Corte di Cassazione sentenza n. 21534 depositata il 7 luglio 2022
efficacia espansiva del giudicato esterno – vizio di omessa pronuncia – motivazione apparente, perplessa e incomprensibile – ICI – sanzioni amministrative – disapplicazione – fatti indice dell’incertezza normativa oggettiva
FATTI DI CAUSA
1. – Con sentenza n. 812, depositata il 9 luglio 2015, la Commissione tributaria regionale della Liguria ha rigettato l’appello di R. S.r.l., così integralmente confermando la decisione di prime cure che, a sua volta, in parziale accoglimento dell’impugnazione proposta dalla stessa contribuente, aveva annullato un avviso di accertamento, emesso a fini ICI per l’anno 2007, <<limitatamente al mancato riconoscimento della riduzione dell’ICI alla metà per gli immobili dei quali è stato documentato lo stato di inagibilità e inabitabilità».
1.1 – Per quel che qui ancora rileva, il giudice del gravame ha ritenuto che:
– l’eccepita illegittimità della determinazione delle aliquote ICI, sulla base di deliberazione adottata dalla Giunta comunale (n. 1243 del 20 dicembre 2006), andava fatta valere con impugnazione da proporsi davanti al giudice ordinario, l’istanza risultando inammissibile per «incompetenza delle Commissioni tributarie nella materia»;
– del pari andava disattesa l’eccezione di illegittimità della deliberazione relativa alla maggiorazione (al 9 per mille) dell’aliquota ICI, in quanto: – la scelta dell’Ente locale trovava fondamento normativo nel d.lgs. n. 504 del 1992, art. 6, c. 2, e nella n. 431 del 1998, art. 2, c. 4, disposizioni queste che si applicavano agli «immobili non locati, senza distinguere se di proprietà privata o di una società di gestione di patrimonio immobiliare come nel caso di specie»; – per di più il Comune aveva precisato che la pertinente disciplina regolamentare era stata modificata con la delibera n. 17/2002, – nel senso che «la dicitura “tenuta a disposizione per l’utilizzo diretto del possessore” [era] stata sostituita dalla dicitura “non utilizzata”», – così che quest’ultima espressione rimaneva «riferibile al caso in cui il proprietario sia anche una società e non solo una persona fisica»;
– in ordine, poi, alle sanzioni, – che erano state applicate «nel minimo previsto dal regolamento comunale» e che, come già rilevato dal primo Giudice, andavano rideterminate in relazione all’esito del giudizio, – non sussistevano condizioni di obiettiva incertezza normativa quanto alla loro interpretazione «vista la giurisprudenza applicata».
2. – R. S.r.l. ricorre per la cassazione della sentenza sulla base di quattro articolati motivi, illustrati con memoria; il Comune di Genova resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, 1, n. 4, cod. proc. civ., la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 546 del 1992, artt. 2, 5 e 7, c. 5, assumendo, in sintesi, che l’incompetenza dell’organo (giunta comunale) che aveva adottato la deliberazione sulla misura delle aliquote ICI costituiva vizio del provvedimento amministrativo deducibile in giudizio in funzione del potere di disapplicazione spettante al giudice tributario, potere, questo, il cui esercizio era stato giustappunto sollecitato e rispetto al quale inconferente rimaneva il riferimento operato dalla gravata sentenza alla categoria della incompetenza.
