Corte di Cassazione sentenza n. 20078 del 22 giugno 2022

IVA – esportazione – onere della prova – l’esportazione fuori dall’Unione va documentata con mezzi di prova certi e incontrovertibili – legittimo affidamento – contraddittorio preventivo – valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente 

Fatti di causa 

Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato alla società L.F. s.a.s. di N. F. & c. un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2013, aveva contestato la carenza di prova dell’uscita dal territorio dell’Unione europea della merce venduta a titolo di cessione all’esportazione, ai sensi dell’art. 8, d.P.R. n. 633/1972, con conseguente richiesta di pagamento dell’iva dovuta e applicazione delle sanzioni; avverso l’atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Pescara, avendo ritenuto violato il contraddittorio preventivo; avverso la pronuncia del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello.

La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sezione staccata di Pescara, ha accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate, in particolare ha ritenuto che: non sussisteva alcuna violazione del principio del contraddittorio preventivo; la pronuncia del giudice di primo grado era stata resa ultra petitum e l’avviso di accertamento era sufficientemente motivato; la notifica era stata regolarmente eseguita; infine, con riferimento al merito, sussistevano diversi elementi presuntivi da cui evincere che la merce non era fuoriuscita dal territorio dell’Unione europea e, d’altro lato, la documentazione prodotta dalla società non era idonea a superare la valenza della prova presuntiva dell’amministrazione finanziaria.

La società ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a quattro motivi di censura, illustrati con successiva memoria.

L’Agenzia delle entrate è rimasta intimata.

Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott.ssa Paola Filippi, ha depositato le proprie conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

Ragioni della decisione

Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma 7, legge n. 212/2000, per avere erroneamente ritenuto che l’amministrazione finanziaria avesse assolto all’obbligo di instaurare il contraddittorio preventivo prima di emettere l’avviso di accertamento.

Evidenzia parte ricorrente che, sebbene a seguito della notifica del processo verbale di constatazione la stessa avesse presentato le proprie osservazioni avverso la contestazione della carenza di prove dell’uscita dal territorio dell’Unione europea, l’amministrazione finanziaria non ne aveva tenuto conto, emettendo comunque l’avviso di accertamento.

In questo ambito, deduce parte ricorrente che la circostanza che, in sede di giudizio di primo grado, l’Agenzia delle! entrate aveva riconosciuto che per le fatture n. 1392/A e n. 1680/A la documentazione doganale fosse completa ed idonea a dimostrare l’uscita della merce dal territorio unionale, dimostrerebbe, in modo manifesto, la mancata considerazione delle deduzioni difensive fatte valere in sede di contraddittorio preventivo, posto che nelle osservazioni al processo verbale di constatazione la società aveva, per l’appunto, già fatto presente la regolarità delle operazioni di cessione relative alle suddette fatture, sicchè sarebbe stato violato il contraddittorio preventivo.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha più volte precisato che: in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. .212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo(Cass. civ., 4 aprile 2022, n. 10714; Cass. civ., 1 dicembre 2020, n. 27401; Cass. civ., 31 marzo 2017, n. 8378).

In termini generali, dunque, quel che rileva è il fatto che il contraddittorio sia stato attivato e che il contribuente sia stato messo nelle  condizioni  di  potere  prospettare  le  proprie ragioni prima dell’adozione nei suoi confronti dell’atto impositivo, senza, tuttavia, che sia imposto all’amministrazione finanziaria di esplicitare nell’atto impositivo le ragioni per le quali si è ritenuto di non accogliere le ragioni difensive del contribuente.

Il giudice del gravame, sul punto, ha compiuto un accertamento in fatto sul contenuto dell’avviso di accertamento ed ha affermato che le osservazioni al processo verbale di constatazione, nonché quelle prospettate in sede di accertamento con adesione, erano state vagliate dall’amministrazione finanziaria, sicchè non poteva ragionarsi in termini di inosservanza del contraddittorio preventivo. La suddetta affermazione è conformi: ai principi sopra indicati.

Non rileva, sotto tale profilo, la circostanza evidenziata dalla ricorrente anche in memoria secondo cui in sede giudiziale l’amministrazione finanziaria avrebbe riconosciuto la correttezza delle ragioni di doglianza già prospettate dalla ricorrente in sede di contraddittorio preventivo con riferimento alle due fatture n. 1392/Ae n. 1680/A, sicchè questo comporterebbe: la manifesta dimostrazione della mancata considerazione delle suddette ragioni di doglianza.

