CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 16813 depositata il 13 giugno 2023
Lavoro – Avviso di addebito – Ingiunzione pagamento contributi – Gestione Artigiani e Commercianti INPS – Socio accomandante – Reddito di lavoro – Redditi d’impresa – IRPEG – IRES – Società in accomandita semplice – Socio di società di capitali – Rigetto
Fatti di causa
Con sentenza del 17 settembre 2019, la Corte d’Appello di Bari, confermando la decisione di primo grado, ha rigettato l’opposizione proposta da C.C., iscritta alla gestione commercianti in qualità di agente di commercio, nei confronti dell’INPS, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.p.A. (Società di Cartolarizzazione dei Crediti INPS), e dell’Agenzia delle Entrate Riscossione, in relazione all’avviso di addebito recante, a carico della ricorrente, l’ingiunzione del pagamento dei contributi “in percentuale o eccedenti il minimale” dovuti alla gestione Artigiani e Commercianti dell’INPS cui era iscritta per l’anno 2008 con riferimento al reddito da partecipazione nella Società C. s.a.s. di M.D.N. & C. in accomandita semplice percepito in qualità di socio accomandante.
Ad avviso della Corte territoriale, la contribuzione dovuta ai sensi dal D.L. n. 384 del 1992, art. 3 bis, conv. con modif. nella L. n. 438 del 1992, doveva essere rapportata a tutti i redditi d’impresa percepiti nell’anno di riferimento, con esclusione soltanto di quelli da partecipazione a società di capitali e, pertanto, non di quello prodotto dal capitale investito in una società in accomandita semplice.
Per la cassazione di tale decisione, ricorre C.C., affidando l’impugnazione ad un unico motivo, cui resistono, con controricorso, sia l’INPS che l’Agenzia delle Entrate.
Con ordinanza interlocutoria n. 3158 del 2022, la Sesta Sezione di questa Corte, ritenuto che la questione dedotta in causa, concernente la parametrazione del contributo dovuto alla gestione artigiani cui l’interessato risulta iscritto anche al reddito prodotto dal capitale investito in una società in accomandita semplice, ha trovato nella giurisprudenza di questa Corte soluzioni contrastanti, contrapponendosi al pronunciamento espresso con la sentenza n. 29779/2017, cui risulta essersi conformata la decisione qui impugnata, quanto sancito dalla sentenza n. 21540/2019, dato il rilievo nomofilattico, ha disposto la rimessione della causa alla Sezione quarta.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 384 del 1992, art. 3 bis, conv. in L. n. 438 del 1992, e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 3, lamenta la non conformità a diritto della lettura delle predette norme accolta dalla Corte territoriale nel senso della sussistenza dell’obbligo di contribuzione sollevando in alternativa l’eccezione di illegittimità costituzionale delle norme medesime per contrasto con gli artt. 3, 53 Cost., e art. 38 Cost., comma 2.
La questione, come rilevato dall’ordinanza interlocutoria, è già stata sottoposta al vaglio di questa Corte e si è consolidato un orientamento (Cass. n. 21540 del 2019; Cass. n. 23790 del 2019; Cassazione n. 24096 del 2019; Cass. n. 29779 del 2017; Cass. n. 26958 del 2019; Cass. n. 18822 del 2021) al quale va data continuità, non ravvisandosi il contrasto ipotizzato dalla stessa ordinanza interlocutoria n. 3158 del 2022.
Si controverte sull’obbligo del lavoratore autonomo, iscritto alla gestione previdenziale in quanto svolgente un’attività lavorativa per la quale sussistono i requisiti per il sorgere della tutela previdenziale obbligatoria, di parametrare o meno il proprio obbligo contributivo a tutti i redditi percepiti nell’anno di riferimento, tenendo conto anche di quelli da partecipazione a società di capitali nella quale egli non svolge attività lavorativa.
Allo scopo occorre premettere che il D.L. 19 settembre 1992, n. 384, art. 3 bis, convertito con modificazioni dalla L. 14 novembre 1992, n. 438, ha previsto che “A decorrere dall’anno 1993, l’ammontare del contributo annuo dovuto per l’soggetti di cui alla L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 1, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi stessi sì riferiscono”.
La disciplina previgente era contenuta nella L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 1, che prevedeva al comma 1 che “A decorrere dal 1 luglio 1990 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, è pari al 12 per cento del reddito annuo derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo all’anno precedente”.
Con la nuova disposizione rileva “la totalità” dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF, non parlandosi più della sola attività che dà titolo all’iscrizione alla gestione ex L. n. 233 del 1990, art. 1. Il legislatore ha dunque scelto di distinguere tra elementi sui quali si radica, quale fatto giuridico strutturale, il sorgere della tutela previdenziale in capo al lavoratore autonomo ed elementi ulteriori rispetto ad essi, in relazione ai quali si individua comunque la misura della contribuzione previdenziale dovuta.
