CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 21104 depositata il 24 agosto 2018
RITENUTO CHE:
1. con sentenza n. 85/45/10, depositata il 6 ottobre 2010, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale di Milano accoglieva rappello proposto dalla società BA s.r.l. avverso la sentenza n. 97/10/08 della Commissione Tributaria Provinciale di Como, con condanna dell’Ufficio al pagamento delle spese;
2. il giudizio aveva ad oggetto l’impugnazione di due avvisi di accertamento – per Irpeg, Irap, Ires ed Iva, e connesse sanzioni, relativi alle annualità 2003 e 2004, rispettivamente per un ammontare complessivo di € 34.648,75 ed € 42.781,25, oltre interessi legali, notificati in data 12-7-2007, scaturiti da un P.V.C. redatto dall’Agenzia delle Dogane, che a sua volta aveva origine da un procedimento penale, definito quanto alla posizione del legale rappresentante della società ricorrente con sentenza ex art. 444 c.p.p. – con cui era stata contestata alla società contribuente la partecipazione, in qualità di cessionaria italiana, ad un meccanismo fraudolento finalizzato all’evasione dell’Iva, secondo lo schema della triangolazione cd. frode carosello;
3. il giudice di appello, in riforma della sentenza della CTP di Como che aveva rigettato il ricorso di primo grado ritenendo che la prova del pagamento non fosse sufficiente ai fini della regolarità delle operazioni, aveva annullato i suddetti avvisi sul presupposto che l’Agenzia delle Entrate non avesse offerto la prova che la contribuente avesse partecipato e/o organizzato la presunta evasione;
4. avverso la sentenza di appello, l’Ufficio ha proposto ricorso per cassazione, notificato 1’11 ottobre 2011, affidato ad un unico motivo; la società contribuente ha resistito con controricorso e depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.
CONSIDERATO CHE:
1. con un unico motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate censura la sentenza impugnata, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 17, 19 e 21 del d.P.R. n. 633 del 1972, e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. , laddove, in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti, ha ritenuto rilevante la mancata prova della partecipazione consapevole della contribuente alla frode carosello, e non sufficiente ad escludere la detrazione di imposta, che la stessa avrebbe potuto rendersi conto, usando l’ordinaria diligenza, di partecipare ad un’operazione fraudolenta;
2. nello specificare il motivo, l’Ufficio ricorrente lamenta che il giudice di appello avrebbe posto a suo carico l’onere della prova non solo della falsità ideologica delle fatture, ma anche quella della conoscenza dell’illecito da parte del soggetto accertato, incombendo al contrario sul contribuente la prova della buona fede, e ritenuto sufficiente, ai fini del riconoscimento del diritto alla detrazione, la prova del pagamento dell’IVA e della regolare contabilizzazione delle fatture;
3. con la memoria la società contribuente deduce il passaggio in giudicato del punto della sentenza in cui sarebbe stata accertata l’assenza di falsità delle fatture in contestazione.
OSSERVA CHE:
1. Il motivo è fondato.
2. Preliminarmente rileva questa Corte che con gli avvisi di accertamento impugnati non è stata contestata l’inesistenza oggettiva delle operazioni bensì la non riferibilità delle stesse al soggetto formalmente emittente, per cui va certamente escluso che vi possa essere stato il passaggio in giudicato, con conseguente effetto preclusivo, di una questione che non costituiva oggetto di giudizio; in realtà, l’affermazione di cui al punto 3 della sentenza impugnata, non può che riferirsi alla falsità delle fatture in relazione al profilo contestato, che è esclusivamente quello soggettivo.
3. La tematica della detraibilità dell’Iva in caso di fatturazione per operazioni inesistenti, o per operazioni comunque inserite in un meccanismo negoziale finalizzato alla frode fiscale, è questione oggetto di numerose decisioni di questa Corte, che hanno investito principalmente – anche alla luce dei ripetuti interventi della Corte di Giustizia in materia – gli aspetti relativi agli elementi caratterizzanti la frode ed al riparto degli onere probatori sugli stessi tra fisco e contribuente.