Il secondo complesso motivo di ricorso espone, – ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 4, cod. proc. civ., – la denuncia di nullità della gravata sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ovvero per violazione del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 36, c. 2, n. 4, e dell’art. 156 cod. proc. civ., nonchè, – ai sensi dell’art. 360, c. 1., n. 3, cod. proc. civ., – la denuncia di violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 504 del 1992, art. 6, c. 2, e della l. n. 431 del 1998, art. 2, c. 4;
– si assume in sintesi che:
- – qualora l’accertamento del giudice del gravame in ordine al rilevato difetto di impugnazione, davanti al giudice ordinario, della delibera dell’Ente locale, sia stato riferito alla sola eccezione involgente l’incompetenza dell’organo che detta delibera aveva 21dottato, il giudice del gravame, così pronunciando, aveva omesso di esaminare la (ulteriore) eccezione, svolta da essa esponente, che, diversamente, involgeva la maggiorazione dell’aliquota ICI con riferimento agli immobili non locati (d.lgs. 504, cit., art. 6, c. 2, e I.. n. 431 del 1998, art. 2, c. 4);
- – diversamente, se inteso il decisum quale rigetto di detta eccezione, – alla stregua del «sibillino passaggio della sentenza» che ne escludeva la fondatezza secondo il combinato disposto di cui al d.lgs. n. 504 del 1992, art. 6, c. 2, ed cilla l. n. 431 del 1998, art. 2, c. 4, – la motivazione resa sul punto dal giudice del gravame risultava del tutto apparente in quanto teneva in non cale «le molteplici obiezioni al riguardo mosse» da essa esponente, né rendeva possibile ricostruire il «ragionamento giuridico» che ne era stato posto a fondamento;
- – ad ogni modo, risultavano violate, e falsamente applicate, le citate disposizioni normative che potevano consentire l’innalzamento dell’aliquota ICI in relazione ad immobili non locati, detta aliquota trovando limite legale nella misura del 7 per mille (art. 6, 2, cit.), ed essendone legittima la maggiorazione (di due punti) solo qualora non ancora conclusi «accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative» (art. 2, commi 3 e 4, cit.), accordi che, nella fattispecie, si erano già perfezionati; di vero, risultando legittima la deroga a detto limite massimo dell’aliquota ICI, – con riferimento «agli immobili non locati per i quali non risultino essere stati registrati contratti di locazione da almeno due anni», – (solo) in relazione al fine di favorire la realizzazione di detti accordi, così come reso esplicito dallo stesso tenore letterale delle disposizioni di cui al terzo ed al quarto comma dell’art. 2, cit.
Il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 3, cod. proc. civ., espone la denuncia di violazione e falsa applicazione dell’art. 14 del Regolamento I.C.I. del Comune di Genova, in relazione al d.lgs. n. 504 del 1992, art. 6.
Assume, in sintesi, la ricorrente che la disposizione regolamentare, – alla cui stregua «ai fini dell’applicazione dell’imposta s’intende per “alloggio non locato” l’unità immobiliare, classificata o classificabile nel gruppo catastale A (ad eccezione della categoria A/10), tenuta a disposizione per l’utilizzo diretto del possessore», – non poteva trovare applicazione nei suoi confronti, – così come del resto già rilevato da una precedente pronuncia di questa Corte in controversia intercorsa tra le stesse parti, seppur per diversa annualità d’imposta, – posto che in alcun modo avrebbe potuto prospettarsi un utilizzo diretto, in capo ad una società di gestione, del patrimonio immobiliare destinato ad essere impiegato dietro conclusione di contratti di locazione.
Né, si soggiunge, a diverse conclusioni può condurre la nuova formulazione della disposizione regolamentare, – secondo la quale «s’intende per “alloggio non locato” l’unità immobiliare, classificata o classificabile nel gruppo catastale A (ad eccezione della categoria A/10), non utilizzata», – posto che un’interpretazione secondo la ratio di detta formulazione, – e costituzionalmente orientata alla luce del principio di capacità contributiva, – rende evidente che il difetto di utilizzazione, comportante aggravio dell’aliquota ICI, non può che correlarsi ad una scelta volontaria del possessore, – «che può corrispondere a maggior capacità contributiva o comunque giustificare una aliquota “punitiva” da parte dell’ente impositore», – scelta da intendere quale «volontarietà del mancato sfruttamento» e, nella fattispecie, insussistente.
Col quarto motivo, ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 4, cod. proc. civ., la ricorrente denuncia nullità della gravata sentenza per violazione del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 36, c. 2, n. 4, e dell’art. 156 cod. proc. civ., deducendo che le questioni poste col qravame in relazione tanto alla misura della sanzione applicata, – senza considerazione della gravità della violazione commessa, – quanto alla ricorrenza di un’obiettiva incertezza normativa idonea a giustificarne la disapplicazione, – con riferimento, in specie, alle disposizioni di cui alla l. n. 431 del 1998, art. 2, c. 4, – erano state risolte in termini apodittici e, di fatto, senz’alcuna motivazione.
