Corte di Cassazione sentenza n. 23231 depositata il 25 luglio 2022

Frode carosello – società di capitali – gestore uti dominus – responsabilità – condizioni – sanzioni – la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l’autore materiale della violazione ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico – sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate emetteva nei confronti della società U. Srl, nonché di C.F., A.F., R.B., Frison Claudio, I.E. e S.E., avviso di accertamento per Iva, Irpeg e Irap per l’anno 2001 in relazione ad una evasione d’imposta nell’ambito di una frode carosello negli scambi intracomunitari ed irrogava le conseguenti sanzioni.

L’Ufficio, in particolare, evidenziava che, a seguito di indagini svolte dal Nucleo operativo delle Dogane di Trento, in collaborazione con i nuclei di polizia tributaria di Padova e Verona, nell’ambito di un procedimento penale, era emersa la realizzazione di una complessa frode unionale relativa agli scambi intraunionali di acquisto e rivendita di auto, con la costituzione di società cartiera, tra cui U. Srl, che erano fittiziamente interposte dagli effettivi autori della frode, i quali, nella veste di amministratori di fatto, avevano materialmente agito per conto della società, sicché erano costoro gli effettivi autori degli illeciti e i debitori d’imposta.

L’impugnazione, proposta da C.F., che deduceva l’illegittimità dell’avviso, la propria estraneità alla vicenda e, in ogni caso, l’assenza di una propria responsabilità per l’attività della società di capitali, era rigettata dalla CTP di Milano. La sentenza era confermata dalla CTR in epigrafe.

C.F. propone ricorso per cassazione con sette motivi, poi illustrato con memoria. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., insufficiente e contraddittoria motivazione circa punto decisivo in ordine al coinvolgimento del contribuente nell’attività della società U. Srl, argomentata dalla CTR dalla definizione ex art. 444 c.p.p. del giudizio penale nei confronti dello stesso, senza tenere conto che l’avviso era stato notificato a sei soggetti diversi e che il C.F. aveva un ruolo di mero esecutore.

1.1 Il secondo motivo denuncia, sulle medesime circostanze, ai sensi dell’art. 360 5 c.p.c. come modificato dall’art. 54 d.l. n. 83 del 2012, conv. con modificazioni nella l. n. 134 del 2012, omesso esame circa fatti decisivi.

2. I motivi sono entrambi inammissibili.

La prima censura, infatti, non è più proponibile ai sensi dell’art. 360 n.5 c.p.c. nel testo ratione temporis applicabile trattandosi di sentenza pubblicata il 22 gennaio 2013 (Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014).

La seconda è parimenti inammissibile in quanto, pur formulata ai sensi della disposizione novellata, mira sempre a contestare la sufficienza e adeguatezza della motivazione e la stessa valutazione operata dal giudice di merito sulle risultanze di prova acquisite nel giudizio, avendo la CTR tenuto conto anche dei profili dedotti, sì da ritenere, e non in base alla sola sentenza di patteggiamento, che il contribuente aveva avuto un ruolo di «referente e gestore di U.» in quanto colui «che gestiva le vetture una volta giunte in Italia comunicando a chi consegnarle».

3. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 3 c.p.c., violazione degli artt. 2472 e 2332 c.c., 87 tuir, 3 d.lgs. n. 446 del 1997, 1 e 4 d.P.R. n. 633 del 1972 e 7 d.l. n. 269 del 2003, conv. nella l. n. 326 del 2003 per aver la CTR ritenuto responsabile l’amministratore di fatto per i debiti tributari della società di capitali.

3.1 Il quarto motivo denuncia, sul medesimo profilo, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c.

3.2 Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 7 d.l. n. 269 del 2003 e 16 e

17 d.lgs. n. 472 del 1997, per aver la CTR ritenuto le violazioni tempestivamente contestate in quanto contenute nel processo verbale di constatazione, da cui l’irrogazione delle sanzioni alla persona fisica anziché alla sola società di capitali.

4. I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto logicamente connessi.

Le censure, infatti, si incentrano su un’unitaria questione, ossia se, e in quale misura, l’attività, e le imposte, di una società di capitali siano direttamente imputabili ad un soggetto distinto da quest’ultima, nonché, in via correlata, se le sanzioni per le attività illecite ed evasive dell’ente siano ascrivibile al medesimo soggetto terzo.

5. Le doglianze, inoltre, sono infondate.

5.1 Nella recente giurisprudenza, invero, la problematica è stata affrontata, in particolare, con riguardo all’applicazione delle sanzioni all’amministratore di fatto.

