Corte di Cassazione sentenza n. 18401 del 12 luglio 2018
riconoscimento costi anche senza contabilizzazione – esistenza ed inerenza – coerenza – onere della prova – ripartizione della prova
FATTI DI CAUSA
1. Con avviso di accertamento relativo all’anno 1991 l’Agenzia delle entrate contestava alla A. s.r.l. l’assenza di documentazione di costi per acquisti per lire 16.950.000, la non deducibilità di costi per lire 14.921.000 perchè di competenza dell’anno 1990, l’omessa contabilizzazione di interessi attivi su crediti di imposta per lire 915.000 e maggiori ricavi da “vendita oreficeria” per lire 57.314.000 ai sensi dell’art. 39 lettera d.p.r. 600/1973 sulla base di un raffronto delle percentuali di maggiorazione sul costo del venduto dichiarato dalla società in esercizi precedenti.
2. La Commissione tributaria provinciale accoglieva il motivo della ricorrente in ordine ai costi per l’acquisto di monete d’oro, in quanto annotato sul libro giornale, riteneva di competenza dell’anno 1991 le cinque fatture emesse a dicembre 1990, non considerava giustificato l’accertamento induttivo.
3. La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello della Agenzia delle entrate.
4. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la società.
5.Resisteva l’Agenzia delle entrate con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “violazione o falsa applicazione dell’art. 22, comma 3, del d.p.r. 600/1973 in relazione all’art. 360, comma 1, 3 c.p.c.”, in quanto la prova della sussistenza del costo emerge dalla registrazione dello stesso nel libro giornale e nel Registro di commercio. La registrazione, infatti, consente la identificazione del cedente e la verifica che le monete che sono state vendute corrispondono a quelle entrate in magazzino.
1.1 Tale motivo è infondato.
Invero, per la Suprema Corte il principio in virtù del quale è consentito all’imprenditore, in sede di accertamento dell’imposta sul reddito, dedurre dal reddito imponibile anche i costi d’impresa non risultanti dalle scritture contabili non costituisce una deroga alle regole generali in tema di riparto dell’onere della prova, restando, quindi, a carico dell’imprenditore (ovvero, dopo il suo fallimento, del curatore fallimentare) dimostrare di avere effettivamente sostenuto i costi dei quali chiede la deduzione, prova, questa, che, ai sensi dell’art. 2709 c. c., non può essere fornita attraverso la mera annotazione del costo nel libro giornale (Cass.Civ., 28 febbraio 2017, n. 5079).
Il libro giornale, infatti, non fa fede della veridicità dei dati in esso esposti e non fa prova a favore dell’imprenditore stesso, ai sensi dell’art. 2709 e.e. In tema di imposte sui redditi e con riguardo ai costi d’impresa non regolarmente registrati ai sensi dell’art. 2215 cod. civ., l’abrogazione (ad opera dell’art. 5 del d.P.R. 9 dicembre 1996, n. 917) del sesto comma dell’art. 75 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – che precludeva l’ammissione in deduzione dei costi la cui registrazione era stata omessa o eseguita irregolarmente -, non comporta l’automatica deducibilità di tali costi ma, non incidendo sull’ordinario criterio di distribuzione dell’onere della prova, soltanto la possibilità, prima assolutamente preclusa al contribuente, di provarli anche con mezzi diversi dalle scritture contabili, purché rispondenti ai requisiti fissati al quarto comma dello stesso art. 75 (Cass.Civ., 14 maggio 2007, n. 10964; Cass.Civ., 12 gennaio 2007, n. 531; Cass.Civ., 11 luglio 2002, n. 10090).
Peraltro, dal controricorso risulta che gli acquisti delle monete d’oro non risultano neppure nel registro di commercio.
Inoltre, si deve sottolineare che il giudice di merito ha rilevato che il costo non era documentato, mentre lo stesso contribuente ha dichiarato di non essere stato in grado di rinvenire la documentazione comprovante l’acquisto dal privato, in quanto era stata “smarrita”.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la società deduce “violazione o falsa applicazione dell’art. 75, terzo comma, del p.r. 22.12.1986 n. 917 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto “la Guardia di finanza nel contestare la indeducibilità dei costi nell’esercizio 1991 non ha verificato se la merce oggetto delle fatture era stata introdotta o meno nel magazzino alla data del 31 dicembre 1990”.
