CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 20697 depositata il 9 agosto 2018
sanzioni amministrative – principio del favor rei – antiriciclaggio
FATTI DI CAUSA
Il signor SM ricorre per la cassazione della sentenza della corte di appello di Milano che, confermando la sentenza del Tribunale di Lodi, ha rigettato la sua opposizione avverso il decreto del Dirigente Generale del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 121442/RM I del 24 marzo 2010, con il quale gli era stata inflitta la sanzione amministrativa pecuniaria di C 193.333,00 per la violazione dell’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 143/1991, per avere egli consegnato, tra il 27.9.2004 ed il 30.7.2004, denaro contante senza il tramite degli intermediari abilitati, in misura eccedente i limiti consentiti dalla legge, al sig. BG, all’epoca dei fatti Direttore Area Finanza della Banca Popolare di Lodi.
La corte distrettuale ha disatteso l’assunto dell’odierno ricorrente secondo cui, nella specie, la sussistenza della violazione sarebbe stata esclusa dal rilievo che, poiché il consegnatario del denaro era un dirigente della Banca Popolare di Lodi, il denaro stesso doveva ritenersi consegnato ad un intermediario abilitato. Al riguardo, nella sentenza gravata si argomenta che il signor BG, nel ricevere il denaro dal SM, aveva agito in proprio, quale persona fisica, e non quale dirigente della Banca Popolare di Lodi e in rappresentanza della stessa; sul punto la corte ambrosiana valorizza l’affermazione dello stesso SM (raccolta nel verbale della Guardia di Finanza dell’ 11.2.09) di aver consegnato al BG le somme in contanti de quibus in esecuzione di un accordo avente ad oggetto la spartizione, tra i due, dei profitti derivanti dalle operazioni di trading svolte dal BG su un conto intestato al SM.
Per la cassazione di tale sentenza il signor SM ha proposto ricorso sulla scorta di tre motivi.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è costituito con controricorso.
La causa è stata discussa all’udienza del 9 gennaio 2018 – per la quale solo la ricorrente ha depositato memoria e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe – ed è stata decisa in esito alla riconvocazione del Collegio del 9 luglio 2013.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Col primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 4 del VII Protocollo addizionale alla Carta EDU e dell’art. 112 c.p.c. e deduce la nullità del procedimento per la violazione del principio del ne bis in idem in cui la corte territoriale sarebbe incorsa confermando l’impugnato provvedimento sanzionatorio nonostante che, per gli stessi fatti, egli avesse subito un procedimento penale conclusosi con l’applicazione su richiesta della pena di nove mesi di reclusione per il reato di appropriazione indebita.
Il motivo va giudicato infondato, non potendosi richiamare nella specie il principio del ne bis in idem. Dalla sentenza di applicazione della pena su richiesta pronunciata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Milano il 23.5.08 (direttamente esaminabile da parte di questa Corte in ragione della natura del vizio denunciato col mezzo di impugnazione in esame) si rileva infatti che il fatto per il quale all’odierno ricorrente è stata irrogata, su richiesta, la pena di nove mesi di reclusione consisteva nell’essersi appropriato di circa 12 milioni di euro della Banca Popolare di Lodi “operando in violazione delle procedure contabili di antiriciclaggio nonché dei vincoli contrattuali”. La violazione delle procedure contabili di antiriciclaggio (oltre che dei vincoli contrattuali) costituiva, dunque, una modalità attuativa del delitto di appropriazione indebita compiuto dal SM, in concorso con il BG, in danno della Banca Popolare di Lodi; modalità attuativa, va aggiunto, penalmente irrilevante, non essendo tale modalità qualificata nemmeno come circostanza aggravante di altro reato. Il fatto costituente oggetto del procedimento penale era, dunque, l’appropriazione di beni altrui (cioè della Banca Popolare di Lodi), non la consegna di denaro contante al BG effettuata senza il tramite di intermediari abilitati, che, invece, è il fatto costituente oggetto del procedimento sanzionatorio definito con provvedimento amministrativo impugnato nel presente giudizio. Va peraltro ricordato, al riguardo, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la preclusione connessa al principio del ne bis in idem opera, ove il reato già giudicato si ponga in concorso formale con quello oggetto del secondo giudizio, nel solo caso in cui sussista l’identità del fatto storico, inteso sulla base della triade condotta-nesso causale-evento. (cfr. Cass. pen. n. 54986/17, in cui la Corte, richiamando i principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 200 del 2016, ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata che aveva escluso la preclusione stabilita dall’art. 649 c.p.p. in riferimento al reato di incendio colposo, cagionato mediante la realizzazione di un abusivo allacciamento alla rete elettrica, a carico di imputata già giudicata per il delitto di furto aggravato, contestato come commesso mediante il medesimo allacciamento abusivo).