2. – L’eccezione di giudicato esterno, in memoria sollevata dalla ricorrente (anche) a riguardo del ricorso in trattazione, e con riferimento ai presupposti di applicabilità dell’agevolazione tributaria prevista dal d.lgs. n. 504 del 1992, 8 (per i «fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati»), risulta inconcludente ai fini della definizione del giudizio, perchè estranea ai motivi di ricorso oggetto di esame, atteso che, come anticipato, il 9iudice del primo grado, – con statuizione che non ha formato oggetto di impugnazione, – ha (già) pronunciato, sul punto, accogliendo il ricorso della contribuente «limitatamente al mancato riconoscimento della riduzione dell’ICI alla metà per gli immobili dei quali è stato documentato lo stato di inagibilità e inabitabilità».
Va soggiunto che nemmeno sussiste l’efficacia ultrattiva del giudicato in relazione alla questione interpretativa risolta dalle evocate pronunce, – a riguardo della disciplina regolamentare attuativa delle disposizioni di cui alla l. n. 431 del 1998, art. 2, c. 4, – in quanto, come statuito dalla Corte, l’efficacia espansiva del giudicato esterno trova ostacolo in relazione alla interpretazione giuridica della norma tributaria, ove intesa come mera argomentazione avulsa dalla decisione del caso concreto, poiché detta attività, compiuta dal giudice e contestuale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituire un limite all’esegesi esercitata da altro giudice, né è suscettibile di passare in giudicato autonomamente dalla domanda e dal capo di essa cui si riferisce, assolvendo ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione (v. C::ass., 1 giugno 2021, n. 15215; Cass., 15 luglio 2016, n. 14509; Cass., 21 ottobre 2013, n. 23723).
3. – Tanto premesso, il primo motivo di ricorso è destituito di fondamento.
3.1 – Come ripetutamente rilevato dalla Corte, il potere-dovere del giudice tributario di disapplicare gli atti amministrativi costituenti il presupposto dell’imposizione, – potere che è espressione del principio generale, di cui alla I. 20 marzo 186S, 2248, art. 5, allegato E, dettato dall’interesse, di rilevanza pubblicistica, all’applicazione in giudizio di tali atti solo se legittimi (d.lgs. n. 546 del 1992, art. 2, c. 3, e art. 7, c. 5), – può, in effetti, essere esercitato, anche d’ufficio, indipendentemente dall’avvenuta impugnazione dell’atto avanti al giudice amministrativo, – posto che il potere in questione non è escluso dalla inoppugnabilità del provvedimento che concerne la tutela degli interessi legittimi e non quella dei diritti soggettivi (v. Cass., 23 maggio 2019, n. 14039; Cass., 15 febbraio 2007, n. 3390; Cass. Sez. U., 22 marzo 2006, n. 6265; Cass., 18 agosto 2004, n. 16175; Cass., 11maggio 2002, n. 6801), – e sempreché la legittimità dell’atto non sia stata affermata dal giudice amministrativo nel contraddittorio delle parti e con autorità di giudicato (Cass., 23 maggio 2019, n. 14039, cit.; Cass., 2 aprile 2015, n. 6788; Cass. Sez. U., 2 dicembre 2008, n. 28535; Cass., 15 febbraio 2007, n. 3390, cit.; Cass. Sez. U., 22 marzo 2006, n. 6265, cit.).
3.2 – Seppur erronea la motivazione del decisum oggetto di impugnazione, e ciò non di meno, il relativo dispositivo è conforme a diritto e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la questione posta dalla ricorrente può essere definita dalla Corte con correzione della motivazione della gravata
In tema di ICI, difatti, in più occasioni la Corte Ila avuto modo di esaminare, – secondo la relativa successione diacronica, – le pertinenti disposizioni del d.lgs. n. 504 del 1992, art. 6, della l. n. 142 del 1990, art. 32 e del d.lgs. n. 267 del 2000, 21rtt. 42 e 48; ed ha rilevato, al riguardo, che la competenza a determinare l’aliquota dell’ICI, attribuita in origine alla Giunta comunale (art. 6, c. 1, cit.), – in deroga al riparto di competenze delineato dalla l. n. 142/1990, art. 32, c. 2, lett. g), che, per l’appunto, attribuiva alla competenza esclusiva del consiglio comunale l’istituzione e l’ordinamento dei tributi, – con decorrenza dal 1° gennaio 1997, – e per effetto della l. n. 662 del 1996, art. 3, c. 53 che, entrata in vigore ai sensi del suo art. 3, c. 217, ha integralmente sostituito il testo del d.lgs. n. 504 del 1992, art. 6, eliminando detta deroga all’art. 32, c. 2, lett. g), cit., – è stata asseg1nata al Consiglio comunale per essere, poi, di nuovo attribuita alla Giunta comunale in conseguenza dell’abrogazione della L n. 142 del 1990, cit., e dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 267 del 2000, il cui art. 42, c. 2, lett. f), riserva al Consiglio le materie relative alla «istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi», ed il cui art. 48 attribuisce alla Giunta ogni altra funzione non riservata al Consiglio (Cass., 10 agosto 2010, n. 18503; Cass., 12 marzo 2008, n. 6603; Cass., 10 giugno 2005, n. 12345; Cass., 8 ottobre 2004, n. 20042).