La possibilità che, in sede giudiziale e, dunque, successivamente all’emissione dell’atto impositivo, l’amministrazione finanziaria riconosca la parziale correttezza delle deduzioni difensive del contribuente non implica, di per sé, la violazione del contraddittorio preventivo, che può dirsi sussistente solo laddove sia certo che l’avviso di accertamento sia stato emesso senza alcuna valutazione delle argomentazioni difensive della parte, circostanza non riconducibile in alcun modo alla presente fattispecie.

Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 112, cod. proc. civ., per violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.

Evidenzia parte ricorrente che l’Agenzia delle entrate, in sede di costituzione dinanzi al giudice di primo grado, aveva riconosciuto che le operazioni commerciali sottese alle fatture n. 1392/A e n. 1680/A fossero riconducibili alle cessioni all’esportazione, sicchè la pretesa relativa alle suddette fatture era uscita dal thema decidendum del giudizio, con la conseguenza che il giudice del gravame non avrebbe potuto decidere in ordine alla legittimità della pretesa relativa alla suddette fatture.

Il motivo è fondato.

Si evince dal ricorso che l’amministrazione finanziaria, in sede di giudizio di primo grado, aveva contestato il ricorso introduttivo della ricorrente, precisando che: “Pertanto, non avendo fornito alcuna prova circa l’effettività dell’esportazione e a tal fine a nulla rilevando la dimostrazione del pagamento delle fatture a saldo della merce, le transazioni contestate dai verificatori (ad eccezione di quelle riferite alle fatture nn. 1392/A e 1680/A) non possono essere considerate come cessioni all’esportazione e la merce si presume ceduta in Italia”.

In sostanza, con il suddetto atto difensivo l’amministrazione finanziaria aveva inteso delimitare, in giudizio, la propria pretesa contenuta nell’avviso di accertamento, escludendo espressamente dalla stessa le suddette fatture.

La delimitazione dell’oggetto della domanda, relativa alla pretesa impositiva oggetto di contestazione da parte della società, avrebbe quindi dovuto indurre il giudice del gravame a non procedere all’esame nel merito circa la legittimità della pretesa anche con riferimento alle suddette fatture, avendo l’amministrazione finanziaria escluso che le stesse dovessero essere considerate non riconducibili alla cessione esportazione.

La valutazione nel merito, compiuta dal giudice del gravame, circa la legittimità della pretesa relativamente alle suddette fatture è stata, quindi, operata oltre il thema decidendum posto alla sua attenzione, con conseguente violazione del principio di cui all’art. 112, cod. proc. civ., di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. Questa Corte (Cass. civ., 21 marzo 2019, n. 8048), invero, ha precisato che il potere-dovere del giudice di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del “petitum” e della “causa petendi”, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicchè il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il niudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (appunto il “petitum” o la “causa petendi” od entrambi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (“petitum” immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (“petitum” mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori.

Nel caso di specie, il giudice del gravame ha pronunciato oltre i limiti del petitum, pronunciando in ordini alla legittimità della pretesa relative  alle  fatture  in  esame  nonostante  l’amministrazione finanziaria avesse riconosciuto che le stesse potevano essere considerate come cessioni all’esportazione.

Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 116, cod. proc. civ., in relazione all’art. 1, n. 21), Reg. Ce 312/2009, per avere ritenuto non sufficiente la documentazione attestante l’avvenuto pagamento quale prova alternativa all’operazione di cessione all’esportazione.

Evidenzia parte ricorrente che erroneamente il giudice del gravame ha ritenuto che non era stata fornita la prova alternativa della fuoriuscita della merce dal territorio unionale, non potendo, a tal fine, valere l’attestazione dell’avvenuto pagamento della vendita, nonostante la stessa costituisca una prova tipica le!1ale.

Il motivo è infondato.

Va quindi precisato che, ai fini dell’applicazione del regime di non imponibilità iva di cui al d.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. a), la destinazione della merce all’esportazione deve essere provata esclusivamente dalla documentazione doganale, ovvero dalla vidimazione apposta  dall’ufficio doganale sulla fattura, in assenza della quale l’operatore che voglia fruire dell’agevolazione non può valersi di documenti alternativi, mentre l’Amministrazione finanziaria non può disconoscere l’imponibilità dell’operazione ed diritto alla detrazione” (Cass. civ., 11 agosto 2016, n. 16971).