Col secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la nullità della sentenza e del procedimento, per violazione dell’art. 112 c.p.c. (sotto il profilo della corrispondenza tra chiesto e pronunciato), in cui la corte d’appello sarebbe incorsa fondando l’accertamento di sussistenza dell’illecito su un presupposto (ossia che il BG, ricevendo il denaro contante del SM, agisse in proprio e non nella qualità di dipendente della Banca Popolare di Lodi) non contemplato nella contestazione del Ministero del Tesoro, nella quale si addebitava al SM di aver consegnato il denaro contante nelle mani del signor BG quale “direttore Area Finanza della Banca all’epoca dei fatti”.
Il motivo non può trovare accoglimento perché il riferimento, nella contestazione dell’addebito al SM, alla circostanza che BG fosse “direttore Area Finanza della Banca all’epoca dei fatti” assolveva ad una funzione meramente descrittiva dei contorni fattuali della vicenda, senza in alcun modo qualificare la fattispecie sanzionata, che era individuata come consegna al sig. BG, non come consegna a BG nella sua qualità di dipendente della Banca.
Col terzo motivo il ricorrente censura la violazione dell’art. 4 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3, nella parte in cui la Corte avrebbe liquidato le spese del giudizio d’appello in misura immotivatamente superiore ai limiti massimi dello scaglione di riferimento.
Il motivo va giudicato assorbito per le considerazioni che seguono.
Dopo la notifica del ricorso per cassazione è stato emanato il decreto legislativo 25 maggio 2017 n. 90 (Attuazione della direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo e recante modifica delle direttive 2005/60/CE e 2006/70/CE e attuazione del regolamento (UE) n. 2015/847 riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi e che abroga il regolamento (CE) n. 1781/2006), che ha sensibilmente modificato il decreto legislativo 21 novembre 2007 n. 231 (Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione), il quale, a propria volta, aveva sostituito la disciplina dettata dal decreto legge 3 maggio 1991, n. 143 (Provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio) convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 5 luglio 1991, n. 197.
Quest’ultima disciplina, vigente all’epoca dei fatti ascritti al sig. SM (luglio – settembre del 2004), è, per il principio di legalità fissato nell’articolo 1 della legge n. 689/1981, quella applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta nel presente giudizio. In particolare, l’articolo 1, comma 1, del citato decreto legge n. 143/1991, prima sostituito dalla legge di conversione n. 197/1991 e poi modificato dall’art. 15 I. n. 52/1996 e dall’art. 6 d.lgs. n. 56/2004, recita: «È vietato il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in lire o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, quando il valore da trasferire è complessivamente superiore a 12.500 euro. Il trasferimento può tuttavia essere eseguito per il tramite degli intermediari abilitati; per il denaro contante vanno osservate le modalità indicate ai commi 1- bis e 1- ter.» La sanzione per la violazione di detto divieto è contenuta nell’articolo 5, comma 1, d.l. 143/1991 cit., che, nel testo modificato prima dalla legge di conversione n. 197/1991 e poi dall’art. 6 d.lgs. n. 56/2004, recita: «Fatta salva l’efficacia degli atti, alle infrazioni delle disposizioni di cui all’articolo 1 si applica, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, una sanzione amministrativa pecuniaria dall’i per cento al 40 per cento dell’importo trasferito».
La sanzione pecuniaria concretamente inflitta all’odierno ricorrente (di C 193.333,00) risulta compresa tra il minimo ed il massimo edittale, essendo pari al 20% dell’ammontare del denaro oggetto di trasferimento, ossia la somma di C 966.666 che il medesimo SM aveva ammesso di aver consegnato al BG e che corrispondeva ai due terzi dell’importo di C 1.450.000 che lo stesso SM aveva prelevato dai propri conti bancari.
