CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 20250 depositata il 14 luglio 2023
Lavoro – Somministrazione di lavoro – Richiesta di costituzione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con l’utilizzatore – Art. 39 D.Lgs. n.81/2015 – Decadenza – Dies a quo di decorrenza del termine – Data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività per l’utilizzatore – Impugnativa di licenziamento – Comunicazione alla controparte della richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione – Interruzione della prescrizione – Ricorso al giudice nel termine di decadenza di sessanta giorni – Accoglimento parziale
Fatti di causa
1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Salerno ha confermato la statuizione di inammissibilità della domanda con la quale M.D.C., formalmente dipendente dalla società Irno Piacentini s.r.l. aveva chiesto la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la Banca di Credito cooperativo di Fisciano, in seguito incorporata nella Banca Monte Pruno – credito cooperativo di Fisciano, Roscigno e Laurino, società cooperativa (da ora Banca Monte Pruno), e la condanna delle convenute al pagamento della indennità risarcitoria ex art. 39, comma 2, d. lgs. n. 81/2015 nonché al pagamento delle differenze retributive tra quanto percepito e quanto avrebbe dovuto percepire alla luce del superiore inquadramento reclamato.
2. Per quel che ancora rileva, la Corte di merito ha osservato che ai sensi dell’art. 39, comma 1, d. lgs. n. 23/2015, nel caso in cui il lavoratore, le cui prestazioni sono state asseritamente irregolarmente somministrate, chieda la costituzione del rapporto di lavoro, trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 6 l. n. 604/1966 in tema di decadenza, le quali individuano il dies a quo di decorrenza del relativo termine nell’ultimo giorno in cui il lavoratore ha prestato la propria opera in favore dell’utilizzatore; tale giorno, per come pacifico, coincideva con la data del 31 dicembre 2016, stante il riconoscimento operato dalla medesima lavoratrice nella lettera inviata a mezzo pec in data 13 febbraio 2017, ritenuta dal giudice del reclamo verosimilmente avere lo scopo di non incorrere nella decadenza in questione. Quanto all’ulteriore termine di 180 giorni, previsto dalla scansione procedimentale delineata dall’art. 6 cit., per il deposito del ricorso giudiziale o per la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, la sentenza impugnata ha osservato che dalla medesima prospettazione della lavoratrice risultava effettuata la richiesta di tentativo di conciliazione – rimasta senza esito in data 29 maggio 2017, con conseguente sospensione per soli venti giorni del decorso del termine ex art. 410 cod. proc. civ., e quindi fino al 19 giugno 2017 (così prorogato il periodo di sospensione scadente di domenica); da tanto conseguiva che il termine ultimo per il deposito del ricorso giudiziale scadeva il 18 agosto rispetto al quale il deposito in cancelleria, avvenuto solo in data 6 settembre 2017, risultava all’evidenza tardivo.
3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso M.D.C. sulla base di due motivi; entrambe le intimate hanno ciascuno resistito con controricorso.
4. M.D.C. ha depositato due memorie e I.P.S. s.r.l. una memoria.
5. Il PG ha depositato memoria concludendo per il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Preliminarmente deve essere rilevata la inammissibilità delle deduzioni formulate dalla odierna ricorrente nella seconda memoria, depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., deduzioni intese, in sintesi, a ricondurre la concreta fattispecie all’ambito dell’appalto illecito anziché a quello della somministrazione irregolare, atteso che la qualificazione in quest’ultimo senso operata dal Giudice di appello non è stata investita da specifica censura con il ricorso per cassazione ma, anzi, da questo inequivocamente avvalorata (v. ricorso per cassazione, pag. 15); è infatti da escludere, alla luce della funzione meramente illustrativa della memoria ex art. 378 cod. proc. civ. (come della memoria ex art. 380 bis.1. cod. proc.civ.) la possibilità per la parte ricorrente di integrare, a mezzo memoria, motivi non ritualmente enunciati nell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, con il quale si esaurisce il relativo diritto di impugnazione (cfr., tra le altre, Cass. n. 8949 del 2023, Cass. n. 26670 del 2014, Cass. n. 4199 del 2002).