Nella fattispecie, poi, viene in considerazione una delibera di Giunta (la n. 1243 del 20 dicembre 2006) che è stata adottata nel vigore delle disposizioni di cui si è appena dato conto, – il d.lgs. n. 504 del 1992, art. 6, c. 1, (ancora) disponendo che «L’aliquota è stabilita dal comune, con deliberazione dà adottare entro il 31 ottobre cli ogni anno, con effetto per l’anno successivo.», – e, dunque, alla stregua di un legittimo esercizio delle competenze riservate alla Giunta comunale, posto che la (ulteriore) riformulazione dell’art. 6, c. 1, cit., – ad opera della l. n. 296 del 2006, art. 1, c. 156, che, ha riattribuito la competenza in discorso al Consiglio comunale, – è entrata in vigore il 1° gennaio 2007 (l. n. 296 del 2006, art. 1, c. 1364).
4. – Anche il secondo motivo di ricorso è destituito di fondamento in tutte le sue prospettazioni.
4.1 – Innanzitutto non sussiste il denunciato vizio di omessa pronuncia in quanto il giudice del gravame, sia pur sintetim, ha specificamente esaminato la questione posta dalla parte con riferimento alla dedotta illegittimità della maggiorazione di aliquota applicata a riguardo di immobili non locati.
E va, peraltro, rimarcato che il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello è configurabile (solo) allorché manchi completamente l’esame di una censura mossa al 9iudice di primo grado, mentre non ricorre nel caso in cui il giudice d’appello fondi la decisione, così come nella fattispecie, su una costruzione logico giuridica incompatibile con la domanda o con l’eccezione di parte, nel qual caso può parlarsi di statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (v., tra le tante, Cass., 13 agosto 2018, n. 20718; Cass., 6 dicembre 2017, n. 29191; Cass., 14 gennaio 2015, n. 452; Cass., 25 settembre 2012, n. 16254; Cass., 17 luglio 2007, n. 15882; Cass., 19 maggio 2006, n. 11756).
4.2 – La Corte ha, poi, statuito che deve ritenersi apparente la motivazione che, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perchè consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice; laddove <<Sostanzialmente omogenea alla motivazione apparente è poi quella perplessa e incomprensibile: in entrambi i casi, invero – e purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali – l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo e, in quanto tale, comporta la nullità della sentenza impugnata per cassazione (cfr. Cass. civ. sez. un. ; agosto 2016 n. 16599; sez. un. 7 aprile 2014, n. 8053 e ancora, ex plurimis, Cass. civ. n. 4891 del 2000; n. 1756 e n. 24985 del 2006; n. 11880 del 2007; n. 161, n. 871 e n. 20112 del 2009).» (così Cass. Sez. U., 3 novembre 2016, n. 22232; v., altres·i, Cass., 23 maggio 2019, n. 13977; Cass., 7 aprile 2017, n. 9105; Cass. Sez. U., 24 marzo 2017, n. 7667; Cass. Sez. U., 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. Sez. U., 5 agosto 2016, n. 16599).
Nella fattispecie, – per come reso evidente dallo storico di lite sopra ripercorso, – il giudice del gravame ha dato conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni che presidiavano la legittimità dell’applicata maggiorazione di imposta né può ritenersi sussistente il denunciato vizio di nullità sol perché disattesa la prospettazione di una ratio legis dell’aggravamento di aliquota (in tesi) incompatibile con la sua rilevata legittimità.
