CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 1699 depositata il 19 gennaio 2023
Tributi – Procedura di voluntary disclosure di cui alla L. 15 dicembre 2014, n. 186 – Rimborso delle cd. euroritenute – Credito d’imposta per redditi prodotti all’estero – Tardività della notifica – Inammissibilità
Fatti di causa
1. B.C. presentò richiesta di accesso alla procedura di voluntary disclosure di cui alla l. 15 dicembre 2014, n. 186, portando a conoscenza dell’amministrazione finanziaria i redditi che egli deteneva sotto forma di depositi in conto corrente e conto titoli presso due istituti di credito svizzeri – in violazione delle disposizioni in materia di monitoraggio fiscale e dei corrispondenti obblighi di dichiarazione – per i quali aveva ricevuto quattro inviti a comparire riferiti alle annualità comprese fra il 2010 e il 2013.
Dopo la definizione della procedura, il contribuente inviò all’Amministrazione – Ufficio territoriale di Orvieto – un’istanza di rimborso delle cd. euroritenute subite sui redditi connessi ai depositi e titoli detenuti in Svizzera, per un complessivo importo di € 16.707,42, assumendo che le stesse duplicavano il prelievo eseguito dallo Stato italiano per effetto del suo accesso alla voluntary disclosure.
2. Il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione fu impugnato dal contribuente innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Terni, che ne riconobbe le ragioni.
Il successivo appello, proposto dall’Agenzia delle entrate innanzi alla Commissione tributaria regionale dell’Umbria, fu respinto.
I giudici del gravame ritennero, per quanto ancora di interesse in questa sede, che la disciplina del credito d’imposta per redditi prodotti all’estero, recata dall’art. 165 del d.P.R 22 dicembre 1986, n. 917 (d’innanzi: t.u.i.r.), non fosse applicabile alla ritenuta in questione, essendo riferita solo ai redditi che concorrono a formare la base imponibile Irpef e non anche a quelli da capitale detenuto all’estero; pertanto, ritennero ancora, nel caso di specie la ritenuta alla fonte operata dall’agente pagatore, che ne avrebbe riversato il 75% al Fisco italiano, costituiva ad ogni effetto una doppia imposizione.
Osservarono, inoltre, che la procedura di voluntary disclosure non era assimilabile all’accertamento con adesione, quanto egli effetti di cristallizzazione del debito tributario, avendo finalità diverse, assimilabili a quelle del ravvedimento operoso.
3. Avverso detta sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo. Resiste l’intimato con controricorso, illustrato da successiva memoria.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso l’amministrazione finanziaria denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 5-quater del d.l. 1° giugno 1990, n. 127 (ndr art. 5-quater del d.l. 1° giugno 1990, n. 167), conv. in l. n. 227/1990, dell’art. 14 della Direttiva n. 48/2003/CE, dell’art. 10 del d.lgs. 18 aprile 2005, n. 84 e dell’art. 165, comma ottavo, del t.u.i.r.
La ricorrente, dopo aver ripercorso la disciplina della procedura di voluntary disclosure, osserva infatti che la stessa richiama espressamente la disciplina dell’accertamento con adesione, evidenziando la piena assimilabilità fra i due istituti, con particolare riferimento all’idoneità dell’adesione del contribuente – considerata nella sua essenza di atto negoziale – a cristallizzare il debito tributario.
Critica, inoltre, la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistere un’ipotesi di doppia imposizione, evidenziando che l’art. 165, comma ottavo, t.u.i.r. esclude espressamente la detrazione (e perciò anche il rimborso) in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi o di omessa indicazione di redditi prodotti all’estero nella dichiarazione presentata; dal che desume che la detrazione o il rimborso dell’imposta versata all’estero presuppongono necessariamente che il relativo reddito sia stato dichiarato o sottoposto a ritenuta alla fonte, in conformità con quanto stabilito dall’art. 14 della Direttiva n. 48/2003/CE vigente ratione temporis.
Tale ultima disposizione, osserva ancora la ricorrente, individuava il fine da raggiungere nell’eliminazione della doppia imposizione, lasciando agli Stati-membri la scelta sulle modalità per attuarlo; e, in tal senso, lo Stato italiano, con l’art. 10 del d.lgs. n. 84/2005, ha inteso riconoscere al beneficiario di interessi su redditi prodotti all’estero che siano stati assoggettati a ritenuta un credito di imposta determinato ai sensi dell’art. 165, comma ottavo, del t.u.i.r., ovvero, qualora tale ultimo non fosse applicabile, la possibilità di ottenere il rimborso o la compensazione dell’eccedenza o dell’intera ritenuta.
