Corte di Cassazione sentenza n. 21487 depositata il 7 luglio 2022

utili extrabilancio – la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili extrabilancio, salva la prova contraria – obbligo di motivazione anche per relationem degli atti impositivi notificati ai soci – la considerazione della compagine sociale (con le quote di partecipazione dei singoli consociati) al 31 dicembre del periodo d’imposta – mancato esame di un motivo di gravame

FATTI DI CAUSA

1. In conseguenza del disconoscimento di costi per operazioni inesistenti, l’Agenzia delle Entrate accertava a carico delle società G.M. p.A. e T. S.p.A. per l’anno d’imposta 2007 un maggior reddito d’impresa, definito nella sua entità a mezzo di procedimento di adesione con le contribuenti.

Successivamente, l’Amministrazione finanziaria determinava, per la medesima annualità d’imposta, un maggior reddito di capitale imponibile a fini IRPEF in capo a D.G., quale titolare di quote di partecipazioni pari all’87,5% nelle predette società a ristretta base azionaria, considerando il reddito delle società presuntivamente distribuito pro quota al socio quale utile extracontabile.

2. L’impugnativa giurisdizionale di D.G. avverso il relativo avviso di accertamento veniva disattesa in ambedue i gradi di merito. 

3. Ricorre per cassazione il contribuente, articolando undici motivi; resiste, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate.

4. Fissato per l’udienza pubblica dell’l1 febbraio 2022, il ricorso è stato in pari data trattato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis, del d.l. n. 137 del 2020, convertito dalla legge n. 176 del 2020, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non essendo stata formulata richiesta di discussione orale.

5. Entro il quindicesimo giorno precedente l’udienza, il P.G. ha formulato conclusioni motivate. 

6. Parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa. 

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, per violazione degli 36 e 61 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dell’art. 132, secondo comma, num. 4, cod. proc. civ., e dell’art. 118 disp. att:. cod. proc. civ., si denuncia nullità della sentenza per apparenza della motivazione, in quanto consistente nel mero rinvio alla pronuncia di prime cure, senza esame delle critiche mosse dall’appellante.

1.1 La doglianza è manifestamente infondata. 

La lettura della gravata sentenza evidenzia: l’individuazione dei presupposti e dell’oggetto della pretesa recuperata a tassazione con l’avviso contestato; l’esposizione delle questioni controverse, del contenuto e delle ragioni della pronuncia di primo grado; l’accurata ed analitica illustrazione dei motivi di impugnazione e delle deduzioni difensive dell’amministrazione appellata.

Ad una così corposa narrazione dello svolgimento della vicenda litigiosa fa seguito una parte motiva connotata da eguale diffusa argomentazione, tutta orientata a dare conto del rigetto dell’appello: essa, infatti, reca puntuali considerazioni sulla motivazione dell’atto impositivo impugnato, sulla avvenuta definitività dell’accertamento nei confronti delle società partecipate, sulla natura a ristretta base partecipativa delle stesse, sulla operatività nel caso della presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, sull’inapplicabilità delle disposizioni in tema di scudo fiscale.

È di tutta evidenza come un percorso argomentativo del genere, recante una risposta (a volte più articolata, a volte più concisa) alle censure sollevate con il gravame, sia ben lungi dall’integrare una «motivazione apparente», la quale ricorre invece quando il giudice ometta di esporre i motivi, in fatto ed in diritto, della decisione, di rendere intellegibile l’iter logico seguito per pervenire al dictum reso, così impedendo la praticabilità di un controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento (sulla nozione di «motivazione apparente» cfr., tra le tantissime, Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. U., 22/09/2014, n. 19881; Cass., Sez. U., :21/06/2016, n. 16599; Cass., Sez. U., 03/11/2016, n. .22232; Cass. 25/09/2018, n. 22598; Cass. 23/05/2019, n. 13977).

Né tampoco si configura una motivazione «per relationem»: il giudice di appello non ha operato un rinvio adesivo ed acritico alla pronuncia di primo grado, ma ha chiaramente espresso un proprio convincimento, motivato in maniera ampiamente autosufficiente, fondato su ragioni conducenti alla conferma della sentenza impugnata attraverso la valutazione di infondatezza delle allegazioni difensive e delle contestazioni sollevate con il gravame (sulla motivazione «per relationem», cfr. Cass. 23/07/2020, n. 15757; Cass. 05/08/2019, n. 20883; Cass. 05/11/2018, n. 28139; Cass. 05/10/2018, n. 24452; Cass. 21/09/2017, n. 22022).

