Corte di Cassazione sentenza n. 20978 depositata il 23 agosto 2018
RITENUTO
RB, socio della NL s.r.l. (ora IPG s.r.I.), avendo erogato alla stessa un finanziamento di euro 15.000,00, otteneva un decreto ingiuntivo per il pagamento di tale somma.
La IPG s.r.l. proponeva opposizione al decreto monitorio, deducendo l’insussistenza del credito per il quale era stato emesso. Il Tribunale di Pescara rigettava l’opposizione.
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di L’Aquila, adita dalla società ingiunta, riformava totalmente la decisione di primo grado, revocando il decreto ingiuntivo opposto.
Osservava infatti che, con delibera assembleare del 12 dicembre 2005, era stato richiesto ai soci di effettuare un finanziamento pro quota in favore della società per ripianarne i debiti. Il diritto alla restituzione delle somme oggetto del finanziamento doveva quindi ritenersi compreso nell’oggetto della successiva cessione di quota con cui, in data 3 febbraio 2006, il RB aveva trasferito la propria partecipazione a tale PN, ivi inclusi «ogni diritto, azione e ragione spettante […] nei confronti della società ceduta». Pertanto quest’ultimo, e non più il RB, doveva essere ritenuto titolare del credito (avendone poi il PN effettivamente disposto, rinunziandovi al fine di ripianare i debiti sociali).
Avverso tale sentenza il RB propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi e illustrato da successive memorie. La IPG s.r.l. resiste con controricorso.
CONSIDERATO
1. Anzitutto va esaminata l’eccezione preliminare di improcedibilità del ricorso in quanto notificato presso il difensore che assisteva la IPG s.r.l. in secondo grado, defunto prima della notifica dell’atto.
L’eccezione è infondata, in quanto dalla cartolina di spedizione del ricorso è agile verificare come vi siano stati due invii: uno presso il procuratore defunto (in data 4/7/2016), ed un secondo (in data 11/7/2016) presso la IPG s.r.l. (con cartolina di ricevimento del 15/7/2016).
La morte del procuratore domiciliatario produce l’inefficacia della dichiarazione di elezione di domicilio e la conseguente necessità che l’atto di impugnazione sia notificato, ai sensi dell’art. 330, terzo comma, cod. proc. civ., presso la parte personalmente (Sez. 3, Sentenza n. 9543 del 22/04/2010 – Rv. 612438).
Consegue che, nel caso di specie, la notificazione è stata correttamente effettuata nei confronti della IPG s.r.l.
2. Sempre in via preliminare la controricorrente sostiene che il ricorso sarebbe stato in ogni caso notificato dopo la scadenza del termine di cui all’art. 327 cod. proc. civ. Anche questa eccezione è infondata. Infatti, poiché il giudizio ha avuto inizio in data anteriore al 4 luglio 2009, allo stesso non si applica la modifica dell’art. 327 cod. proc. civ. disposta dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha ridotto il termine di decadenza dall’impugnazione da un anno a sei mesi. Conseguentemente, considerando che la sentenza d’appello è stata pubblicata il 25 giugno 2015 e calcolando anche la sospensione feriale, il ricorso poteva essere proposto entro il 26 luglio 2016. Essendo la notifica dell’11 luglio 2016, il ricorso è certamente tempestivo.
3. Passando all’esame del ricorso, con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
In particolare, il ricorrente censura l’interpretazione fatta dalla Corte d’appello dell’oggetto del contratto di cessione di quote del 3 febbraio 2006. In assenza di specifiche pattuizioni, il diritto del socio alla restituzione delle somme versate in favore della società fosse non poteva essere compreso nell’oggetto della cessione a PN. La corte d’appello, stante la chiarezza del testo contrattuale, non avrebbe dovuto fare applicazione di altri criteri ermeneutici.Ma, quand’anche si fosse dovuto applicare il criterio posto dall’art. 1363 cod. civ., la corte di merito avrebbe comunque sbagliato nel ritenere che l’articolo 1 dell’atto di cessione, relativo all’oggetto del contratto, dovesse essere letto in coordinamento con l’articolo 2 dello stesso atto, che prevedeva le prerogative del socio, in quanto fra i diritti sociali ivi elencati non poteva comprendersi anche il credito nei confronti della società, che riguarda invece un diverso rapporto, quello di finanziamento.