2. In relazione ai motivi formulati nel ricorso per cassazione si osserva quanto segue.
3. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione dell’art. 39 d. lgs. n. 81/2015 in combinato disposto con l’art. 6 comma 2 l. n. 604/1966 e dell’art. 2697 comma 2 cod. civ. in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 cod. proc. civ., censurando la individuazione del dies a quo di decorrenza del termine decadenziale; sostiene che esso non doveva necessariamente coincidere, come in concreto avvenuto, con il “fatto materiale” rappresentato dalla cessazione del lavoro prestato presso il terzo utilizzatore, potendo tale eventualità dipendere da malattia del lavoratore somministrato o da ferie, come nel caso di specie; assume che i termini in oggetto, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, avrebbero dovuto farsi decorrere dalla cessazione del lavoro presso il terzo utilizzatore, nella sua dimensione oggettiva – cessazione materiale dell’attività di lavoro somministrata irregolarmente al terzo utilizzatore- e nella sua dimensione soggettiva – consapevolezza del lavoratore della cessazione della somministrazione irregolare di lavoro; in questa prospettiva assume che il dies a quo di decorrenza doveva essere individuato, anziché nel 31 dicembre 2016, nel 24 febbraio 2017, data in cui, dopo un periodo di malattia, alla D.C. era stato intimato il licenziamento; sostiene che, in ogni caso, l’onere della prova della cessazione della somministrazione gravava sulle società convenute e che esso non era stato in concreto osservato.
Contesta che la nota 13 febbraio 2017 potesse interpretarsi, in violazione dei canoni di cui all’art.1362 e sgg. cod. civ., quale espressione della consapevolezza nella D.C. che alla data del 31 dicembre 2016 era cessata la propria attività presso l’istituto di credito <<siccome tale cessazione è imputata dalla D.C., inequivocamente, ad un successivo periodo di ferie, percependo la D.C. il periodo di non lavoro come una mera interruzione>>; denunzia, infine, omesso esame del fatto decisivo costituito dalla cessazione del rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della Banca Monte Pruno, senza considerare le ragioni a monte del fatto materiale della cessazione e senza considerare la inconsapevolezza del lavoratore della avvenuta cessazione della somministrazione irregolare di lavoro con il terzo utilizzatore.
4. Con il secondo motivo di ricorso deduce violazione dell’art. 410, comma 7 cod. proc. civ. in combinato disposto con l’art. 6, comma 2 l. n. 604/1966 e dell’art. 2697, comma 2 cod. civ. Censura la sentenza impugnata in punto di individuazione del dies a quo di decorrenza del termine di venti giorni di cui all’art. 410 cod. proc. civ., fatto coincidere con quello di deposito della richiesta di conciliazione alla competente commissione anziché dalla data di ricevimento da parte del datore di lavoro della copia della richiesta depositata dal lavoratore presso la Commissione di conciliazione.
5. Il primo motivo di ricorso è infondato.
5.1. L’art. 39 d. lgs n.81/2015, rubricato “Decadenze e tutele”, inserito nel Capo IV del d. lgs. n. 81/2015, intitolato “Somministrazione di lavoro”, nel comma di interesse (primo comma) così recita: “1. Nel caso in cui il lavoratore chieda la costituzione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore, ai sensi dell’articolo 38, comma 2, trovano applicazione le disposizioni dell’articolo 6 della legge n. 604 del 1966, e il termine di cui al primo comma del predetto articolo decorre dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore.”
5.2. Il dato testuale della richiamata disposizione non dà adito a dubbi in ordine al fatto che, in caso di domanda di costituzione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore della prestazione somministrata, il dies a quo di decorrenza del relativo termine di decadenza sia costituito dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività per l’utilizzatore.
5.3. Il legislatore ha in tal modo ha dimostrato di voler il decorso del termine decadenziale ad un dato certo, immediatamente percepibile dal lavoratore, rappresentato dal “fatto materiale” della cessazione del rapporto con l’utilizzatore della prestazione. La scelta del legislatore è chiaramente ispirata ad un intento di tutela del dipendente somministrato, il quale, all’atto del venir meno del rapporto con l’utilizzatore (ed a prescindere da ogni vicenda giuridicamente rilevante nel rapporto tra utilizzatore e somministrante), ha chiara consapevolezza che da quel momento decorre il termine a partire dal quale egli è tenuto ad attivarsi per far valere la sua pretesa nei confronti dell’utilizzatore.