A decorrere dal 30 aprile 2008 tanto l’articolo 1, comma 1, quanto l’articolo 5, comma 1, del decreto legge n. 143/1991 sono stati abrogati dall’art. 64 (ora art. 73), comma 1, lett. a), del decreto legislativo 21 novembre 2007 n. 231, e da quest’ultimo sostituiti, rispettivamente, quanto alla norma che definisce la condotta vietata, con l’articolo 49, comma 1, (che, nel testo originario, recitava: «E’ vietato il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in euro o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, quando il valore dell’operazione, anche frazionata, è complessivamente pari o superiore a 5.000 euro. Il trasferimento può tuttavia essere eseguito per il tramite di banche, istituti di moneta elettronica e Poste Italiane s.p.a. ») e, quanto alla sanzione, con l’articolo 58, comma 1, (che nel testo originario recitava: «Fatta salva l’efficacia degli atti, alle violazioni delle disposizioni di cui all’articolo 49, commi 1, 5, 6 e 7, si applica una sanzione amministrativa pecuniaria dall’i per cento al 40 per cento dell’importo trasferito»).
Attualmente – a seguito delle modifiche recate al decreto legislativo n. 231/2007 dal decreto legislativo n. 90/2017 – la norma di divieto di cui all’articolo 49 del decreto legislativo n. 231/2007 risulta sanzionata non più dall’articolo 58, bensì dall’articolo 63 dello stesso testo (come modificato dal decreto legislativo n. 90/2017), il quale, nel comma 1, prevede una sanzione da C 3.000 a C 50.000 e, nel comma 6, dispone che detta sanzione è quintuplicata nel minimo e nel massimo edittali per gli importi superiori a 250.000 euro.
L’articolo 69 del medesimo decreto legislativo n. 231/2007 (introdotto dal decreto legislativo n. 90/2017), prevede poi, nel primo comma, che «Per le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto, sanzionate in via amministrativa, si applica la legge vigente all’epoca della commessa violazione, se più favorevole, ivi compresa l’applicabilità dell’istituto del pagamento in misura ridotta».
Tale disposizione – nel prevedere che la legge vigente all’epoca della violazione si applica alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 90/2017 solo se più favorevole (il che equivale a dire che per tali violazioni deve invece applicarsi la disciplina dettata dal decreto legislativo n. 90/2017 quando sia essa quella più favorevole) – introduce, nella specifica materia delle sanzioni volte alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, la retroattività della legge successiva più favorevole; in tal modo derogando al principio generale (sul quale vedi C.Cost. n. 193/16, C.Cost. 2/17, Cass. 9269/18) secondo cui tale retroattività – previste per le sanzioni penali dall’articolo 2, comma 3, c.p. – non opera nella materia delle sanzioni amministrative.
In relazione alle sanzioni previste dal decreto legge n. 143/1991 e dal decreto legislativo n. 231/2007 (nel testo anteriore alle modifiche recate dal decreto legislativo n. 90/2017) deve dunque procedersi ad un giudizio comparativo volto a stabilire quale sia il trattamento sanzionatorio più favorevole tra quello previsto dalla legge vigente al momento della commissione della violazione e quello previsto all’esito delle modifiche normative introdotte dal decreto legislativo n. 90/2017.
Nella concreta fattispecie in esame, nella quale l’importo trasferito era di € 966.666, il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge vigente all’epoca di commissione dell’illecito prevedeva una sanzione pecuniaria pari una percentuale dall’1 al 40 per cento dell’importo trasferito in contanti e, quindi, in concreto, compresa tra un minimo di € 9.666 ed un massimo di € 386.640 (la sanzione irrogata è stata, si ricorda, di € 193.333).