2. Va preliminarmente scrutinata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal contribuente in relazione agli artt. 62 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, 325, comma secondo, e 326 cod. proc. civ.
2.1. Il controricorrentte, in particolare, ha rilevato la tardività dell’avversa impugnazione, evidenziando che il ricorso per cassazione gli è stato notificato dall’Agenzia delle entrate in data 5 aprile 2021, ovvero dopo la perenzione del termine “breve” di cui all’art. 325, comma secondo, cod. proc. civ., decorrente dalla data di notificazione della sentenza d’appello.
2.2. L’eccezione è fondata.
Il C. risulta, infatti, aver provveduto a notificare la sentenza d’appello all’indirizzo di posta elettronica certificata della Direzione provinciale di Terni dell’Agenzia delle entrate ─ pubblicato sul registro Ipa ed indicato dalla stessa Amministrazione quale indirizzo per le notificazioni nel corso del giudizio
(dp.Terni@pce.agenziaentrate.it) ─ il 1° febbraio 2021, data nella quale l’atto spedita a mezzo “p.e.c.” risulta consegnato ed accettato dal destinatario.
Il termine perentorio di sessanta giorni per la notificazione del ricorso scadeva, pertanto, venerdì 2 aprile 2021.
Il ricorso dell’Agenzia delle entrate risulta spedito per la notificazione alle ore 23.35 del 5 aprile 2021; consegue il rilievo di tardività dello stesso, con conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso.
2.3. A tale riguardo, e per completezza, il Collegio osserva che non può spiegare effetto contrario la doverosa considerazione del principio recentemente affermato da questa Corte a Sezioni Unite (sentenza n. 20866/2020), secondo il quale la notificazione della sentenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 285 e 326, primo comma, cod. proc. civ., deve contenere nella relativa “relata” l’indicazione onomastica del difensore della parte, quale destinatario dell’atto, con la conseguenza che, in difetto di tale indicazione, la notificazione «non è idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione, neppure se eseguita in luogo che sia al contempo sede di una pubblica amministrazione, sede della sua avvocatura interna e domicilio eletto per il giudizio, non potendo surrogarsi l’omessa indicazione della direzione della notifica al difensore con la circostanza che il suo nominativo risulti dall’epigrafe della sentenza notificata, per il carattere neutro o non significativo di tale sola circostanza»; e ciò quantunque questa stessa Corte abbia fatto discendere da tale principio il rilievo dell’inidoneità a far decorrere il termine breve per proporre impugnazione alla notificazione della sentenza d’appello effettuata dal contribuente «affatto impersonalmente nei confronti dell’Agenzia del territorio, senza la indicazione onomastica del funzionario – difensore della Amministrazione finanziaria» (così Cass. n. 14234/2021).
La richiamata pronunzia delle Sezioni Unite, infatti, evidenzia la propria ratio nell’esigenza di far giungere la sentenza notificata «a conoscenza della parte tramite il suo rappresentante processuale, professionalmente qualificato a vagliare l’opportunità dell’impugnazione», su tale base escludendo che l’eventuale identità fra domicilio della parte e sede del suo difensore consentano di ritenere la notifica idonea a far decorrere il termine “breve” per proporre impugnazione.
Nel caso di specie, tuttavia, per quanto documentato dallo stesso controricorrente, l’avvenuta notificazione della sentenza – in conformità alla copia della relazione prodotta – risulta attestata dal Capo dell’Ufficio Legale della Direzione provinciale di Terni dell’Agenzia delle entrate, già parte nel giudizio di appello, in termini che certificano inequivocabilmente il fatto che la sentenza è stata portata a conoscenza del contraddittore per il tramite del suo rappresentante processuale, professionalmente qualificato a vagliare l’opportunità dell’impugnazione.
3. L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna dell’amministrazione ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in dispositivo.
Poiché risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 1.600,00, oltre ad € 200,00 per rimborso spese forfetario, le spese generali e gli oneri accessori di legge.
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