4.3 – Quanto, poi, al fondamento normativo, ed alla ratio legis, di un siffatto aggravamento di aliquota (I. 431 del 1998, art. 2, c. 4), la Corte ha già avuto modo di rilevare che, – diversamente da quanto assume la ricorrente, – detta disposizione ha lo scopo di favorire «l’esecuzione» degli accordi tra le organizzazioni dei proprietari e degli inquilini stabilendo aliquote lci più favorevoli per i proprietari che stipulano contratti di locazione alle condizioni definite dai predetti accordi; così che l’avvenuta stipula degli accordi tra i rappresentanti delle categorie non esaurisce la finalità perseguita dalla norma (Cass., 11 dicembre 2015, n. 25021).
Con riferimento al simmetrico beneficio di imposta, previsto dallo stesso art. 2, comma 4, della l. n. 431 del 1998, – secondo il quale i comuni possono deliberare, nel rispetto dell’equilibrio di bilancio, aliquote più favorevoli per i proprietari che concedono in locazione, a titolo di abitazione principale, immobili alle condizioni concordate fra le organizzazioni dei proprietari e dei conduttori, – la Corte ha, poi, rilevato che detto regime fiscale di favore, – avente natura derogatoria ed eccezionale, – è finalizzato alla riduzione della tensione abitativa mediante reimmissione sul mercato di unità abitative sfitte (Cass., 2 marzo 2020, n. 5638; Cass., 24 febbraio 2012, n. 2824).
E mentre detta agevolazione d’imposta afferisce ad unità immobiliari concesse in locazione con contratti agevolati (sulla cui nozione v. Cass., 27 dicembre 2016, n. 27022), l’aggravamento di aliquota, in contestazione tra le parti, è destinato a colpire (indistintamente) «immobili non locati per i quali non risultino essere stati registrati contratti di locazione da almeno due anni».
Come allora condivisibilmente segnala il P.G., viene, così, in considerazione un istituto che, – al fine di evitare condotte speculative e, ad ogni modo, valutazioni opportunistiche volte a privilegiare la conclusione di contratti di locazione ordinari, così sottraendo al mercato unità immobiliari la cui locazione, con contratti agevolati, sia resa meno appetibile in ragione della regolamentazione eteronoma (anche) del relativo canone locativo, – ha previsto un aggravamento dell’aliquota ICI per gli immobili sfitti, e posto che, per l’appunto, detti immobili vengono, così, sottratti al mercato; laddove l’evento determinativo dell’aggravamento di aliquota risulta raccordato ad un arco temporale del tutto ragionevolmente individuato.
5. – In ragione (anche) dei rilievi appena svolti, deve ritenersi del pari destituito di fondamento il terzo motivo di ricorso.
5.1 – Per come assume la stessa ricorrente, la disposizione regolamentare che viene in considerazione, – e che costituisce attuazione della disposizione normativa che autorizza la deroga al tetto legale dell’aliquota d’imposta (I. 431/1998, art. 2, comma 4, cit.), – nella sua originaria formulazione prescriveva che, a detto fine, per «alloggio non locato» si dovesse intendere «l’unità immobiliare, classificata o classificabile nel gruppo catastale A (ad eccezione della categoria A/10), tenuta a disposizione per l’utilizzo diretto del possessore»; e ad una siffatta formulazione, – connotata da una qualche aporia rispetto alla sopra rilevata ratio legis dell’aggravamento di aliquota, – ha avuto riguardo il principio di diritto espresso dalla Corte, – in controversia intercorsa tra le stesse parti, seppur per diversa annualità d’imposta, – principio secondo il quale «non è ipotizzabile l”‘utilizzo diretto del possessore” qualora sia riferito ad una società di capitali che ha come oggetto sociale la detenzione di immobili a scopo commerciale (locazione), considerato che l’uso diretto presuppone la fruizione dell’immobile da parte del proprietario secondo le finalità abitative proprie del bene.» (Cass., 11 dicembre 2015, n. 25021, cit.).
5.2 – Medio tempore, però, – e sempre così come assume la stessa ricorrente, – la disposizione regolamentare in discorso è stata riformulata (con la delibera n. 17/2002), secondo il cui contenuto, ora, per «alloggio non locato» deve intendersi «l’unità immobiliare, classificata o classificabile nel gruppo catastale A (ad eccezione della categoria A/10), non utilizzata»; ed è allora del tutto evidente che, – rimanendo inapplicabile, a fattispecie costitutiva modificata, il giudicato formatosi a seguito della sopra ricordata pronuncia della Corte, – il nuovo contenuto dispositivo della norma regolamentare ascrive, a fondamento dell’aggravamento di aliquota, la (mera) «non utilizzazione» (qualsiasi ne sia la causa) dell’unità immobiliare, in maggiore aderenza alla stessa ratio legis dell’aggravamento quale riconducibile alla disposizione di cui alla l. n. 431/1998, art. 2, 4 (v., altresì, Cass., 17 settembre 2019, n. 23068).