Il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge attualmente vigente è quello dettato dall’articolo 63 d.lgs. 231/2017, come modificato dal decreto legislativo n. 90/2017, e, poiché l’importo di denaro trasferito in contanti supera la soglia di € 250.000, va determinato applicando al minimo ed al massimo edittale indicati nel comma 1 di tale articolo (vale a dire € 3,000 ed € 50.000) la quintuplicazione prevista del comma 6 del medesimo articolo, così pervenendosi ad un minimo edittale di C 15.000 e ad un massimo edittale di C 250.000. La comparazione tra i minimi ed i massimi edittali della sanzione pecuniaria concretamente irrogabile nella fattispecie mostra che il minimo editabile è più alto <<……….>>
Al riguardo è pertanto necessario considerare anche il disposto dell’articolo 67 d.lgs. n. 231/2007, come modificato dal decreto legislativo n. 90/2017, il quale recita:
<<Nell’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie e delle sanzioni accessorie, previste nel presente Titolo, il Ministero dell’economia e delle finanze e le autorità di vigilanza di settore, per i profili di rispettiva competenza, considerano ogni circostanza rilevante e, in particolare, tenuto conto del fatto che il destinatario della sanzione sia una persona fisica o giuridica:
a) la gravità e durata della violazione;
b) il grado di responsabilità della persona fisica o giuridica;
c) la capacità finanziaria della persona fisica o giuridica responsabile;
d) l’entità del vantaggio ottenuto o delle perdite evitate per effetto della violazione, nella misura in cui siano determinabili;
e) l’entità del pregiudizio cagionato a terzi per effetto della violazione, nella misura in cui sia determinabile;
f) il livello di cooperazione con le autorità di cui all’articolo 21, comma 2, lettera a) prestato della persona fisica o giuridica responsabile;
g) l’adozione di adeguate procedure di valutazione e mitigazione del rischio di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, commisurate alla natura dell’attività svolta e alle dimensioni dei soggetti obbligati;
h) le precedenti violazioni delle disposizioni di cui al presente decreto.
2. A fronte di violazioni ritenute di minore gravità, in applicazione dei criteri di cui al comma 1, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dagli articoli 56 comma 1 e 57 comma 1 può essere ridotta da un terzo a due terzi.
3. Si applicano le disposizioni di cui agli articoli 8 e 8-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689 (103), in materia di concorso formale, di continuazione e di reiterazione delle violazioni.».
Poiché anche l’articolo 63 del decreto legislativo n. 231/2007 fa parte, al pari dell’articolo 67, del titolo V di tale decreto legislativo, i criteri dettati in quest’ultimo articolo per la graduazione della pena devono trovare applicazione anche con riferimento alla sanzione prevista per l’illecito trasferimento di denaro contante.
Ai fini della individuazione del trattamento sanzionatorio più favorevole risulta quindi necessario un apprezzamento di fatto – che non può essere compiuto se non in sede di merito – delle circostanze di commissione dell’illecito, onde stabilire se, per la violazione concretamente commessa dal signor Secchi, risulti più favorevole la sanzione irrogabile secondo la disciplina vigente all’epoca di commissione dell’illecito o quella irrogabile secondo la disciplina introdotta dal decreto legislativo n. 90/2017, comprensiva dei criteri di graduazione della sanzione sopra menzionati.
Così definiti i termini della questione applicativa posta dall’articolo 69 del decreto legislativo n. 231/2007, introdotto dal decreto legislativo 90/2017, è necessario stabilire, in primo luogo, se lo jus supervenies si applichi alle violazioni commesse prima della entrata in vigore del decreto legislativo 90/2017 anche quando tali violazioni abbiano già formato oggetto di un provvedimento sanzionatorio; nonché, in ipotesi di risposta affermativa a tale quesito, se la sopravvenienza, nella pendenza del giudizio di legittimità, della nuova disciplina, potenzialmente più favorevole, possa essere rilevata dalla Corte di cassazione ancorché la questione non formi (né, evidentemente, potesse formare) oggetto di alcuno dei motivi del ricorso avverso la sentenza di merito.
Preliminarmente va peraltro sottolineato che – ancorché tali questioni non siano state trattate nel presente giudizio né dal ricorrente, che pure ha depositato una memoria ex art. 378 c.p.c., né dall’Amministrazione contro ricorrente, che non ha depositato memoria – non è necessario assegnare alle parti un termine ai sensi dell’articolo 384, comma 3, c.p.c., giacché, come già reiteratamente affermato da questa Corte, tale disposizione si riferisce esclusivamente all’ipotesi in cui la Cassazione ritenga di dover decidere nel merito ai sensi dell’ultima parte del comma 2 dello stesso articolo (ord. 15964/11, sent. 8137/14, ord. 6669/15).