2. Anche il secondo mezzo lamenta nullità della sentenza per apparenza della motivazione.

In dettaglio, l’impugnante deduce di aver eccepito l’illegittimità dell’avviso di accertamento  in quanto motivato per relationem ai p.v.c. notificati alle società, operanti, a loro volta, rinvio ad atti (files rinvenuti negli hard disk delle società ecl altri documenti raccolti dalla Guardia di Finanza) non allegati all’avviso, non riprodotti nello stesso e non conosciuti dal contribuente: sul punto il giudice di prossimità avrebbe statuito con motivazione meramente apparente.

2.1 La doglianza è destituita di fondamento. 

Puntualmente replicando al sollevato motivo di appello, il giudice territoriale ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento poiché «di natura consequenziale agli atti di definizione dei p.v.c., e quindi motivato, in quanto questi atti erano ben conosciuti alla parte»: argomentazione sintetica ma chiara ed adeguata, logicamente incompatibile con la (e quindi di implicita reiezione della) doglianza dell’appellante, sì da escludere non soltanto la denunciata anomalia motivazionale ma anche un vizio di omessa pronuncia.

Soltanto per dovere nomofilattico, pare opportuno precisare come l’eccezione del contribuente non era comunque conforme a diritto, atteso che (con ciò integrandosi la trama giustificativa della sentenza contestata) l’obbligo di motivazione degli atti impositivi notificati ai soci, come disciplinato dall’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, è soddisfatto anche mediante rinvio per relationem alla motivazione dell’avviso di accertamento riguardante i maggiori redditi percepiti dalla società a responsabilità limitata, ancorché solo a quest’ultima notificato, in quanto il socio ha, ai sensi dell’art. 2476 cod. civ., il potere di consultare la documentazione relativa alla società e, quindi, di prendere visione dell’accertamento presupposto e dei suoi documenti giustificativi (da ultimo, in tal senso, v. Cass. 02/10/2020, n. 21126; Cass. 18/02/2020, n. 3980).

3. Il terzo motivo prospetta violazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 5-bis del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218: ad avviso del ricorrente, la definizione, con atto di adesione, dei p.v.c. da parte della società non costituisce riconoscimento o accertamento della pretesa dell’Amministrazione finanziaria e, dunque, non offre prova della esistenza di maggiori utili presuntivamente distribuiti ai soci.

La doglianza non supera lo scrutinio di ammissibilità ex art. 360 bis, primo comma, num. 1, cod. proc. civ.: la sentenza impugnata si colloca nel solco di un consolidato orientamento di questa Corte, meramente contrastato, senza alcun rilievo critico, dall’impugnante.

È infatti ius receptum che l’accertamento del maggior reddito nei confronti di società di capitali a ristretta base partecipativa legittima, anche nell’ipotesi di accertamento con adesione, la presunzione di distribuzione degli utili tra i soci, in quanto la stessa ha origine nella partecipazione e pertanto prescinde dalle modalità di accertamento, ferma restando la possibilità per i soci di fornire prova contraria rispetto alla pretesa dell’Amministrazione finanziaria dimostrando che i maggiori ricavi dell’ente sono stati accantonati o reinvestiti (ex plurimis, Cass. 20/12/2018, n. 32959; Cass. 07/12/2017, n. 29412).

Ed invero, l’imputazione ai soci del reddito della società ha origine dalla partecipazione e quindi prescinde dall’eventuale natura adesiva dell’accertamento nei confronti dell’ente (vedi Cass. 05/02/2009, n. 2783; Cass. 04/11/2008, n. 26476; Cass. 08/07/2005, n. 14418);

accertato con adesione o in altro modo, il maggior reddito di una società a ristretta base partecipativa si presume distribuito pro quota ai soci in forma di utili extracontabili, poiché la ristrettezza dell’assetto societario implica normalmente reciproco controllo e marcata solidarietà tra i soci (così Cass. 24/01/2019, n. 1947; Cass. 29/07/2016, n. 15824; Cass. 28/11/2014, n. 25271).

