Corte di Cassazione sentenza n. 21994 depositata il 12 luglio 2022
motivazione apparente e/o mancante e/o perplessa – omesso esame di fatti decisivi – c.d. “doppia conforme” – errore di fatto – violazioni di norme – prova presuntiva
Fatti di causa
1. Con sent. 193/2018, pubblicata il 15 marzo 2018, la Corte di appello di Catanzaro ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede aveva respinto il ricorso di T.F. diretto ad ottenere la condanna della datrice di lavoro Regione Calabria al risarcimento del danno chie la ricorrente assumeva esserle derivato da condotte vessatorie poste in essere nei suoi confronti nel periodo 2007-2010.
2. La Corte ha esaminato distintamente i fatti e gli episodi dedotti dalla dipendente e concluso per il difetto, nel caso di specie, dei requisiti definiti dalla giurisprudenza di legittimità per l’individuazione di una condotta di mobbing, con la condanna alla rifusione delle spese del grado.
3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la F.T. con nove motivi, cui ha resistito la Regione Calabria con controricorso.
4. Il ricorso, già esaminato in Sesta Sezione, è stato rimesso a questa Sezione per la trattazione in pubblica udienza.
5. Risulta in atti memoria per la ricorrente.
6. Il Procuratore Generale ha presentato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto.
Ragioni della decisione
7. Deve preliminarmente ribadirsi l’infondatezza dell’eccezione di tardività del ricorso per cassazione, ancora proposta dalla Regione Calabria sul rilievo che l’atto è stato notificato il 17 settembre 2018 a fronte di sentenza di appello pubblicata il 15 marzo 2018: come già rilevato nell’ordinanza interlocutoria della Sezione Sesta, il termine di sei mesi (art. 327 proc. civ.) è venuto a scadenza sabato 15 settembre 2018 e, pertanto, ex art. 155, commi 4° e 5°, cod. proc. civ., esso è da intendersi prorogato al lunedì successivo.
8. Con il primo motivo, deducendo la violazione dell’art. 132, c. 2°, n. 4 proc. civ. in relazione all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., la ricorrente censura la sentenza di appello per carenza assoluta di motivazione e, in particolare, per essersi la Corte territoriale limitata, nell’analisi degli elementi presuntivi dell’intento persecutorio, ad una v.alutazione di tipo atomistico, omettendo di tali elementi la doverosa valutazione complessiva.
9. Con il secondo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1218, 1223, 2056, 2059, 2087, 2729 civ., nonché degli artt. 40 e 41 cod. penale e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., per avere la sentenza escluso che i comportamenti allegati nel ricorso introduttivo fossero unificati da un comune intento persecutorio, senza però esaminare tali comportamenti nella loro sistematicità e durata rn I tempo e senza procedere ad una loro valutazione globale, trascurando altresì di valorizzare l’elemento della rimozione dei provvedimenti quale circostanza indiziaria della pretestuosità delle scelte datoriali.
10. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione delle stesse norme per avere la sentenza di appello escluso la illiceità e/o dannosità di talune scelte datoriali in conseguenza della reazione della lavoratrice che ad esse si era opposta, trascurando di considerare che tale comportamento non avrebbe potuto essere valoriz:z:ato quale fattore escludente le prodromiche illecite condotte poste in essere dalla Regione: Calabria e che la rimozione successiva dei provvedimenti da parte dell’Ente avrebbe potuto solo mitigare o attenuare ma non elidere l’originaria illiceità del comportamento né eliminarne gli effetti dannosi per la salute della ricorrente.
11. Con il quarto motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 167, 416, c. 3°, 132 n. 4 cod. proc. civ. e dell’art. 118 att. cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale omesso di pronunciarsi sul motivo di appello, con il quale era stata dedotta la illegittimità della sentenza di primo grado nella parte in cui non aveva statuito, in violazione del “principio di non contestazione”, che tutti i fatti e le circostanze indicati nel ricorso introduttivo dovevano considerarsi non contestati e quindi pacifici, dal momento che la resistente Regione Calabria, nel costituirsi in giudizio, non aveva preso posizione in maniera precisa sui fatti di causa, ma si era limitata ad una contestazione generica, e per avere, al contrario, la decisione appellata dato rilievo ad una relazione di parte, inidonea come tale a sopperire alle lacune dell’atto difensivo: fatti e circostanze che, ove esaminati dalla Corte, avrebbero condotto, per il loro carattere decisivo, ad un diverso esito del giudizio.
12. Con il quinto motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 132 4 cod. proc. civ. in riferimento all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1218, 1223, 2056, 2059, 2087, 2729 cod. civ. e degli artt. 40 e 41 cod. penale in riferimento all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.: si duole della manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata là dove la Corte di appello ha ritenuto di escludere l’intento persecutorio del datore di lavoro nel disporre la sua collocazione in uno stanzone umido, polveroso e senza finestre, mentre tutti gli altri dirigenti del Dipartimento del Personale avevano ognuno una propria stanza al primo piano del fabbricato.