Tanto premesso, si osserva che, sulla prima delle due questioni sopra evidenziate – relativa all’applicabilità dello jus superveniens alle violazioni per le quali, al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 90/2017, fosse già stato adottato un provvedimento sanzionatorio – è possibile pervenire ad una soluzione affermativa, sulla base delle seguenti considerazioni.
Al riguardo si deve, in primo luogo, valorizzare, ai sensi dell’articolo 12 delle preleggi, la portata letterale dell’articolo 69 del decreto legislativo n. 231/2007, introdotto dal decreto legislativo 90/2017; in proposito va sottolineata l’inequivocità della previsione ivi contenuta, la quale ha ad oggetto le «violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto», senza contenere alcun riferimento al requisito della mancata emanazione del provvedimento sanzionatorio. In secondo luogo va evidenziato che, ai fini che ci occupano, non può attribuirsi alcun rilievo al principio della naturale irretroattività della legge, fissato dall’articolo 11 delle medesime preleggi, risultando tale principio espressamente derogato, nei limiti segnati dal principio del favor rei, dalla previsione, contenuta nel ripetuto articolo 69, che limita le ipotesi di applicazione della legge vigente all’epoca della commessa violazione ai casi in cui tale legge sia più favorevole. Va poi altresì evidenziato come una interpretazione che limiti l’applicabilità dello jus superveniens alle sole violazioni non ancora sanzionate dall’Amministrazione non possa trovare supporto nelle disposizioni di cui all’art. 3 d.lgs. n. 472/1997 e di cui all’art. 23 bis d.P.R. n. 148/1988; entrambe tali disposizioni, che già precedentemente avevano introdotto l’applicazione del principio del favor rei alle sanzioni amministrative nelle materie tributaria e valutaria, indicano infatti, quale unico limite alla regola della retroattività della lex mitior, l’intervenuta definitività del provvedimento sanzionatorio, la quale, evidentemente, presuppone l’esaurimento dell’eventuale fase di impugnazione giurisdizionale dello stesso. Infine la clausola di invarianza dettata dall’articolo 74, comma 1, d.lgs. 231/2007, anch’esso introdotto dal decreto legislativo n. 90/2017 («dall’attuazione del presente decreto non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»), non può ritenersi idonea a sorreggere un’interpretazione che escluda l’applicazione della lex mitior alle violazioni, pur commesse prima della data di entrata in vigore dal decreto legislativo n. 90/2017, per le quali, tuttavia, a tale data fosse già stata emessa l’ordinanza sanzionatoria; deve infatti escludersi che eventuali riduzioni di sanzioni già irrogate, conseguenti all’applicazione della normativa sopravvenuta, possano considerarsi quali «nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», giacché si tratterebbe non di maggiori oneri ma di minori entrate prive del requisito della certezza, in quanto dipendenti da provvedimenti ancora sub judice.
Ritenuta, quindi, l’applicabilità dello jus supervenies recato dal decreto legislativo n. 90/2017 anche alla violazioni per le quali, alla data di entrata in vigore di tale decreto, era già stata emessa una ordinanza sanzionatoria, resta da esaminare la seconda questione sopra evidenziate, vale a dire se – qualora lo jus superviens sia intervenuto nella pendenza del giudizio di legittimità (come è avvenuto nel presente giudizio) – esso possa essere applicato dalla Corte di cassazione anche nei giudizi nei quali la quantificazione della sanzione operata nell’ordinanza sanzionatoria non sia stata specificamente impugnata in sede giurisdizionale o nei quali la relativa impugnazione sia stata rigettata in primo grado con statuizione non appellata o sia stata rigettata in secondo grado con statuizione non gravata di ricorso per cassazione.