4. Il quarto motivo eccepisce nullità della sentenza per apparenza della motivazione, in quanto la C.T.R. non avrebbe «spiegato le ragioni per cui ha ritenuto che il contribuente non avesse provato che gli asseriti maggiori utili accertati in capo alle società non fossero mai stati distribuiti e fossero invece rimasti all’interno delle società».

4.1 La contestazione è infondata. 

Sul punto, la (diffusa) motivazione della gravata decisione si appalesa conforme al monolitico indirizzo ermeneutico di questa Corte, secondo cui in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria, ove siano accertati utili non contabilizzati, opera la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili stessi, salva la prova contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti; con l’ulteriore specificazione che siffatta presunzione non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, salva in ogni caso la prova contraria, gravante sul contribuente, del mancato conseguimento o della diversa destinazione degli utili (tra le tantissime, cfr. Cass. 29/11/2021, n. 37193; Cass. 24/12/2020, n. 29503; Cass. 11/08/2020, n. 16913; Cass. 02/07/2020, n. 13550; Cass. 19/12/2019, n. 33976; Cass. 24/01/2019,  n.  1947;  Cass.  20/12/2018,  n.  32959;  Cass. 22/11/2017, n. 27778; Cass. 18/10/2017, n. 24534).

A fronte di ciò, l’argomentazione sviluppata dal ricorrente richiede al giudice di legittimità una inammissibile nuova valutazione delle emergenze istruttorie (segnatamente, dei contratti YES e del decreto di archiviazione del G.I.P.) cui ascrive efficacia di prova contraria rispetto alla presunzione di distribuzione degli utili extracontabili.

5. Con il quinto mezzo si rileva nuovamente nullità della sentenza per apparenza della motivazione, stavolta per non aver la C.T.R. «spiegato le ragioni per cui ha ritenuto che il contribuente non avesse provato che gli asseriti maggiori utili accertati in capo alle società non fossero stati distribuiti al sig. Giusti nel 2007».

Sulla premessa che la rettifica dei redditi di una società a ristretta base partecipativa per un dato periodo d’imposta importa presunzione di distribuzione degli utili ai soci nello stesso periodo, salva la prova dell’imputazione o della distribuzione ad un’annualità differente, il ricorrente assume che a fronte di una prova siffatta da lui fornita (mediante i contratti, le fatture ed i bonifici relativi ai rapporti intercorsi tra le società partecipate dal Giusti e società estere) il giudice di prossimità avrebbe motivato in manierai apparente ed irriducibilmente contraddittoria.

5.1 Il motivo è infondato. 

In punto di diritto, va ribadito che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base familiare, attesa la mancanza – trattandosi di utili occulti – di una deliberazione ufficiale di approvazione del bilancio (soltanto dopo la quale può essere effettuata la distribuzione degli utili dichiarati), la distribuzione ai soci degli utili extracontabili si presume avvenuta nello stesso periodo d’imposta in cui gli utili sono stati conseguiti (ex multis, cfr. Cass. 18/12/2015, n. 25468; Cass. 26/03/2007, n. 7260; Cass. 15/05/2003, n. 7564).

Tanto precisato, sulla questione in disamina la motivazione della sentenza impugnata non è né apparente (nel senso innanzi precisato) né contraddittoria (ferma, peraltro, la circoscritta rilevanza delle anomalie motivazionali alla stregua del disposto dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., come novellato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis alla fattispecie).

Con il passaggio argomentativo sul quale si appuntano le censure dell’impugnante («Occorrerebbe dimostrare che […] non vi sono stati movimenti finanziari nel periodo interessato alla distribuzione degli utili, ma solo nell’anno seguente») la C.T.R., ben lungi dal negare la distribuzione di utili nell’anno 2007, ha invece manifestato un inequivoco apprezzamento in ordine alla inidoneità degli elementi asseverativi acquisiti in giudizio a fornire la prova contraria alla distribuzione degli utili nell’anno di imposta oggetto di accertamento a carico delle società partecipate.

E, al fondo, l’articolato ragionamento esposto con il motivo de quo si risolve nel sollecitare un (inammissibile in sede di legittimità) nuovo apprezzamento sulla efficacia dimostrativa di una serie di documenti (fatture, contratti, bonifici) finalizzata ad una diversa ricostruzione dell’andamento fattuale della vicenda controversa.