Ed è, altresì, inequivoco che la «inutilizzazione» di un’unità immobiliare può senz’altro ascriversi (anche) ad una società di gestione del patrimonio immobiliare che non utilizzi, con contratti di locazione, le proprie unità immobiliari, così sottraendole al mercato.
6. – Anche il quarto motivo di ricorso non può trovare accoglimento.
6.1 – Va, innanzitutto, escluso, – per le stesse ragioni di cui s’è dato conto con riferimento al secondo motivo di ricorso (sub 4.2), – che, la sia pur sintetica motivazione della gravata sentenza, possa ascriversi alla categoria della nullità in quanto il giudice del merito ha escluso la necessità di una specifica motivazione dell’atto impuç1nato, a riguardo di una sanzione applicata nel suo minimo edittale, nonché la ricorrenza di condizioni di incertezza normativa oggettiva; profilo, quest’ultimo, il cui decisum va, peraltro, correlato all’interpretazione somministrata dal giudice del gravame in punto di ricorrenza di condizioni di obiettiva incertezza normativa che la stessa ricorrente correla al tenore della disposizione regolamentare oltrechè a quello della disposizione normativa (l. n. 431 del 1998, art. 2, c.. 4, cit.).
6.2 – Come, poi, si è rilevato, secondo un consolidato principio di diritto, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, «l’incertezza normativa oggettiva, che costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione normativa, riferibile non già ad un generico contribuente, o a quei contribuenti che per la loro perizia professionale siano capaci di interpretazione normativa qualificata (studiosi, professionisti legali, operatori giuridici cli elevato livello professionale), e tanto meno all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione. Tale verifica è censurabile in sede di legittimità per violazione di legge, non implicando un giudizio di fatto, riservato all’esclusiva competenza del giudice di merito, ma una questione di diritto, nei limiti in cui la stessa risulti proposta in riferimento a fatti già accertati e categorizzati nel giudizio di merito.» (così Cass., 28 novembre 2007, n. 24670 cui adde, ex plurimis, , 1 febbraio 2019, n. 3108; Cass., 23 novembre 2016, n. 23845; Cass., 2 dicembre 2015, n. 24588; Cass., 24 febbraio 2014, n. 4394; Cass., 22 febbraio 2013, n. 4522; Cass., 27 luglio 2012, n. 13457; Cass., 16 febbraio 2012, n. 219.2).
E si è, in particolare, rimarcato, – a riguardo dei cd. fatti indice dell’incertezza normativa oggettiva (v. Cass., 28 novembre 2007, n. 24670 cui adde, ex plurimis, Cass., 12 aprile 2019, n. 10313; Cass., 13 giugno 2018, n. 15452; Cass., 17 maggio 2017, 11. 12301), – che concorrono a determinare detta incertezza la ricorrenza di contrasti giurisprudenziali (nella giurisprudenza 1ji legittimità e anche di merito; cfr. Cass., 23 novembre 2016, n. 23845; Cass., 2 dicembre 2015, n. 24588) ovvero di una pluralità di disposizioni «il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso, per l’equivocità del loro contenuto» (così Cass., 24 febbraio 2014, n. 4394; C:ass., 22 febbraio 2013, n. 4522).
Deve, allora, escludersi che, nella fattispecie, – ed a seguito della stessa riformulazione della disposizione regolamentare, – ricorressero condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle pertinenti disposizioni tributarie, dovendosi in particolare escludere che ad una siffatta incertezza possa ascriversi la (mera) deduzione difensiva fondata su di una particolare, seppur articolata, ricostruzione della ratio legis di una disposizione normativa (deduzione peraltro smentita dalla giurisprudenza della Corte; v. Cass., 11 dicembre 2015, n. 25021, cit.).
7. – Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza di parte ricorrente nei cui confronti sussistono, altresì, presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto (d. r. n. 115 del 2002, art. 13, c. 1 quater).
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente all pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità liquidate in € 2.300,00 per compensi professionali ed € 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% ed altri accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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