In proposito è appena il caso di precisare, per completezza, che nessun dubbio può sussistere in ordine al dovere della Corte di cassazione di fare applicazione dello jus superveniens nei casi in cui la statuizione della sentenza di secondo grado in punto di misura della sanzione abbia formato oggetto di specifico motivo di ricorso per cassazione, ancorché sorretto, ovviamente, da ragioni diverse dalla violazione di norme che sono entrate nell’ordinamento solo in un momento successivo alla proposizione del ricorso. In tal caso, infatti, la statuizione sulla misura della pena forma oggetto di censura in sede di legittimità e tale censura investe la Corte di cassazione del potere-dovere di verificare la relativa conformità alla legge anche sotto profili diversi da quelli dedotti nel mezzo di gravame; la giurisprudenza di legittimità ha infatti più volte ribadito che, in ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché per omologia con quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell’art. 384 c.p.c., deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione sollevata dal ricorso per una ragione giuridica individuata d’ufficio e diversa da quella specificamente indicata dalla parte, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto (Cass. 19132/05, Cass. 6935/07, Cass. 3437/14, Cass.18775/17).
Ritiene peraltro il Collegio che la norma più favorevole sopravvenuta nella pendenza del giudizio di legittimità debba trovare applicazione anche nell’ ipotesi in cui, come nel presente procedimento, nel ricorso per cassazione non sia stata specificamente censurata la statuizione della sentenza di secondo grado di rigetto di un motivo di appello concernente la misura della sanzione, nonché nelle ulteriori ipotesi nelle quali la misura della sanzione non avesse formato oggetto di contestazione in sede di appello avverso la sentenza di primo grado o nell’originario atto di opposizione all’ordinanza sanzionatoria.
Al riguardo si osserva che, in linea generale, questa Corte ha affermato che nel giudizio di legittimità, lo ius superveniens, che introduca una nuova disciplina del rapporto controverso, può trovare di regola applicazione solo alla duplice condizione che, da un lato, la sopravvenienza sia posteriore alla proposizione del ricorso per cassazione (e ciò perché, in tale ipotesi, il ricorrente non ha potuto tener conto dei mutamenti operatisi successivamente nei presupposti legali che condizionano la disciplina dei singoli casi concreti); e, dall’altro lato, la normativa sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione – e soprattutto quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata attraverso l’individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse – impediscono di rilevare d’ufficio (o a seguito di segnalazione fatta dalla parte mediante memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.) regole di giudizio determinate dalla sopravvenienza di disposizioni, ancorché dotate di efficacia retroattiva, afferenti ad un profilo della norma applicata che non sia stato investito, neppure indirettamente, dai motivi di ricorso e che concernano quindi una questione non sottoposta al giudice di legittimità (così Cass. 10547/06). La seconda di dette limitazioni, vale a dire la pertinenza dello jus superveniens a questioni sottoposte al giudice di legittimità, deve tuttavia ritenersi derogata nel caso in cui il giudizio abbia ad oggetto l’impugnativa di un provvedimento recante una sanzione e lo jus superveniens sia retroattivo in applicazione del principio del favor rei. In materia di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, infatti, questa Corte ha già avuto modo di stabilire
– nella sentenza n. 8243/08, resa con riferimento all’articolo 3 d.lgs. n. 472/1997 (il cui comma 3 recita:
«Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo.») – che le più favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute debbono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in sede di legittimità; nella motivazione di detta sentenza si chiarisce, in particolare, che «le più favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute devono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio e, quindi, pure in sede di legittimità, atteso che, nella valutazione del legislatore, in ogni altro caso, la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema d’impugnazione».
Quest’ultimo, condivisibile, approdo – fondato sulla specifica portata pubblicistica del principio del favor rei e, quindi, destinato ad operare ogni qualvolta il processo civile abbia ad oggetto l’impugnativa di un provvedimento recante una sanzione tributaria o amministrativa – non urta, d’altra parte, con i principi in materia di rapporto fra jus superveniens e cosa giudicata.
Al riguardo va premesso che la statuizione sulla misura della sanzione è dipendente dalla statuizione sulla responsabilità del sanzionato; è ovvio, infatti, che la caducazione del capo di sentenza che accerta la sussistenza dell’illecito e la responsabilità del sanzionato travolge il capo di sentenza che stabilisce la misura della sanzione (anche mediante il rigetto dell’opposizione avverso la misura della sanzione fissata nell’ordinanza opposta).