5.4. La disposizione in esame non richiede nessun ulteriore requisito, tantomeno la dimostrazione della consapevolezza soggettiva nel dipendente della irregolarità della somministrazione. Peraltro, la prospettata necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata della previsione in esame, nel senso della necessità della consapevolezza soggettiva nella dipendente della avvenuta cessazione del rapporto di lavoro con l’utilizzatrice della prestazione, risulta superata dal concreto accertamento operato dal giudice di merito il quale ha valorizzato a tal fine il contenuto della lettera inviata dalla D.C. il 13 febbraio 2017, ritenuto rivelatore della consapevolezza nella odierna ricorrente del fatto che la data del 31 dicembre 2016 coincideva con l’ultimo giorno di prestazione dell’attività di lavoro in favore della Banca.
5.5. A riguardo le deduzioni della ricorrente circa la incidenza, sulla individuazione del dies a quo di decadenza, come sopra determinato, dello stato di malattia del prestatore o della fruizione di ferie, sono prima che infondate inammissibili per violazione del divieto di novum.
5.6. Tale profilo non risulta effettivamente trattato in sentenza, ma, a fronte di ciò, onde impedire una valutazione di novità della questione, era onere della ricorrente quello di allegare l’avvenuta deduzione di esso innanzi al giudice di merito ed inoltre, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione, quello di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito (Cass. n. 20694 del 2018, Cass. n. 15430 del 2018, Cass. n. 23675 del 2013) come, viceversa, non è avvenuto.
5.7. E’ ancora da rimarcare che la ricostruzione fattuale del giudice di merito in punto di accertamento della avvenuta cessazione del rapporto di lavoro della odierna ricorrente con la Banca utilizzatrice alla data del 31 dicembre 2016 non è suscettibile in questa sede di revisione stante la esistenza di <<doppia conforme>> ai sensi dell’art. 348 ter ultimo comma cod. proc. civ.; secondo l’orientamento già espresso da questa Corte ed al quale si intende dare seguito, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2019, Cass. n. 19001 del 2016, Cass. n. 5528 del 2014), come, viceversa, non avvenuto.
5.8. La denunzia di violazione dei criteri legali di interpretazione riferita alla lettera del 13 febbraio 2017 risulta inammissibile per genericità risolvendosi nella prospettazione di un diverso risultato ermeneutico a quello fatto proprio dalla Corte di appello. Premesso che, come noto, le regole ermeneutiche dettate per i contratti dagli artt. 1362 e seguenti cod. civ. sono applicabili agli atti unilaterali, in virtù del rinvio contenuto nell’art. 1324 dello stesso codice, si osserva che secondo la condivisibile giurisprudenza del giudice di legittimità l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. n. 19044 del 2010, Cass. n. 15604 del 2007, in motivazione, Cass. n. 4178 del 2007), dovendosi escludere che la semplice contrapposizione dell’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata, come avvenuto nel caso di specie, rilevi ai fini dell’annullamento di quest’ultima (Cass. n. 14318 del 2013, Cass. n. 23635 del 2010).
5.9. Concorrente profilo di inammissibilità delle censure sul punto articolate è rappresentato dalla violazione dell’art. 366, comma 1 n. 6 cod. proc. civ., avendo parte ricorrente omesso di trascrivere o esporre per riassunto il contenuto del documento alla base delle doglianze formulate (Cass. n. 29093 del 2018, Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 16900 del 2015, Cass. n. 26174 del 2014).
5.10. Infine, non è configurabile alcuna violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. per essere la sentenza impugnata frutto del concreto accertamento relativo alla data di cessazione del rapporto con l’utilizzatrice della prestazione e non della applicazione residuale della regola sull’onere della prova (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018).
5.11. In base alle considerazioni che precedono quindi deve confermarsi la sentenza di secondo grado in ordine alla individuazione quale dies a quo di decorrenza del termine di decadenza del 31 dicembre 2016.
6. Il secondo motivo di ricorso è fondato.
6.1. La sentenza impugnata ha accertato che la lettera del 13 febbraio 2017 era stata inviata nel rispetto del termine di sessanta giorni decorrente, come visto, dal 31 dicembre 2016, data di cessazione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore. Ha ritenuto, viceversa, non rispettata la successiva cadenza temporale stabilita dall’art. 6 cit., nel testo all’epoca vigente risultante dalla modifica introdotta dalla legge n. 92/2012, al fine del deposito del ricorso nella cancelleria del Tribunale o per la comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.
