Corte di Cassazione sentenza n. 18338 depositata il 12 luglio 2018
Fatti di causa
La Corte d’appello Milano con sentenza 19.2.2016 n. 635, in parziale riforma della decisione di prime cure, riconosceva l’istituto di vigilanza S. s.p.a. responsabile del danno subito da Monica Medina, titolare di un esercizio commerciale di tabaccheria, a causa del furto perpetrato da ignoti nel locale, non avendo la società diligentemente adempiuto alle obbligazioni del contratto di servizio stipulato con la Medina che imponeva, in caso di segnalazione di allarme, di effettuare un accurata ispezione del locale che nella specie presentava evidenti segni esteriori di effrazione della saracinesca, della finestra sul retro e di alcune grate collocate nel muro perimetrale.
Riformava tuttavia la decisione di prime cure limitatamente al “quantum” risarcibile, ritenendo doversi applicare l’art. 17 delle Condizioni generali di contratto che prevedeva la limitazione dell’ammontare del danno risarcibile in misura pari alla rata mensile del corrispettivo (ammontante ad E 48,59 oltre accessori), giustificandosi tale clausola penale con il modesto importo del corrispettivo del servizio e con la difficoltà per le parti contraenti di predeterminare la entità dell’obbligo risarcitorio, e comunque dovendo ritenersi tardivamente formulata dalla Medina la eccezione di nullità della clausola. Aggiungeva la Corte territoriale che, in ogni caso, la danneggiata non aveva fornito idonea prova della liquidazione del “quantum” in relazione all’effettivo danno patito a causa del furto.
La sentenza di appello, notificata alla parte in forma esecutiva ex art. 480 c.p.c., veniva impugnata per cassazione da Monica Medina con tre motivi.
Resiste con controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c., S. s.p.a..
Ragioni della decisione
Primo motivo: violazione e falsa applicazione degli arti’. 112 c.p.c. , 329 e 342 c.p.c. e dell’ari’. 2909 c.c. in relazione all’art. 360 co 1 n. 4 c.p.c. Sostiene la ricorrente che la statuizione del primo giudice in ordine al quantum, liquidato con criterio equitativo puro, non aveva costituito oggetto di specifico motivo di gravame da parte dell’appellante società di vigilanza, e dunque doveva ritenersi passata in giudicato interno, con conseguente illegittimità della pronuncia del secondo giudice che aveva ritenuto non provato il danno, riconoscendo dovuta soltanto la somma prevista nella clausola penale.
Il motivo è infondato.
Dalle conclusioni dell’atto di appello, trascritte alla pag. 5-6 del ricorso per cassazione, risulta che la società di vigilanza aveva impugnato la decisione di “prime cure” in relazione a tutti i capi di sentenza, avendo richiesto al Giudice di secondo grado di “rigettare tutte le domande ex adverso formulate, poiché infondate in fatto e diritto” e di “condannare conseguentemente l’appellata a restituire la somma pari ad E 14.897,00 oltre interessi…”, e soltanto in via subordinata avendo chiesto di mantenere la liquidazione del danno nei limiti della clausola penale. Pertanto la impugnazione della società di vigilanza ha investito “in toto” la decisione di prime cure, non trovando, quindi, conferma la censura per “error in procedendo” nella parte di atto trascritto nel ricorso. Laddove se la parte ricorrente avesse, invece, inteso criticare la decisione impugnata per non aver valutata la aspecificità dei motivi di gravame, come illustrati nell’atto di appello in punto di liquidazione del “quantum”, ovvero avesse inteso dedurre che la impugnazione da parte di S. s.p.a. era rivolta esclusivamente alla statuizione che accertava la responsabilità per inadempimento contrattuale, bene avrebbe allora dovuto assolvere compiutamente al prescritto requisito di specificità di cui all’art. 366, comma 1, n. 4 e 6, c.p.c., atteso che il vizio di ultrapetizione, per violazione dell’art.112 c.p.c., non deve essere soltanto allegato ma, trattandosi di nullità non rilevabile “ex officio”, deve essere formulato in modo da dare contezza alla Corte -che in tal caso è anche giudice del fatto- di tutti gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fallo pr, ilc” di cui si richiede il riesame e, quindi, affinchè il motivo sia ammissibile deve contenere, per il principio di specificità, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 1170 del 23/01/2004; id. Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012; id. Sez. 1 – , Sentenza n. 2771 del 02/02/2017).
Secondo motivo: violazione e falsa applicazione dell ‘ari’. 1229 c.c. in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c..
Terzo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 345co2 c.p.c. in relazione all’art. 360co1 n. 4 c.p.c.. I motivi contestano la decisione della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto tardiva la eccezione di nullità della clausola penale -in quanto asseritamente nulla per violazione dell’art. 1229 c.c.- che era stata proposta nella comparsa conclusionale di primo grado e riproposta nella comparsa di costituzione in grado di appello, atteso che tale nullità era comunque rilevabile “ex officio”.
La prima parte della censura (secondo motivo) e la censura dedotta con il terzo motivo sono inammissibili in quanto si contesta un vizio di “error in procedendo” che non ha prodotto alcun pregiudizio al diritto di difesa della parte.