6. Con il sesto ed il settimo motivo, ambedue ascritti a violazione dell’art. 47 del d.P.R. 22 dicembre 1986, 917, e del principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost., parte ricorrente, con argomenti quasi integralmente sovrapponibili, sostiene che la presunzione di distribuzione ha ad oggetto i maggiori utili accertati in capo alla società a ristretta base azionaria, non i maggiori redditi, per cui dall’importo presuntivamente distribuito devono essere dedotti tutti i costi, anche quelli fiscalmente indeducibili, fra cui le maggiori imposte dovute dalla società in virtù dell’accertamento (sesto motivo) e le fee versate dalle società partecipate a società estere per il contratto di risk management (settimo motivo).

L’erronea statuizione del giudice di prossimità risiederebbe allora nell’aver confermato la legittimità dell’accertamento con cui l’A.F. ha recuperato a tassazione in capo al socio anche una ricchezza (le imposte versate a seguito della definizione dei p.v.c. e le fee versate a società estere) mai conseguita dalla società, quindi non integrante un utile suscettibile di distribuzione.

6.1 Le censure sono infondate. 

Basti, al riguardo, richiamare il principio di diritto reiteratamente enunciato da questa Corte (cui si intende dare convinta continuità) per cui nel caso di società a ristretta base non opera la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extracontabili ex art. 47 del d.P.R. n. 917 del 1986 in quanto, essendo conseguiti «in nero» e non essendo mai pervenuti nella contabilità societaria, non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione che non v’è stata, non avendoli la società mai dichiarati (da ultimo, Cass. 19/11/2020, n. 26317; Cass. 23/12/2019, n. 34282).

7. Con l’ottavo motivo, si deduce violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e nullità della sentenza per omessa pronuncia circa la inapplicabilitc! delle sanzioni, invocata dal contribuente in virtù del principio di specialità sancito dall’art. 19 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 e regolante l’ipotesi in cui il medesimo fatto illecito sia punito tanto da una disposizione di natura penale quanto da una disposizione di tipo amministrativo o tributario.

7.1 L’esame degli atti di causa (fedelmente riprodotti nel ricorso introduttivo) documenta la veridicità dell’assunto posto a suffragio del motivo: con l’originario atto introduttivo della lite e con il successivo atto di appello il contribuente ha richiesto l’esonero dall’operatività del regime sanzionatorio per effetto del principio di specialità ed effettivamente la gravata sentenza non si è espressa sul tema.

Dalla descritta circostanza non discende, tuttavia l’accoglimento del motivo in parola e l’invocata cassazione della pronuncia.

Il mancato esame di un motivo di gravame ascrivibile ad un error in procedendo del giudice di merito giustifica l’annullamento, da parte della Suprema Corte, della sentenza impugnata a condizione che le questioni di fatto o di diritto, dedotte con il motivo non esaminato, siano decisive; qualora invece il motivo non esaminato esponga questioni in punto di diritto infondate ed esse non richiedano ulteriori accertamenti di fatto, la Corte di Cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, ha il potere di correggere la motivazione della decisione ex art. 384 cod. proc. civ. con l’enunciazione delle ragioni che giustificano il provvedimento gravato, apparendo palese l’incongruità di una rimessione della causa nella fase di merito al fine di dichiarare l’infondatezza del motivo erroneamente non vagliato.

Siffatto principio di diritto, già consolidato in un risalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità (Cass. 18/08/2006, n. 18190; Cass. 12/04/2006, n. 8561; Cass. 18/02/2005, n. 3388), è stato avvalorato dalla estensione (con la modifica dell’art. 384 cod. proc. civ. operata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) delle ipotesi di decisione nel merito della Suprema Corte anche in caso di violazione di norme processuali e dalla costituzionalizzazione (nell’art. 111, secondo comma, Cost.) dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, quali impongono interpretazioni che limitino, anche attraverso l’opera decisoria della Suprema Corte, i tempi di svolgimento del processo (e, quindi, a fortiori il dispendio di un grado di giudizio) senza sacrificio del diritto di azione e difesa (tra le tante, cfr. Cass. 01/02/2010, n. 2313; Cass., Sez. U., 02/02/2017, n. 2731; Cass. 28/06/2017, n. 16171; Cass. 19/04/2018, n. 9693).