6.2. In particolare, quanto all’ ulteriore termine di 180 giorni, decorrente dalla impugnativa di licenziamento, previsto dall’art. 6 cit., per il deposito del ricorso giudiziale o per la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, la sentenza impugnata ha dato atto che in data 29 maggio 2017 era stata effettuata la richiesta per l’espletamento del tentativo di conciliazione il quale, tuttavia, ex art. 410 cod. proc. civ., aveva sospeso solo per 20 giorni e quindi fino al 18 giugno 2017, cadente di domenica e quindi prorogato ex lege, ai sensi dell’art. 155 cod. proc. civ., al giorno successivo, il termine di decadenza. Secondo il giudice di appello il ricorso giudiziale avrebbe quindi dovuto essere depositato nella cancelleria del giudice nei successivi sessanta giorni e, quindi, entro il 18 agosto 2017 laddove tale deposito era avvenuto solo in data 6 settembre 2017 e quindi tardivamente.
6.3. La decisione non è corretta in diritto. L’art. 6 l. n. 604/1966, richiamato dall’art. 39, comma 1 d. lgs n. 81 /2015, nel testo ratione temporis applicabile, per il profilo di interesse, così statuisce: “Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo“.
6.4. Dal chiaro disposto dell’articolo in esame si evince, in primo luogo, che la conservazione dell’efficacia dell’iniziale atto stragiudiziale di impugnativa, richiede, per quel che qui rileva, la comunicazione alla controparte della richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione (Cass. n. 3818 del 2021, Cass. n. 29249 del 2018); si evince, inoltre, che, in ragione della specialità della disciplina dettata dal riformulato art. 6 l. n. 604/1966, non trova applicazione il comma 2 dell’art. 410 cod. proc. civ. a mente del quale ”La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”.
6.5. Come chiarito da questa Corte, con affermazione riferita all’ipotesi dell’impugnativa di licenziamento ma estensibile, in virtù dell’espresso richiamo all’art. 6 operato dall’art. 39, comma 2 d. lgs n. 81/2015, anche alla fattispecie in esame, nella quale si controverte della domanda di accertamento della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con l’asserito utilizzatore della prestazione irregolarmente somministrata, se alla richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato effettuata dal lavoratore consegue il rifiuto datoriale, che si perfeziona, senza che occorra alcuna comunicazione alla DTL o al prestatore, con il mancato deposito presso la commissione della memoria difensiva nei venti giorni successivi al ricevimento della richiesta, il lavoratore è tenuto a depositare, in virtù della previsione del comma 2 del citato art. 6, il ricorso al giudice nel termine di decadenza di sessanta giorni, decorrente dal perfezionamento del rifiuto, senza che trovi applicazione – in ragione della natura speciale della disciplina – la regola generale della sospensione dei termini di decadenza di cui all’art. 410, comma 2, cod. proc. civ.; ne consegue che al predetto termine di sessanta giorni non possono sommarsi i venti giorni previsti in tale ultima disposizione (Cass. n. 14057 del 2019, Cass. n. 27948 del 2018).
6.6. La sentenza impugnata non è coerente con la condivisibile giurisprudenza di legittimità ora evocata.
Invero, il Giudice di appello ha fatto riferimento, al fine della verifica del rispetto del termine di decadenza, alla sola data – 29 maggio 2017 – di richiesta del tentativo di conciliazione e, pur dando atto dell’esito negativo dello stesso, non ha specificato il momento nel quale si era concretizzata tale situazione (per il realizzarsi della quale occorreva comunque la dimostrazione del momento in cui era avvenuta la comunicazione alla controparte della detta richiesta); l’accertamento dell’epoca del concretizzarsi del rifiuto o del mancato accordo, era, viceversa, indispensabile in quanto tale momento, in base alla disciplina applicabile, come sopra ricostruita, configurava il dies a quo di decorrenza del termine di 60 giorni per il deposito del ricorso giudiziale; infine, la sentenza impugnata è errata nel considerare applicabile il periodo di venti giorni di sospensione, sancito dall’art. 410, comma 2 cod. proc. civ., laddove alla luce dei richiamati approdi del giudice di legittimità, tale sospensione non era destinata a trovare applicazione in relazione alla fattispecie disciplinata dall’art. 6 l. n. 604/1966.
6.7. In conclusione, in base alle considerazioni che precedono, si impone la cassazione in parte qua della decisione per il riesame della fattispecie alla luce delle indicazioni del giudice di legittimità.
7. Alla Corte di rinvio è demandato il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche ai fini del regolamento delle spese di legittimità, alla Corte d’appello di Salerno, in diversa composizione.
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