4. Con il secondo motivo si deduce la violazione delle medesime disposizioni di legge in tema di interpretazione del contratto, questa volta in relazione al collegamento, operato dalla corte d’appello, fra il contenuto dell’atto di cessione del 3 febbraio 2006 e la delibera assembleare del 12 dicembre 2005.
Il ricorrente contesta, anzitutto, che da quella delibera potesse ricavarsi che il versamento effettuato dai soci fosse in quota capitale, anziché con natura di mero finanziamento. In secondo luogo, non sarebbe neppure vero dare né che tutti i soci avessero deciso di erogare un finanziamento alla società, né che i finanziamenti fossero proporzionali alle rispettive quote, come invece affermato dalla corte d’appello.
Il finanziamento effettuato dal RB, pertanto, non troverebbe la propria fonte in tale delibera assembleare, come erroneamente affermato nella sentenza impugnata, originando invece da un contratto di finanziamento estraneo ai rapporti societari.
Nell’ambito del medesimo motivo, il ricorrente si duole anche della circostanza che la corte d’appello ha interpretato l’atto di cessione intercorso fra il RB e il PN anche considerando quanto previsto in un’altra coeva cessione di quote della medesima società, intervenuta fra la S. s.p.a. e il medesimo PN. A tesi del ricorrente, tale ricostruzione avrebbe comportato la violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, do vendo il giudice interpretare le clausole le une per mezzo delle altre del medesimo contratto, mentre nel caso concreto si sarebbe fatto riferimento alle pattuizioni presenti in un altro contratto, stipulato fra parti diverse, benché materialmente compreso in un unico documento.
5. I due motivi sono inammissibili per difetto del requisito di specificità richiesto dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. Infatti, nel primo motivo si fa questione dell’interpretazione letterale degli articoli 1 e 2 del contratto di cessione di quota, ma viene riportato integralmente solo il testo della prima clausola (quella sulla quale si fonda principalmente la difesa del ricorrente), mentre della seconda (che costituisce oggetto dell’approfondimento interpretativo effettuato dalla corte d’appello) ne è riferito solamente un breve stralcio.
Nel secondo motivo, in cui si discute della portata della deliberazione assembleare del 12 dicembre 2005, manca del tutto il riferimento al contenuto testuale della stessa, della quale sono citate solamente poche frasi incomplete.
Tali atti non sono neppure allegati al ricorso, né è stata fornita alcuna indicazione idonea a rinvenire gli stessi nel fascicolo di merito.
Queste carenze determinano l’inammissibilità dei motivi, tanto più ove si consideri che gli stessi vertono proprio su questioni di interpretazione testuale degli atti mancanti.
Infatti, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (Sez. 3, Sentenza n. 8569 del 09/04/2013, Rv. 625839; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015, Rv. 636120).
Né basta a colmare il difetto di autosufficienza la generica e indistinta allegazione dell’intero fascicolo di parte del grado di appello, di cui non viene specificato il contenuto, poiché, qualora l’atto processuale su cui si fonda il ricorso è contenuto nel fascicolo di parte o in quello d’ufficio, vi è, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità del ricorso, dei dati necessari al reperimento degli stessi (Sez. U, Sentenza n. 22726 del 03/11/2011, Rv. 619317), ossia dell’indicazione del “luogo” esatto del fascicolo in cui l’atto è rinvenibile.
6. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia il difetto di motivazione della sentenza impugnata, sub specie di violazione dell’art.132 cod. proc. civ. La corte d’appello, infatti, avrebbe totalmente omesso di prendere posizione sulla natura del versamento effettuato dal RB, affermando che esso costituisse un finanziamento (anziché un versamento in conto capitale) con motivazione meramente apparente.