Come esaustivamente ricostruito da questa Corte con la sentenza n. 24426 del 30/10/2013, e da ultimo con la sentenza n. 9851 del 20/04/2018, seppure l’esistenza di una fattura che sia conforme ai requisiti di forma e contenuto richiesti dalla vigente disciplina (art. 21 del d.P.R. n. 633 del 1972 e, con riguardo al diritto europeo, art. 22, par. 3, della Sesta direttiva) fa presumere la verità di quanto ivi rappresentato, sicché costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva (v. tra le tante Corte di Giustizia 6 settembre 2012, Tóth, C-324/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14; Corte di Giustizia 19 ottobre 2017, SC Paper Consult, C-101/16), la falsità della fattura è comunque potenzialmente idonea ad escludere la riconoscibilità del diritto di detrazione, tendenzialmente in due possibili situazioni:
a) le operazioni commerciali non sono (in tutto o in parte) mai state poste in essere, ossia sono oggettivamente inesistenti e la fattura è mera espressione cartolare di eventi non avvenuti.
b) le operazioni sono state rese al destinatario, che le ha effettivamente ricevute, da un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione rappresentata nella fattura (operazioni soggettivamente inesistenti).
In questa seconda ipotesi l’Iva non è comunque detraibile perché versata ad un soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta; non possono infatti entrare nel conteggio del dare ed avere ai fini Iva fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, in quanto riguardano operazioni, per quanto lo riguarda, inesistenti, senza che rilevi che le stesse fatture costituiscono la “copertura” di prestazioni acquisite da altri soggetti (v. Cass. n. 20060 del 07/10/2015).
Entrambe queste modalità si inseriscono, in genere, in meccanismi frodatori definiti come frodi carosello, caratterizzati da una pluralità di scambi e passaggi fittizi ed imperniati sul ruolo delle cd. cartiere, cioè di mere “scatole vuote”, il cui scopo è quello di emettere false fatture senza essere preposte ad alcuna reale attività economica, cui si aggiungono, nei meccanismi più complessi, anche le società cd. “filtro”, che svolgono invece effettiva attività di scambio o intermediazione, e la cui funzione è solo quella di rendere più difficile l’individuazione degli autori dell’evasione.
3.1. Operando in materia il principio di neutralità dell’Iva, il diniego del diritto di detrazione costituisce necessariamente un’eccezione, per cui incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettino le condizioni, oggettive o soggettive, per la detrazione. Una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente.
3.2. In caso di operazioni soggettivamente inesistenti, che costituiscono l’oggetto del presente giudizio, l’Amministrazione è tenuta a provare due circostanze costitutive dell’evasione fiscale :
a) l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni, e quindi che il soggetto formale emittente non è quello reale ma ha natura di interposto o “cartiera”;
b) che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione Iva, senza che sia necessaria la prova della partecipazione all’evasione.
Quanto all’elemento sub b), rileva che, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia, la circostanza che l’operazione si inserisca in una fattispecie fraudolenta di evasione dell’Iva non comporta automaticamente la perdita, per il cessionario, del diritto di detrazione, ma per una esigenza di tutela della buona fede del soggetto passivo, l’Amministrazione tributaria è tenuta a provare, sia pure anche solo in base a presunzioni, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, con espressione efficace, “a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente” (Corte di Giustizia 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C-277/14, par. 50).
3.3. Quanto al “tipo” di prova, essa può ritenersi raggiunta se l’Amministrazione fornisce attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova “certa” e incontrovertibile di ogni operazione e di ogni dettaglio di esse.