La costante giurisprudenza di questa Corte ha, quindi, più volte chiarito che, in tema di esportazioni al di fuori del territorio dell’Ue in regime di non imponibilità, è necessario che la destinazione dei beni all’esportazione sia documentata con mezzi di prova certi e incontrovertibili, quali le attestazioni di pubbliche amministrazioni del paese di destinazione dell’avvenuta presentazione delle merci in dogana (Cass. n. 25454/18), o la vidimazione apposta dall’ufficio doganale sulla fattura (Cass. n. 16971/16), o anche le bolle di accompagnamento, i documenti internazionali di trasporto e gli altri documenti previsti dall’amministrazione finanziaria” purchè risulti la vidimazione dell’ufficio doganale comprovante l’uscita della merce dal territorio doganale o comunque la prova certa ed incontrovertibile, che può provenire anche dalle autorità pubbliche dello Stato estero importatore, dell’uscita della merce dal territorio doganale dell’Unione (Cass. n. 19750/13), mentre sono inidonei documenti di origine privata, quali le fatture o la documentazione bancaria attestante il pagamento (Cass. n. 3193/15; conf., nn. 21809/12 e 20487/13).

Si è, altresì, precisato (Cass. civ., 6 settembre 2013, n. 20487) che

in tema di recupero di iva per esportazioni al di fuori dei confini comunitari non dimostrate, la destinazione della merce all’esportazione, nelle cessioni di cui all’art. 8, primo comma, lett. a), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, deve essere provata dalla documentazione doganale; in assenza di questa, non potendosi addebitare all’esportatore la mancata esibizione di un documento di cui egli non ha la disponibilità, tale prova può essere fornita con ogni mezzo che abbia il requisito della certezza ed incontrovertibilità, quale l’attestazione di pubbliche amministrazioni del Paese di destinazione dell’avvenuta presentazione delle merci in dogana, come ricavabile, ai sensi dell’art. 346 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, dalla disciplina doganale stessa, con la conseguenza che, è inidonea, ai predetti fini, la produzione di documenti di origine privata, come la documentazione bancaria dell’avvenuto pagamento. Correttamente, quindi, il giudice del gravame ha ritenuto che il solo pagamento non poteva costituire prova idonea.

Non rileva, sotto tale profilo, la previsione contenuta nell’art. 1, n. 21), reg. Ce 312/2009, cui fa riferimento parte ricorrente, attesa la non riferibilità della suddetta previsione alla questione in esame.

Questa Corte (Cass. civ., 6 aprile 2022, n. 11114) ha precisato, invero, che, sul regime di certezza delle cessioni oltre i confini unionali, assicurato dalla normativa unionale ed interna, non incide l’introduzione dell’art. 796 quinquies bis del Reg. n. 2454/93 dovuta all’art. 1, n. 21, del reg. n. 312/09, che ammette sì la produzione di prove di provenienza privata, ma al diverso fine di documentare all’ufficio doganale di esportazione la data e l’ufficio doganale dal quale le merci hanno lasciato il territorio doganale dell’Unione, “se, dopo 90 giorni dallo svincolo delle merci per l’esportazione, l’ufficio doganale di esportazione non ha ricevuto il messaggio “risultati di uscita”.

Invero, secondo la previsione contenuta nel par.4, dell’art. 796quinquies 2, reg. n. 2454/93, la prova di cui al par. 3 può essere fornita mediante uno dei seguenti elementi o mediante una combinazione degli stessi: a) una copia della bolla di consegna firmata o autenticata dal destinatario fuori del territorio doganale della Comunita’; b) la prova del pagamento o la fattura o la bolla di consegna debitamente firmata o autenticata dall’operatore economico che ha portato le merci fuori dal territorio doganale della Comunita’; c) una dichiarazione firmata o autenticata dalla societa’ che ha portato le merci fuori dal territorio doganale della Comunita’; d) un documento certificato dalle autorita’ doganali di uno Stato membro o di un paese al di fuori del territorio doganale della Comunita’; o e) scritture degli operatori economici relative alle merci fornite alle piattaforme di perforazione e di produzione del petrolio e del gas.