13. Con il sesto viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116 cod. civ. in riferimento all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. e, in riferimento all’art. 360 n. 3, delle altre norme già indicate nella rubrica del quinto motivo, per avere la sentenza, incorrendo in un errore decisivo, erroneamente interpretato e travisato la domanda, là dove ha ritenuto provato che alle riunioni obbligatorie del mercoledì fos ie presente anche la ricorrente, poiché l’allegazione originaria dell’atto introduttivo e la censura in appello era invece di non essere stata convocata alle riunioni indette dal Direttore Generale con tutti gli altri dirigenti del Dipartimento.
14. Con il settimo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 4, 112, 115, 116 cod. proc. civ. in riferimento all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1218, 1223, 2056, 2059, 2087, 2729 cod. civ. e degli artt. 40 e 41 cod. penale in riferimento all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la ricorrente si duole di una motivazione apparente, tautologica, o non coerente con una valutazione ragionevole del compendio probatorio (per avere la Corte territoriale omesso di esaminare deduzioni difensive, fatti e circostanze non contestate, dichiarazioni testimoniali e documenti) in relazione a plurimi episodi tra quelli allegati a sostegno della domanda.
15. Con l’ottavo motivo è dedotta la violazione degli 99, 112, 115 cod. proc. civ. in riferimento all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. e, in riferimento all’art. 360 n. 3, degli artt. 1175, 1375, 1218, 1223, 2056, 2059, 2087, 2697, 2729 cod. civ., degli artt. 2, 3 c. 1 e 4 Cost., nonché degli artt. 27, punto 2, e 31 della Carta Sociale Europea del 3 maggio 1996 ratificata il 5 luglio 1999 ed entrata in vigore l’l settembre 1999: la ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia totalmente omesso di esaminare il motivo di gravame, con il quale era stata censurata la sentenza di primo grado per non avere valutato le condotte denunciate come vessatorie e mortificanti ascrivendole a responsabilitè datoriale ex art. 2087 cod. civ. anche in mancanza dei presupposti del mobbing, quanto meno nella forma più attenuata del c.d. straining.
16. Con il nono è infine denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 112, 91 e 92 cod. proc. civ. per non avere la Corte di appello esaminato il motivo di gravame, con cui era stata censurata la condanna al pagamento delle spese di lite, e in particolare per non avere considerato che con esso l’appellante aveva lamentato la mancata valutazione, da parte del Tribunale, dell’esistenza di “gravi ed eccezionali ragioni” per la compensazione delle stesse, pur giustificata dalla particolare complessità delle questioni trattate; e per avere applicato, nel regolare le spese del proprio grado, il principio deilla soccombenza, senza peraltro motivare sulle ragioni che ne giustificavano la compensazione.
17. Il primo motivo è inammissibile.
18. L’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost. e, nel processo civile, dall’art. 132, comma 2, 4 cod. proc. civ. può invero dirsi violato – a seguito della riformulazione, con le modifiche introdotte nel 2012, dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. – soltanto qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile), concretandosi in tal caso in una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. (Cass. n. 22598/2018; Cass. n. 23940/2017; Sez. Un. 8053/2014).
19. Nessuna di tali ipotesi ricorre nella specie, in quanto è “apparente” la motivazione che, sebbene graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. U n. 22232/2016); mentre è “perplessa” la motivazione che si traduca nello svolgimento di ragioni che non consentono di determinare con sufficiente chiarezza quale fra le tesi prospettate e considerate abbia il giudice accolto e posto a base della sua decisione, così da non consentire alcun effettivo controllo sull’esattezza ,e sulla logicità del ragionamento del giudice (Cass. n. 19572/2019).
20. I motivi di ricorso dal secondo al settimo possono essere esaminati congiuntamente per identità di questioni e risultano anch’essi inammissibili.
21. Al riguardo deve infatti osservarsi che:
- “In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione” (Cass. n. 1229/2019; conforme, fra le molte: Cass. n. 27000/2016);
- in tema di prova presuntiva (art. 2729 civ.) “è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.” (Cass. n. 1234/2019; conforme, fra le molte: Cass. n. 1216/2006);
- quanto alle altre disposizioni enunciate nelle rubriche dei motivi, il ricorso non risulta conforme al consolidato principio, per il quale la censura ex 360 n.. 3 cod. proc. civ. “deve indicare, a pena di inammissibilità, non soltanto le norme di diritto asseritamente violate, ma anche le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni” (Cass. n. 16038/2013, fra le numerose conformi);
- è altresì consolidato il principio, secondo il quale “spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere d21I complesso delle risultanze del processo quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi” (Cass. n. 6288/2011, fra le molte).