La Corte territoriale, pur essendo incorsa in errore, avendo ritenuto applicabili le preclusioni relative alla definizione del “thema decidendum” formatesi al termine della fase di trattazione della causa ex art. 183 c.p.c. ed avendo rilevato la inammissibilità per tardività della eccezione di nullità della clausola (in quanto formulata soltanto in sede di memoria conclusionale illustrativa depositata ai sensi dell’art. 281 quinquies c.p.c., e non proponibile in grado di appello, incontrando il divieto dell’art. 345, comma 2, c.p.c.), non considerando, invece, che al Giudice è sempre consentito il rilievo “ex officio” di una nullità negoziale – sotto qualsiasi profilo ed anche ove sia configurabile una nullità speciale o “di protezione” – in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale (adempimento, risoluzione per qualsiasi motivo, annullamento, rescissione), senza, per ciò solo, negarsi la diversità strutturale di queste ultime sul piano sostanziale, poichè tali azioni sono disciplinate da un complesso normativo autonomo ed omogeneo, affatto incompatibile, strutturalmente e funzionalmente, con la diversa dimensione della nullità contrattuale (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 26242 del 12/12/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 12996 del 23/06/2016; id. Sez. 2 – , Sentenza n. 27516 del 30/12/2016), è venuta, infatti, poi ad esaminare nel merito la questione della invalidità della clausola penale ex art. 1382 c.c., prospettata in termini di elusione del divieto di limitazione preventiva di responsabilità “ex contractu” anche nei casi di dolo o colpa grave ex art. 1229, comma 1, c.c., pervenendo ad escludere il vizio di nullità, in quanto la tesi difensiva della Medina “si appalesava priva di agganci letterali e/o normativi”, ed inoltre la pattuizione preventiva, volta a limitare il “quantum” risarcibile, si giustificava nell’interesse comune delle parti, da un lato sussistendo una obiettiva proporzionalità tra la misura del “quantum” e l’importo particolarmente modesto del corrispettivo del servizio, dall’altro evidenziandosi la comune esigenza delle parti contraenti di evitare preventivamente eventuali discussioni e contestazioni in caso di inadempimento attesa la difficoltà di “identificare gli effetti dell’eventuale furto”.
Fondato deve ritenersi invece il secondo motivo con il quale si impugna l’errore di diritto commesso dalla Corte d’appello nella mancata applicazione alla fattispecie concreta dell’art. 1229 c.c..
Questa Corte ha infatti precisato che la irrisorietà del risarcimento del danno pattuito preventivamente sotto forma di clausola penale viene a costituire elemento sintomatico dell’aggiramento del divieto di limitazione di responsabilità stabilito dall’art. 1229, comma 1, c.c. (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 7061 del 28/07/1997, richiamata dalla ricorrente. Ma Vedi anche Corte cass. Sez. 3 Sentenza 20.6.2014 n. 14084).
Nella specie la clausola contrattuale disponeva che “L’Istituto non presta alcuna garanzia né si assume alcune responsabilità per eventuali furti, danni ed in genere pregiudizi subiti dall’Utente… Nel caso di comprovato inadempimento nell’esecuzione del servizio e di comprovata riferibilità dei danni a tale inadempimento, l’istituto sarà tenuto unicamente a versare all’Utente, a titolo di penale fissa, una somma pari ad una mensilità del canone in corso. E’ esclusa pertanto ogni risarcibilità di eventuale danno ulteriore subito dall’Utente”. Orbene dalla lettura della clausola emerge inequivocamente che, non soltanto viene delimitato quantitativamente l’ammontare del danno patrimoniale risarcibile, cagionato dal mancato od inesatto adempimento della prestazione di vigilanza, ma nella parte in cui la clausola prevede che “l’Istituto non assume.., alcuna responsabilità per eventuali furti” (dovendo intendersi quindi estesa la esclusione, in difetto di alcuna diversa indicazione, anche alle ipotesi di responsabilità per dolo o colpa grave), evidenzia la volontà della società di vigilanza di sottrarsi a qualsiasi responsabilità per i danni derivanti da furto con ciò venendo ad interrompere proprio il nesso funzionale -sul quale è fondato l’interesse dedotto in contratto del committente- tra la corretta esecuzione del servizio e la prevenzione della commissione di furti ai danni del cliente.
Così formulata, nella combinazione di entrambi gli elementi indicati (quello sintomatico della limitazione del danno risarcibile ad importo del tutto irrisorio rispetto dal danno patrimoniale verificatosi; quello della estensione della limitazione dalla misura del “quantum” alla integrale responsabilità per inadempimento ex artt. 1218 e 1229 c.c.), la clausola in questione deve ritenersi inficiata dal vizio di nullità per violazione della norma imperativa di cui all’art. 1229, comma 1, c.c.
conseguenza il ricorso trova accoglimento quanto al secondo motivo (infondati gli altri motivi), la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio della causa alla Corte d’appello di Milano, in altra composizione, che provvederà a rinnovare il giudizio, nonché a liquidare anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il secondo motivo di ricorso; rigetta il primo ed il terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Milano in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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