L’esatta comprensione dell’ambito di applicazione della previsione in esame deve essere compiuta tenendo in considerazione i presupposti normativi, configurati dalla suddetta previsione normativa, che devono sussistere al fine di consentire alla parte di potersi avvalere delle prove specificamente indicate nell’articolo in esame.

Il presupposto normativa, invero, è configurato nella previsione di cui al par. 1, secondo cui “Se, dopo 90 giorni dallo svincolo delle merci per l’esportazione, l’ufficio doganale di esportazione non ha ricevuto il messaggio “risultati di uscita” di cui all’articolo 796 quinquies, paragrafo 2, se necessario l’ufficio doganale di esportazione puo’ chiedere all’esportatore o al dichiarante di indicare a quale data e da quale ufficio doganale le merci hanno lasciato il territorio doganale della Comunita”‘.

In sostanza, si tratta di una peculiare ipotesi in cui è avvenuto lo svincolo delle merci per l’esportazione ma l’ufficio doganale di esportazione non ha ricevuto il messaggio di conferma dell’avvenuta esportazione: è in questi casi che, in realtà, opera il peculiare regime probatorio introdotto con la previsione normativa in esame.

Diversa è, dunque, la fattispecie in esame, in cui la pretesa è basata sulle “attestazioni false in quanto riferite ad altro operatore e/o contengono indicazioni riferite a bollette doganali inesistenti e/o riferite ad altro operatore”: in sostanza, quel che si contesta è la natura fraudolenta dell’operazione di cessione oltre i confini unionali, sottoposta, di conseguenza, ad un regime probatorio diverso, secondo quanto illustrato.

Va quindi ribadito che in tema di esportazioni al di fuori del territorio dell’Ue in regime di non imponibilità è necessario che, ove sussistano elementi presuntivi per ritenere che la merce non sia stata trasportate oltre il territorio unionale, la destinazione dei beni all’esportazione sia documentata con mezzi di prova certi e incontrovertibili, quali le attestazioni di pubbliche amministrazioni del paese di destinazione dell’avvenuta presentazione delle merci in dogana o la vidimazione apposta dall’ufficio doganale sulla fattura o anche le bolle di accompagnamento, i documenti internazionali di trasporto e gli altri documenti previsti dall’amministrazione finanziaria, purchè risulti la vidimazione dell’ufficio doganale comprovante l’uscita della merce dal territorio doganale o comunque la prova certa ed incontrovertibile, che può provenire anche dalle autorità pubbliche dello Stato estero importatore, dell’uscita della merce dal territorio doganale dell’Unione, mentre sono inidonei documenti di origine privata, quali Ile fatture o la documentazione bancaria attestante il pagamento.

Non sussiste, dunque, la prospettata violazione cli legge, avendo correttamente il giudice del gravame ritenuto che, nel caso in esame, non poteva avere idoneità probatoria la documentazione relativa agli avvenuti pagamenti.

Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 8, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 633/1972, in riferimento al principio di proporzionalità di cui all’art. 5, del Trattato dell’Unione europea, per avere il giudice del gravame ritenuto responsabile il cedente di tutte le operazioni doganali relative all’uscita della merce dal territorio nazionale.

In particolare, evidenzia parte ricorrente che, poiché la cessione della merce era avvenuta a mezzo di spedizioniere, la società, quale cedente, una volta consegnata la merce, non aveva più il controllo della stessa, poiché i diversi passaggi funzionali alla regolare cessione oltre il territorio dell’Unione sono seguiti direttamente dallo spedizioniere, sicchè è questi che ha il possesso dei DAE, con la conseguenza che non può riscontrarsi un comportamento non diligente della ricorrente, versando in una condizione di buona fede soggettiva.

Il motivo è fondato.

La Corte di giustizia (causa c-271/06) ha precisato che gli Stati membri devono rispettare i principi generali del diritto che fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario, quali, in particolare, i principi di certezza del diritto e di proporzionalità, nonché di tutela del legittimo affidamento (v., in tal senso, sentenze 18 dicembre 1997, cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96, Molenheide e a., Racc. pag. I-7281, punti 45-48; 11 maggio 2006, causa C-384/04, Federation of Tech11ological Industries e a., Racc. pag. I-4191, punto 29, nonché 14 seittembre 2006, cause riunite da C-181/04 a C-183/04, Elmeka, Racc. pag. I-8167, punto 31).