7.2 Tanto debitamente precisato, la asserita inapplicabilità delle sanzioni irrogate con l’atto impositivo non è condivisibile.

Difetta invero il presupposto fondamentale per l’operatività del principio di specialità ex art. 19 del d.lgs. n. 74 del 2000 (qui invocato per escludere la applicabilità delle sanzioni), ovvero l’identità del fatto punito dalla disposizione penale e dalla disposizione amministrativa.

La ripresa a tassazione operata con l’avviso di accertamento esito del procedimento amministrativo tributario origina dalla mancata esposizione nella prescritta dichiarazione dei redditi di capitale percepiti da D.G., nella qualità di partecipe clella compagine delle società G.M. S.p.A. e T. S.p.A., e sanziona dunque la condotta del contribuente dichiarante in maniera infedele.

Il procedimento penale, definito con sentenza di patteggiamento, scaturisce dal contegno serbato da D.G. quale amministratore delegato e legale rappresentante delle predette società, integrante la fattispecie criminosa di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, ed è diretto a punire la dichiarazione fraudolenta, cioè a dire il contegno del contribuente che, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi.

Disomogeneità, dunque, sotto l’aspetto dell’elemento materiale della condotta e della qualità soggettiva dell’autore della stessa.

8. Il nono motivo prospetta nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla doglianza relativa all’erronea determinazione della percentuale di partecipazione di D.G. nelle società.

Si assume, in sintesi, che, per effetto di variazioni intervenute nella compagine societaria nel corso della annualità di imposta, la misura della partecipazione, rapportando le percentuali di titolarità

delle azioni ai 365 giorni di durata dell’anno, andava quantificata nel 73,6% nella GIDI e nel 72% in T., corrispondendo all’87,5% in ambedue solo nella frazione finale dell’anno.

8.1 La contestazione è infondata. 

Non sussiste la denunciata omessa pronuncia, dacché il giudice territoriale ha disatteso l’assunto del contribuente con motivazione sintetica ma esaustiva: «La corretta determinazione della quota di partecipazione si basa sull’assunto che l’imputazione degli utili deve essere in capo ai soggetti che rivestano la qualità di socio al 31/12 del periodo di imposta accertato e pertanto è esatto quanto determinato dall’Ufficio (cioè l’87,5%)».

La descritta conclusione è, peraltro, conforme a diritto.

Applicando alle società di capitali, per omologia di situazioni, princìpi affermati da questa Corte con riferimento a società di persone (Cass. 31/10/2018, n. 27830; Cass. 30/07/2018, n. 20126), deve ritenersi che dirimente, ai fini in questione, sia la considerazione della compagine sociale (con le quote di partecipazione dei singoli consociati) al 31 dicembre del periodo d’imposta, perché è in quel momento (mancando una delibera di distribuzione degli utili, in quanto non transitati in bilancio) che il risultato economico viene conosciuto dai soci ed è possibile quantificare l’entità degli utili.

Non è per contro praticabile, per l’eventualità di mutamenti della composizione societaria con subentro di un socio nella posizione giuridica di un altro oppure di ampliamento o di riduzione della partecipazione detenuta dai singoli soci, una ripartizione in funzione della rispettiva durata del periodo di partecipazione alla società nel corso dell’esercizio: questa semplicistica scomposizione che considera il periodo di partecipazione (o di differente misura di partecipazione, in caso di variazione della sola misura della quota) non corrisponde necessariamente alla produzione del reddito da parte della società nei vari intervalli temporali (produzione non continua né uniforme nel tempo, e quindi insuscettibile di essere in tale misura frazionata), elemento oltremodo non ricostruibile per gli utili non contabilizzati.

9. Con il decimo motivo, si critica la pronuncia nella parte in cui ha ritenuto che l’adesione del contribuente al d. scudo fiscale (art. 13-bis del d.l. 1° luglio 2009, n. 78, convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 78) non inibiva il potere di accertamento dell’A.F..

