. Non è pertanto una mera dichiarazione di scienza emendabile, come deduce la ricorrente nella sua memoria, ma anche una dichiarazione di volontà. Per queste ragioni, la sua carenza non è emendabile se non per il futuro, e cioè con riferimento agli anni di imposta non ancora scaduti, tramite la presentazione, nei termini previsti dall’art 70 del D.lgs. 507/1993, della denuncia o della variazione. Solo se il contribuente ha presentato la denuncia o la variazione, potrà integrare, in caso di contestazione, in via stragiudiziale ovvero anche in giudizio, la prova della effettiva destinazione dei locali. Non potrà invece emendare la mancanza di dichiarazione né in giudizio né ancor meno con la presentazione di una istanza in autotutela, utile soltanto a sollecitare il potere discrezionale della pubblica amministrazione (Cass. 22/02/2019, n.5332).
7.- In sintesi, la decisone impugnata resiste alle censure della parte e merita conferma, con il rigetto del ricorso. Nulla sulle spese in difetto di costituzione delle parti intimate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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