22. Con particolare riferimento alla censura espressa con il sesto motivo, deve ribadirsi che “L’interpretazione della domanda è operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, è censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire” (Cass. n. 2148/2004).
23. Nella specie, la Corte territoriale ha preso in esame il tema della partecipazione della ricorrente alle riunioni dei dirigenti, osservando come, diversamente da quanto allegato, la stessa fosse stata presente a quelle “obbligatorie di mercoledì” (cfr. sentenza, p. 6) e, con ciò, escludendo la veridicità di una circostanza posta come rilevante a sostegno della denuncia di un comportamento mobbizzante, poiché neppure a tali riunioni la ricorrente, secondo la sua prospettazione, avrebbe avuto la possibilità di partecipare.
24. Ne consegue che la doglianza, per la quale il giudice di appello avrebbe trascurato una circostanza idonea a determinare un diverso esito decisorio, vale a dire la mancata convocazione della lavoratrice (non alle riunioni obbligatorie ma) alle riunioni dei dirigenti del Dipartimento convocate dal Direttore Generale, integra la deduzione di un errore di fatto, come tale censurabile in sede di legittimità nei limiti consentiti dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (Cass. n. 11103/2020).
25. Ciò posto, si osserva che la Corte ha esaminato le doglianze dell’appellante seguendo la sua prospettazione di una fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione, volta ad attuarne l’emarginazione, e che l’esigenza di una valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio non risulta contraddetta dal risultato dell’indagine, fondata sull’analisi dei singoli comportamenti del datore di lavoro e sulla motivata valutazione della loro irrilevanza.
26. In realtà, il ricorso muove alla sentenza diffuse critiche di natura motivazionale: sia per manifesta illogicità del percorso argomentativo seguito e, pertanto, con una censura estranea al perimetro applicativo dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nella riformulazione conseguente alle modifiche introdotte nel 2012; sia – dietro lo schermo della denuncia dei vizi di cui all’art. 360 3 e n. 4 cod. proc. civ. – per omesso esame di fatti decisivi, che è censura riconducibile al “nuovo” vizio motivazionale ma in contrasto con il divieto di proposizione del motivo ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ. in presenza – come nella specie – di c.d. “doppia conforme” (art. 348 ter, ultimo comma, cod. proc. civ.).
27. Né la ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive numerose conformi).
28. L’ottavo motivo di ricorso non può trovare accoglimento.
29. La sentenza impugnata non solo ha escluso, in esito ad un dettagliato esame degli episodi dedotti dalla lavoratrice, la configurabilità di un intento persecutorio e, quindi, di una condotta mobbizzante, ma anche la configurabilità di “una condizione lavorativa stressogena” (cfr. p. 8, penultimo capoverso).
30. E’, dunque, infondata la censura di omesso esame e di omessa pronuncia sul motivo di appello concernente la mancata valutazione di una responsabilità datoriale ex 2087 cod. civ. quantomeno nella forma attenuata del c.d. straining.
31. D’altra parte, la motivazione adottata al riguardo dal giudice di appello non è ristretta al fatto che alle rimostranze della lavoratrice per comportamenti del datore di lavoro reputati dannosi la Regione “prontamente le è venuta incontro”, poiché l’esclusione anche di una condizione di stress lavorativo (oltre che di una condotta di mobbing) costituisce il punto terminale e conclusivo della stessa indagine che ha portato la Co1te a negare “ogni intento persecutorio” del datore di lavoro in esito ad una dettagliata analisi delle condotte e degli episodi denunciati.
32. Anche il nono e ultimo motivo non può trovare accoglimento.
33. La Corte territoriale, concludendo per il rigetto dell’appello, in relazione ad un’analisi della fattispecie concreta che l’ha portata a ritenere gli assunti della lavoratrice del tutto privi di fondamento, ha considerato assorbita “ogni ulteriore questione” (cfr. ancora p. 8, ultimo capoverso), con decisione che, pertanto, ha comportato il rigetto implicito anche del motivo che la ricorrente assume pretermesso (Cass. n. 28995/2018; 28663/2013).
34. Parimenti infondata è l’ulteriore censura mossa alla sentenza impugnata con il motivo in esame, alla luce del principio, per il quale “In tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione” (Cass. n. 11329/2019; Sez. Un. 14989/2005).
35. Il ricorso deve conseguentemente essere respinto.
36. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
37. Deve infine essere disattesa la domanda di condanna per lite temeraria, proposta ex 96, comma 3, cod. proc. civ., stante l’insussistenza in capo alla ricorrente di mala fede o colpa grave (Sez. U 22405/2018).
38. Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, n. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 D.P.R. n. 115/2002) – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto (Sez. U n. 4315/2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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