Ad avviso del ricorrente, il giudice di merito sarebbe incorso in plurimi errori di diritto, segnatamente: (a) ritenendo che agli atti non vi fosse prova dell’invio delle dichiarazioni riservate, avrebbe violato l’art. 13, comma 1, del d.l. 25 settembre 2001, n. 350, convertito dalla legge 23 novembre 2001, n. 409, laddove prevede che gli interessati devono presentare agli intermediari (e non al fisco) siffatte dichiarazioni; (b) ritenendo che il contribuente non avesse provato il pagamento delle imposte straordinarie, avrebbe violato l’art. 13, comma 2, del citato d.l. n. 350 del 2001, nella parte in cui dispone che tenuti al versamento di detta imposta sono gli intermediari; (c) ritenendo che attività di controllo poste in essere nei confronti delle società partecipate impedissero al ricorrente di avvalersi dello scudo fiscale, avrebbe violato il combinato disposto degli art. 14, comma 7, e 11, comma 1, lett. a), del d.l. n. 350 clel 2001, allorquando prevede che fatto ostativo alla presentazione della dichiarazione riservata di accesso allo scudo fiscale è la formale conoscenza dell’inizio di attività di accertamento (ovvero di accessi, ispezioni o verifiche) acquisita dalla persona fisica interessata allo scudo, e non già da soggetti terzi, viepiù se società di capitali.

9.1 L’undicesimo motivo  lamenta  nullità  della  sentenza  per apparenza della motivazione, in quanto la C.T.R. non avrebbe «speso neppure una parola per spiegare perché [ …] non esista in atti prova dell’invio della dichiarazione e del pagamento delle imposte straordinarie con cui si è perfezionata la procedura di scudo», pur avendo il contribuente offerto detta dimostrazione con la produzione in lite delle dichiarazioni riservate e delle quietanze di versamento.

9.2 I motivi – da scrutinare congiuntamente, siccome avvinti da intima connessione – non meritano accoglimento.

Per disattendere la contestazione di legittimità dell’atto impositivo argomentata sull’avvenuta adesione allo scudo fiscelle, l’impugnata sentenza ha sviluppato un duplice argomento, ciascuno idoneo, ove isolatamente apprezzato, a suffragare la statuizione adottata:

  • in primis, ha reputato che la conoscenza da parte di D.G. dell’attività ispettiva, di controllo e di accertamento intrapresa nei confronti delle società era fattore ostativo all’operatività dello scudo fiscale, in ragione della ristretta base azionaria di tali società;
  • in secondo luogo, ha ritenuto indimostrati («non esiste comunque in atti prova») tanto l’invio della dichiarazione riservata quanto il pagamento perfezionativo dell’operazione di scudo.

I rilievi del ricorrente attingono criticamente entrambi i profili.

Tuttavia, l’undicesimo motivo, dietro l’apparente veste formale di vizio motivazionale, sollecita in realtà questa Corte al compimento di una nuova valutazione delle risultanze istruttorie, segnatamente ad una rilettura dei documenti relativi alla procedura cli adesione allo scudo fiscale, considerata dal giudice territoriale non perfezionata per difetto di prova sull’esistenza dei presupposti fattuali della stessa (l’invio della dichiarazione, il pagamento dell’imposta), non già per difformità di essi dal modello disegnato dalla fattispecie normativa.

E si tratta di un apprezzamento su circostanze fattuali, riservato tipicamente al giudice di merito ed insindacabile dal giudice di legittimità, salvo le circoscritte anomalie motivazionali (qui nemmeno adombrate) rilevanti alla stregua del novellato disposto dell’art. 360, primo comma, num. 5, del codice di rito.

9.3 La reiezione dell’undicesimo motivo importa l’inammissibilità per difetto di interesse del decimo motivo, il quale, seppur in astratta ipotesi fondato, non potrebbe condurre all’accoglimento del ricorso, siccome diretto a censurare soltanto una delle due rationes decidendi poste a base della pronuncia.

É noto infatti che qualora la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa o la non corretta impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma ratio decidendi non impugnata o malamente impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (sulla scia di Cass. 03/11/2011, n. 22753, cfr. Cass. 23/01/2013, n. 1610; Cass. 29/05/2015, n. 11169; Cass. 21/06/2017, n. 15350; Cass. 27/07/2017, n. 18641).

10. Il regolamento delle spese di lite segue la soccombenza. 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente D.G. al pagamento in favore della controricorrente Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 6.500 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.