In particolare, quanto al principio di proporzionalità, la Corte ha già affermato che, conformemente a tale principio, gli Stati membri devono far ricorso a mezzi che, pur consentendo di raggiungere efficacemente l’obiettivo perseguito dal diritto interno, portino il minor pregiudizio possibile agli obiettivi e ai principi stabiliti dalla normativa comunitaria controversa (v. sentenze Molenheide e a., cit., punto 46, nonché 27 settembre 2007, causa C-409/04, Teleos e a., Racc. pag. I-7797, punto 52).

Così, anche se è legittimo che i provvedimenti adottati dagli Stati membri tendano a preservare il più efficacemente possibile i diritti dell’erario, essi non devono eccedere quanto è necessario a tal fine (v., in particolare, le citate sentenze Molenheide e a., punto 47, nonché Federation of Technological lndustries e a., punto 30).

A questo proposito, è stato rilevato che, nel settore dell’iva, i fornitori agiscono come collettori d’imposta per conto dello Stato e nell’interesse dell’erario  (v.  sentenza  20 ottobre 1993, causa C-10/92, Balocchi, Racc. pag. I-5105, punto 25). Detti fornitori sono debitori del versamento dell’IVA anche quando questa, in quanto imposta sul consumo, è in definitiva a carico del consumatore finale (v. sentenza 3 ottobre 2006, causa C-475/03, Banca popolare di Cremona, Racc. pag. I-9373, punti 22 e 28).

Per tale motivo, l’obiettivo di prevenire la frode fiscale di cui all’art. 15 della sesta direttiva giustifica talvolta prescrizioni severe quanto agli obblighi dei fornitori. Tuttavia, qualsiasi suddivisione del rischio tra questi ultimi e il fisco, in seguito ad una frode commessa da un terzo, dev’essere compatibile col principio di proporzionalità (sentenza Teleos e a., cit., punto 58).

Ciò non si verifica quando un regime fiscale faccia ricadere l’intera responsabilità del pagamento dell’IVA sul fornitore, indipendentemente dal coinvolgimento o meno di quest’ultimo nella frode commessa dall’acquirente (v., in tal senso, sentenza Teleos e a., cit., punto 58). Infatti, sarebbe chiaramente sproporzionato imputare a un soggetto passivo i mancati introiti tributari causati dai comportamenti fraudolenti di terzi sui quali egli non ha alcuna influenza.

Per contro, come la Corte ha già dichiarato, non è contrario al diritto comunitario esigere che il fornitore adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare ad una frode fiscale (v. sentenza Teleos e a., cit.” punto 65 e giurisprudenza ivi citata).

Pertanto, le circostanze che il fornitore abbia agito in buona fede, che abbia adottato tutte le misure raqionevoli in suo potere e che sia esclusa la sua partecipazione ad uria frode costituiscono elementi importanti per determinare la possibilità di obbligare tale fornitore ad assolvere l’IVA a posteriori (v. sentenza Teleos e a., cit., punto 66).

Del pari, sarebbe contrario al principio di certezza del diritto che uno Stato membro, il quale ha stabilito le condizioni per l’applicazione dell’esenzione ad una cessione di beni all’esportazione al di fuori della Comunità.

Sicchè, un fornitore deve poter fare affidamento sulla legittimità dell’operazione che effettua senza rischiare di perdere il suo diritto all’esenzione dall’IVA qualora sia impossibilitato di rendersi conto, pur facendo prova di tutta la diligenza di un commerciante avveduto, che in realtà non erano soddisfatte le condizioni per l’esenzione, a causa della falsificazione della prova dell’esportazione presentata dall’acquirente.

Con riferimento al caso di specie, il giudice del gravame ha risolto la questione della tutela dell’affidamento della società senza verificare se lo stesso era stato inconsapevolmente coinvolto in una frode iva e se aveva realizzato la condotta diligente dallo stesso esigibile in relazione alla concreta situazione fattuale posta alla sua attenzione, sicchè è configurabile la prospettata violazione di legge.

In conclusione, sono fondati il secondo e quarto motivo di ricorso, infondati i restanti, con conseguente cassazione della sentenza per i motivi accolti e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il secondo e quarto motivo di ricorso, infondati i restanti, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sezione staccata di Pescara, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.