Questa Corte ha precisato che l’applicazione della norma eccezionale introdotta dall’art. 7 d.l. n. 269 del 2003 presuppone che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata, dotata di personalità giuridica, poiché solo la ricorrenza di tale condizione giustifica il fatto che la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l’autore materiale della violazione ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico (società dotata di personalità giuridica) quale effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore; viceversa, «qualora risulti che il rappresentante o l’amministratore della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio», verrebbe meno la ratio giustificatrice dell’applicazione dell’art. 7 d.l. n. 269 del 2003, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, e deve essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito (v. Cass. n. 28332 del 7/11/2018; Cass. n. 10975 del 18/04/2019; Cass. n. 32594 del 12/12/2019; Cass. n. 25757 del 13/11/2020; Cass. n. 29038 del 20/10/2021).

Si è osservato, peraltro, che tale ragionamento non riguarda solo il profilo sanzionatorio in senso stretto, il quale, anzi, costituisce un aspetto ulteriore, un posterius, rispetto alla pretesa sostanziale e al debito tributario.

È evidente, infatti, che se l’”amministratore di fatto” ha utilizzato lo schermo sociale nel suo esclusivo interesse sorge la presunzione che pure dei proventi dell’attività egli abbia tratto esclusivo beneficio.

Come precisato da ultimo (v. Cass. n. 36003 del 22/11/2021) non va trascurato che «la materia delle imposte sui redditi, per effetto dell’art. 19 del d.lgs. n. 46 del 1999, è regolata dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973» sicché «in via presuntiva, e secondo l’id quod plerumque accidit, può ritenersi che l’amministratore di fatto di una “cartiera” abbia direttamente incamerato i proventi dell’evasione addebitabile alla società e che, conseguentemente, spetti all’amministratore stesso fornire la prova contraria. Con la precisazione che in simili ipotesi è ben possibile l’assenza di evidenze contabili dell’evasione, analogamente a quanto chiarito dalla Corte a proposito dei ricavi occulti di società di capitali a ristretta base, distribuiti ai soci».

5.2 Tale approccio, pur cogliendo un dato innegabile, ossia che, in tali ipotesi, esiste un soggetto che governa uti dominus la società di capitali, il quale fa proprie le attività, i redditi e i proventi dell’ente, cui lascia la formale responsabilità e l’onere delle imposte, non assolte, non appare pienamente soddisfacente dove sembra prefigurare che la società costituisca una mera fictio, dunque priva di realtà giuridica.

Occorre sottolineare, sul punto, che, come affermato da questa Corte, «la simulazione assoluta dell’atto costitutivo di una società di capitali, iscritta nel registro delle imprese, non è configurabile in ragione della natura stessa del contratto sociale, che non è solo regolatore degli interessi dei soci, ma si atteggia, al contempo, come norma programmatica dell’agire sociale, destinata ad interferire con gli interessi dei terzi, donde l’irrilevanza, dopo l’iscrizione della società nel registro delle imprese e la nascita del nuovo soggetto giuridico, della reale volontà dei contraenti manifestata nella fase negoziale; tale fondamento, espressione del valore organizzativo dell’ente, è sotteso all’art. 2332 c.c., imponendosi dunque una lettura restrittiva dei casi di nullità della società da essi previsti, in nessuno dei quali è, quindi, riconducibile la simulazione» (Cass. n. 22560 del 04/11/2015; Cass. n. 20888 del 05/08/2019; Cass. n. 29700 del 14/11/2019, che precisa

«tale nuovo autonomo soggetto giuridico, una volta iscritto nel registro delle imprese, agisce coinvolgendo terzi a prescindere dalla volontà effettiva, vive di vita propria ed opera compiendo la propria attività per realizzare lo scopo sociale, a prescindere dall’intento preordinato dei suoi fondatori»).

6. Ferma, dunque, l’effettività della società di capitali – al di là del proposito dei soci e ideatori di realizzare con essa un mero schermo rispetto ad eventuali attività illecite –, va esaminato se, e a quali condizioni e limiti, in una situazione come quella in considerazione, il Fisco possa imputare ad un diverso soggetto i redditi maturati dall’ente e le relative imposte.

7. Il meccanismo che, nel nostro ordinamento, mira a riallineare l’attività svolta da un altro soggetto sull’effettivo percettore dei redditi è quello previsto dall’art. 37, terzo comma, P.R. n. 600 del 1973 che dispone:

«In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona»

7.1 La norma prevede che l’Ufficio possa utilizzare elementi indiziari, dotati di pregnanza presuntiva, al fine di accertare il fatto costitutivo dell’imposizione tributaria rappresentato dal possesso effettivo di un reddito «per interposta persona».

Giova sottolineare che, come costantemente ribadito dalla Corte, ai fini del soddisfacimento dell’onere probatorio dell’Ufficio, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità, con riferimento a una connessione probabile di accadimenti in base a regole di esperienza (Cass. n. 13807 del 22/05/2019; Cass. n. 4168 del 21/02/2018; Cass. n. 17833 del 19/07/2017; Cass. n. 25129 del 7/12/2016; già Sez. U. n. 9961 del 13/11/1996),

L’oggetto della prova incombente sull’Amministrazione finanziaria, peraltro, non attiene agli elementi costitutivi dell’interposizione ma solo – come precisa la norma – che «egli [il soggetto terzo] ne è l’effettivo possessore per interposta persona»: la funzione della norma, dunque, è quella di evitare che il contribuente (effettivo possessore) si sottragga al prelievo occultando all’Amministrazione finanziaria la propria identità di contribuente, ricorrendo a interposizioni negoziali tali da attribuire a terzi il possesso del reddito.