2.1 Tale motivo è inammissibile.
Invero, la società, pur censurando la motivazione della sentenza della Commissione regionale per ragioni di diritto, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., incentra però le sue doglianza su circostanze di fatto, quali la mancata verifica da parte della Guardia di finanza del rinvenimento o meno della merce nel magazzino alla data del 31-12-1990.
La questione sollevata dalla ricorrente è, peraltro, del tutto nuova ed inammissibile.
Era, poi, del contribuente l’onere di dimostrare che la merce era entrata in magazzino nel 1991, sì che i costi relativi potevano essere dedotti in tale anno. Infatti, per la Suprema Corte, in tema di reddito d’impresa, l’art. 75 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (numerazione anteriore a quella introdotta dal d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344) nel prevedere che i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza e che, ai fini dell’individuazione di tale esercizio, le spese di acquisizione dei beni mobili si considerano sostenute alla data della consegna o spedizione, non consente di attribuire rilievo alla data in cui perviene la fattura della spesa sostenuta, né permette la detrazione dei costi in esercizi diversi da quello di competenza, non potendo il contribuente essere lasciato arbitro della scelta del periodo in cui registrare le passività, in quanto l’imputazione di un determinato costo ad un esercizio anziché ad un altro può, in astratto, comportare l’alterazione dei risultati della dichiarazione, mediante i meccanismi di compensazione dei ricavi e dei costi nei singoli esercizi (Cass.Civ., 12 febbraio 2010, n. 3418).
L’argomentazione della società si mostra anche irrilevante ai fini del decidere, in quanto non coglie la ratio decidendi della sentenza della Commissione regionale.
Infatti, la ricorrente avrebbe dovuto almeno allegare, e poi provare, che la merce oggetto delle fatture emesse nel dicembre 1990, era in realtà stata consegnata solo nel 1991. A nulla rileva, quindi, la doglianza per cui la Guardia di finanza avrebbe dovuto verificare se la merce fosse stata introdotta o meno nel magazzino alla data del 31-12-1990. Non è una contestazione alla sentenza della Commissione regionale, ma all’operato della Guardia di finanza e come tate inammissibile.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione dell’art. 112 del codice di procedura civile ed art. 2697 e.e. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Difetto di motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.”, non sussistendo i presupposti per procedere all’accertamento induttivo dei maggiori ricavi. L’accertamento induttivo di cui all’art. 39 lettera d d.p.r. 600 del 1973 non sarebbe consentito in caso di contabilità regolare.
3.1 Tale motivo è infondato.
Si rileva che, a prescindere dalla erronea invocazione dell’art. 112 c.p.c. da parte della ricorrente, l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con il quale il fisco procede alta rettifica di singoli componenti reddituali, anche se di rilevante importo, è consentito, ai sensi dell’art. 39 primo comma lettera d del d.p.r. 600 del 1973, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone scritture regolarmente tenute e , tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte su presunzioni gravi, precise e concordanti, che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà delta contabilità esaminata (Cass.Civ., 24 settembre 2014, n. 20060; Cass.Civ., 15 dicembre 2017, n. 30276).
La motivazione della decisione risulta, poi, completa e sufficiente, in quanto la Commissione afferma che i maggiori ricavi non contabilizzati sono emersi dalla applicazioni delle percentuali di maggiorazione dichiarate dalla stessa società negli esercizi precedenti, tenendo conto anche della “consistenza patrimoniale che rispecchia un rilevante volume di affari indicativo di maggiore capacità contributiva”.
La Commissione, dunque, si è limitata a constatare che, una volta ritenuti sussistenti gli indizi gravi, precisi e concordanti per utilizzare l’accertamento induttivo dei maggiori ricavi, spettava poi al contribuente fornire la prova contraria.
La stessa ricorrente, nella articolazione del motivo, ammette che “vero è, infatti, che l’unica prova che l’Ufficio ha fornito dell’evasione è presuntiva”.
4. Le spese del giudizio vanno poste a carico della società e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente a rimborsare alla Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi € 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.
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