7. Anche questo motivo è inammissibile.
Difatti, la nuova formulazione dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ. (disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, e applicabile alle sentenze pubblicate dopo l’11 settembre 2012) non contempla più, fra i motivi di ricorso per cassazione, il vizio di motivazione, bensì lo «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».
La citata disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché è denunciabile in cassazione – ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, in relazione all’art. 132 cod. proc. civ. – solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Nella specie non ricorre una tale carenza, neppure in relazione al punto specificatamente denunciato dal ricorrente. La corte d’appello, infatti, ha ampiamente motivato sulla natura del versamento disposto dalla deliberazione assembleare del 12 dicembre 2005, mentre l’asserita difformità del contenuto di tale delibera rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito non rientra fra i vizi denunciabili per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ.
Non sussiste la denunciata carenza assoluta di motivazione neppure in relazione all’esatta qualificazione della natura del versamento, questione che la corte territoriale non omette di esaminare, bensì dichiara espressamente assorbita dalla sicura inclusione del credito del RB nei confronti della società fra le situazioni giuridiche ‘attive traferite al PN con l’atto di cessione di quota.
Allo stesso modo, non ha alcun rilievo, al fine del rispetto della soglia “minima costituzionale” di motivazione, l’omesso esame della circostanza che la successiva rinunzia del PN al credito nei confronti della società cedutogli dal RB dimostrerebbe che trattasi di finanziamento e non di versamento in conto capitale.
8. Sebbene il ricorso risulti, in conclusione, inammissibile, è utile aggiungere qualche altra considerazione che riguarda i tre motivi di censura unitariamente esaminati.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che l’erogazione di somme che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento, destinato ad essere iscritto non tra i debiti, ma a confluire in apposita riserva “in conto capitale” (o altre simili denominazioni) (Sez. 1, Sentenza n. 24861 del 09/12/2015, Rv. 637899).
La qualificazione, nell’uno o nell’altro senso, dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, e la relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, deve trarsi dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi (Sez. 1, Sentenza n. 7471 del 23/03/2017, Rv. 644825).
In applicazione di tali princìpi, correttamente la corte d’appello ha esteso la propria indagine alla fonte del versamento effettuato dal RB, ravvisata nella più volte citata delibera assembleare del 12 dicembre 2005. Ha rilevato che tale versamento era stato sollecitato proprio dal RB, che all’epoca era amministratore delegato della società, in considerazione della «tensione finanziaria in essere», e che, pertanto, i versamenti, eseguiti dai soci in proporzione alle rispettive partecipazioni, dovevano intendersi come effettuati in conto capitale.
I versamenti in conto capitale, diversamente dai finanziamenti erogati dai soci, non danno luogo all’obbligo di restituzione l’importo ricevuto, non trattandosi di somme date a titolo di mutuo, ma di capitale di rischio. Tali somme, pertanto, saranno utilizzate per ripianare le perdite della società, nel caso di abbattimento del capitale o per la sottoscrizione di nuovo capitale e, solo qualora siano stati pagati tutti i debiti, potranno essere restituite ai soci.
Le censure relative all’effettivo contenuto della deliberazione assembleare sono, come si è già detto, sprovviste di ogni riscontro fattuale, dal momento che – a pena di inammissibilità del secondo motivo – il ricorrente ha omesso la produzione dell’atto.
Il riferimento al contenuto della cessione di quota intervenuta, con il medesimo atto, fra la S. s.p.a. e il PN non costituisce una vera e propria ratio decidendi, costituendo al più una argomentazione rafforzativa delle conclusioni cui la corte d’appello era già giunta per altra via.
Pertanto, l’inclusione del credito vantato dal RB nei confronti della NL s.r.l. nell’ambito dei diritti inerenti alla quota sociale ceduta al PN in data 3 febbraio 2006, si sottrae ad ogni censura di legittimità.
9. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma primo, cod. proc. civ., nella misura indicata nel dispositivo;
Sussistono, altresì, i presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, sicché va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00 e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
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