L’Amministrazione può quindi assolvere al suo onere probatorio anche mediante presunzioni, come prevede per l’Iva l’art. 54, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 (analogamente per le imposte dirette: v. art. 39, primo comma, lett. d, d.P.R. n. 600 del 1973) e mediante elementi indiziari (v. Cass. n. 14237 del 07/06/2017; Cass. n. 20059 del 24/09/2014; Cass. n. 25778 del 05/12/2014; Cass. n. 10414 del 12/05/2011; nello stesso senso Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C-439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahagében e David, C-80/11 e C- 142/11).
Quanto alla prova dell’elemento soggettivo del cessionario/committente non è invece ipotizzabile un automatismo probatorio, ma in aderenza ai principi affermati dalla Corte di Giustizia (22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14), sarà necessario tenere conto della concreta vicenda e delle circostanze di volta in volta presenti, spettando all’Amministrazione dimostrare, ed al giudice verificare, “alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata per fondare il suo diritto alla detrazione si iscriveva in un’evasione dell’Iva”.
Questa Corte ha così ritenuto che in alcuni casi “l’onere probatorio dell’amministrazione finisce con l’appesantirsi, in quanto, di norma, non è possibile esigere che il cessionario/committente, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’Iva, o che disponga dei relativi documenti” (Cass. n. 24490 del 02/12/2015; v. successivamente anche Cass. n. 17290 del 13 luglio 2017), rimarcando, tuttavia, che continua a prospettarsi un obbligo di verifica in capo al cessionario a fronte di indizi che gli consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione.
3.4. Escluso ogni automatismo e l’utilizzo di criteri generali predeterminati, l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va dunque ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obbiettivi e specifici, che spetta all’Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione.
Come già sottolineato da Cass. n. 24490 del 2015, se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate ovvero tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo.
L’onere probatorio incombente sul destinatario può invece investire sia l’asserito carattere di anomalia degli elementi posti in evidenza dal Fisco, sia l’attività conoscitiva preventiva eventualmente posta in essere da cui emergeva, in ordine all’effettività ed operatività dell’impresa interposta, un esito tranquillizzante, o che non potessero essere esperibili, né tantomeno esigibili, accertamenti più incisivi.
Priva di rilievo è invece sia la prova sulla regolarità formale delle scritture e sull’effettività dei pagamenti, sia quella sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio perché i prezzi di vendita erano conformi o superiori alla media di mercato, trattandosi le prime di circostanze già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perché riferita ad un dato di fatto esterno alla fattispecie tipica ed inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode (v. Cass. n. 20059 del 2014;Cass. n. 428 del 14/01/2015; Cass. n. 29002 del 05/12/2017; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14).
4. Tanto premesso, va dunque data continuità ai seguenti principi di diritto: “in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta” “la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente” “incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”.
5. Nella specie, la CTR a fondamento della sua decisione ha posto la circostanza che l’Ufficio non avesse dimostrato con certezza che il contribuente ave Atet partecipato e/o organizzato la presunta evasione, anche in considerazione del fatto che le contrattazioni contestate costituivano in percentuale lo 0.056% rispetto al totale dell’evasione imputata al cedente.
5.1. Il giudice d’appello, dunque, non si è attenuto ai principi sopra esposti poiché ha ritenuto come elemento integrante la condotta, rilevante ai fini della prova della consapevolezza della natura fraudolenta dell’operazione, la partecipazione e/o organizzazione della frode carosello e non sufficiente, invece, che il contribuente, anche in relazione alla qualità professionale ricoperta e alle concrete modalità di scelta e realizzazione dell’operazione commerciale, “sapeva o avrebbe dovuto sapere con l’uso dell’ordinaria diligenza” che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta; circostanza questa, che se dimostrata dall’Ufficio, è idonea a determinare una inversione dell’onere della prova contraria in capo al contribuente.
6. In conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza cassata con rinvio, anche per le spese, alla CTR competente in diversa composizione, che provvederà al l riesame tenuto conto dei principi
di cui al punto 4).
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla CTR della Lombardia, in diversa composizione.
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