La differente formulazione della norma realizza chiaramente un ampliamento della base imponibile contributiva, secondo un mutamento normativo che il legislatore ha inteso perseguire, in connessione con il processo di armonizzazione della base imponibile contributiva a quella valevole in ambito tributario.
Al fine di individuare quale sia il reddito di impresa rilevante ai fini contributivi, occorre quindi per coerenza di sistema fare riferimento alle norme fiscali, e dunque in primo luogo al testo unico delle imposte sui redditi, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
Il suddetto D.P.R. contiene distinte disposizioni onde qualificare i redditi d’impresa rispetto ai redditi di capitale: i primi, a mente dell’art. 55 (nel testo post riforma del 2004) sono quelli che derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale, mentre l’art. 44, lett. e) (nel testo post riforma del 2004) ricomprende tra i redditi di capitale gli utili da partecipazione alle società soggette ad IRPEG (ora IRES).
Poiché la normativa previdenziale individua, come base imponibile sulla quale calcolare i contributi, la totalità dei redditi d’impresa così come definita dalla disciplina fiscale e considerato che secondo il testo unico delle imposte sui redditi gli utili derivanti dalla mera partecipazione a società di capitali, senza prestazione di attività lavorativa, sono inclusi tra i redditi di capitale, ne consegue che questi ultimi non concorrono a costituire la base imponibile ai fini contributivi INPS.
La soluzione che qui viene adottata è del tutto coerente con l’impostazione del sistema come delineata dall’art. 38 Cost., comma 2, che prevede che la tutela previdenziale spetti ai lavoratori, non a coloro che si limitino ad investire i propri capitali a scopo di utile.
Diversamente, per i soci di società di persone opera il principio della trasparenza fiscale, in forza del quale i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi (D.P.R. n. 917 del 2016, art. 6, comma 3 (ndr D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 3), del testo post riforma del 2004).
Ed è proprio il diverso regime dettato per le società di persone da cui deriva il principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 29779 del 2017, secondo il quale ai fini della determinazione dei contributi dovuti dagli artigiani ed esercenti attività commerciali, vanno computati anche i redditi percepiti in qualità di socio accomandante, seppure diversi dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro oggetto della posizione previdenziale.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 354 del 7 novembre 2001, ha ben distinto tra la posizione dei soci (non lavoratori) delle società di capitali e quelli delle società di persone, ove ha ritenuto non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale del D.L. 19 settembre 1992, n. 384, art. 3 bis, conv., con modif., in L. 14 novembre 1992, n. 438, il quale, sottoponendo a contribuzione INPS i redditi denunciati ai fini IRPEF dal socio accomandante di società in accomandita semplice, introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra socio accomandante di società in accomandita semplice e socio di società di capitali. Ha infatti rilevato che nell’ambito delle società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo) assume preminente rilievo, a differenza delle società di capitali, l’elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di un’attività produttiva riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante; nè la scelta del legislatore può ritenersi affetta da irragionevolezza, in quanto all’onere contributivo si correla un vantaggio in termini di prestazioni previdenziali ai sensi della L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 5, in base al quale la misura dei trattamenti è rapportata al reddito annuo di impresa.
E’ vero che la Consulta nel richiamato arresto ha rilevato che dall’art. 38 Cost., comma 2, non si desume un’intima e indefettibile correlazione tra contribuzione e reddito di lavoro e che anzi, le più recenti riforme in materia evidenziano sia il passaggio ad una più ampia accezione di base contributiva imponibile, tale da ricomprendere non solo il corrispettivo dell’attività di lavoro, ma anche altre attribuzioni economiche che nella attività stessa rinvengono soltanto mera occasione, sia la convergenza, pur nella rispettiva autonomia di regimi, tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale quanto alla definizione della base imponibile.
Tale tendenza all’ampliamento della base contributiva deve però di necessità essere contenuta entro i limiti delineati dal legislatore, non potendo giungersi ad estendere in via analogica la portata delle relative previsioni, tra l’altro, come avverrebbe accogliendo la tesi dell’INPS, disattendendo proprio il voluto parallelismo tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale.
Da tutte tali considerazioni, inoltre, emerge anche l’infondatezza dei rilievi di incostituzionalità avanzati dalla ricorrente nei riguardi della tesi accolta dalla sentenza impugnata che va, dunque, del tutto condivisa.
Segue il rigetto del ricorso.
Quanto alla regolazione delle spese, considerata la sollecitazione, proveniente dalla Sesta Sezione, al chiarimento nomofilattico dell’orientamento qui confermato, devono ritenersi esistenti i presupposti per la compensazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
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