Ciò posto, devono qui richiamarsi i principi fissati dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 21691/16, dove si è precisato che l’impugnazione nei confronti della parte principale della decisione impedisce la formazione del giudicato interno sulla parte da quella dipendente. In tale sentenza si è, in particolare, sottolineato che con l’articolo 336 c.p.c. (alla cui stregua “la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti dipendenti dalla parte riformata o cassata”) il legislatore ha fissato la regola che, qualora due o più parti di una sentenza siano collegate da un nesso di dipendenza, l’accoglimento dell’impugnazione mirata sulla parte principale comporta la caducazione anche della parte dipendente. Si è altresì evidenziato che l’impugnazione della parte principale della sentenza comporta anche l’effetto di impedire il passaggio in giudicato della parte dipendente della stessa sentenza, sino a quando la decisione sull’impugnazione rimanga sub iudice. Si è infine, chiarito come non possa ritenersi che le parti dipendenti della sentenza, sebbene rimaste fluide e non cristallizzate nel giudicato, siano comunque divenute intangibili a causa della maturazione di preclusioni e decadenze processuali, non esistendo nel sistema alcuna disposizione che imponga l’impugnazione autonoma anche delle parti della sentenza esposte alla necessaria caducazione in caso di accoglimento della parte principale. In conclusione, le Sezioni Unite hanno affermato che l’impugnazione della parte principale della sentenza impedisce il passaggio in giudicato anche delle parti da essa dipendenti.
Sulla scorta dei richiamati precedenti può quindi enunciarsi il seguente principio di diritto:
“In materia di sanzioni amministrative, le norme sopravvenute nella pendenza del giudizio di legittimità che dispongano retroattivamente un trattamento sanzionatorio più favorevole devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di cassazione, atteso che la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema d’impugnazione; né tale conclusione contrasta con i principi in materia di rapporto fra jus superveniens e cosa giudicata, perché la statuizione sulla misura della sanzione è dipendente dalla statuizione sulla responsabilità del sanzionato e pertanto, ai sensi del’articolo 336 c.p.c., è destinata ad essere travolta dall’eventuale caducazione di quest’ultima, cosicché essa non può passare in giudicato fino a quando l’accertamento della responsabilità dei sanzionato non sia a propria volta passata in giudicato.”
La rilevazione di ufficio della sopravvenienza di un regime sanzionatorio che in concreto può risultare più favorevole al sanzionato, in relazione all’esito degli apprezzamenti di fatto di cui dell’articolo 67 d.lgs. n. 231/2007, come modificato dal decreto legislativo n. 90/2017, impone la cassazione della sentenza gravata ed il rinvio alla corte territoriale perché valuti se, in relazione all’illecito commesso dal sig. SM, debba per costui ritenersi in concreto più favorevole il regime sanzionatorio di cui al decreto legge n. 143/1991 o quello di cui al decreto legislativo n. 231/2007, come modificato dal decreto legislativo n. 90/2017 e, in questa seconda ipotesi, ridetermini il trattamento sanzionatorio alla stregua della normativa sopravvenuta.
La cassazione con rinvio determina l’assorbimento del terzo motivo di ricorso per cassazione, giacché le spese del giudizio di appello dovranno essere riliquidate in sede di rinvio alla luce dell’esito complessivo della causa.
Le spese del giudizio di cassazione vanno invece compensate, appunto in ragione dell’intervento della sopravvenienza di una nuova normativa.
PQM
La Corte, provvedendo sul ricorso, rigetta i primi due motivi, dichiara assorbito il terzo, cassa la sentenza gravata nella parte concernente la misura della sanzione irrogata e rinvia ad altra sezione della corte di appello di Milano perché valuti se, in relazione all’illecito commesso dal ricorrente, debba per costui ritenersi in concreto più favorevole il regime sanzionatorio di cui al decreto legge n. 143/1991 o quello di cui al decreto legislativo n. 231/2007, come modificato dal decreto legislativo n. 90/2017 e, in questa seconda ipotesi, ridetermini il trattamento sanzionatorio alla stregua della normativa sopravvenuta.
Compensa le spese del giudizio di legittimità.
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