In altri termini, il possesso del reddito «per interposta persona» costituisce il fatto ignoto oggetto della prova logica a carico dell’Ufficio, quale elemento che lega il reddito prodotto dal soggetto interposto al titolare effettivo: la rilevanza dell’effettivo possesso del reddito rispetto alla sua titolarità formale sancisce la prevalenza della sostanza (possesso del reddito) sulla forma (titolarità del reddito) e della realtà sull’apparenza, dovendosi individuare non la natura fittizia o ingannevole della titolarità del reddito, bensì l’effettività dell’esercizio del possesso del reddito a prescindere dalla sua formale titolarità.

7.2 Tale percorso argomentativo e giuridico, per l’ampia latitudine della norma, non è limitato dalla tipologia di reddito oggetto di accertamento e, dunque, si estende – come recentemente precisato da questa Corte (Cass. n. 5276 del 17/02/2022) – anche al reddito d’impresa e all’ipotesi in cui l’interposto sia una società di capitali, salva la necessaria specifica verifica della relazione di fatto tra contribuente e reddito per operare la traslazione del reddito d’impresa prodotto all’effettivo titolare.

7.3 Nel caso di reddito d’impresa ha rilievo, di norma, la figura dell’amministratore di fatto del soggetto imprenditoriale formalmente titolare del reddito (e. la società); tuttavia, tale ruolo, per assumere incidenza, deve «assumere una particolare pregnanza al fine di integrare la presunzione del possesso del reddito perché deve essere tale da comportare la traslazione del reddito realizzato dall’ente collettivo percettore interposto nel suo complesso (e, quindi, anche ai fini Irap e Iva) al soggetto persona fisica interponente come se fosse stato prodotto da quest’ultimo» (Cass. n. 5276/2022).

Ciò significa che la posizione dell’interponente non è quella di mero gestore dell’ente collettivo – condizione che, in quanto tale, sarebbe significativa ai fini reddituali solo nelle società di persone interposte e, in caso di socio, a fondamento del maggior reddito da partecipazione ai fini Irpef – ma di soggetto che disponga uti dominus delle risorse del soggetto interposto.

Come si è osservato, del resto, nell’ipotesi in questione, «si configura, in relazione all’interponente, una fattispecie simile a quella della holding unipersonale, ossia di chi eserciti professionalmente con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società (Cass., Sez. I, 26 febbraio 1990, n. 1439; Cass., Sez. I, 16 gennaio 1999, n. 405; Cass., Sez. I, 9 agosto 2002, n. 12113; Cass., Sez. I, 13 marzo 2003, n. 3724; Cass., Sez. U., 29 novembre 2006, n. 25275; Cass., Sez. I, 6 marzo 2017, n. 5520; Cass., Sez. I, 3 giugno 2020, n. 10495)».

7.4 Ne deriva che, in tale ipotesi, la prova che incombe sull’Amministrazione finanziaria ha ad oggetto il totale asservimento della società interposta all’interponente, tale, quindi, da dimostrare a) la relazione di fatto tra l’interponente e la fonte del reddito del soggetto imprenditoriale interposto e b) che il primo sia l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società.

Non ha rilievo, invece, la dimostrazione che l’interposizione sia reale o fittizia: l’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, infatti, si riferisce a qualsiasi ipotesi di interposizione, anche a quella reale, ed anche ad un uso improprio di un legittimo strumento giuridico (ex multis Cass. n. 11055 del 27/04/2021; Cass. n. 17128 del 28/06/2018; Cass. n. 5408 del 03/03/2017).

A fronte di tale prova, che può essere fornita anche solo in via presuntiva, incomberà poi al contribuente fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto (Cass. n. 29228 del 20/10/2021; Cass. n. 5276 del 17/02/2022 cit.).

7.5 Va sottolineato, infine, che, in caso di interposizione mediante una società, la traslazione riguarda esattamente il reddito d’impresa nel suo complesso prodotto dal contribuente interposto avuto riguardo alla pluralità di elementi che lo compongono (salva la prova, a carico dell’Ufficio, di un maggior reddito conseguito dall’interponente), che, dunque, è attribuito all’interposto quale effettivo possessore del reddito ed effettivo debitore dei tributi formalmente imputati alla società.

La compiuta traslazione del reddito, del resto, è coerente con il diritto al rimborso dell’interposto, ai sensi dell’art. 37, quinto comma, d.P.R. n. 600 del 1973, per quelle imposte che abbia pagato per redditi imputati all’interponente, condizione che legittima il riconoscimento, ove ne sussistano i presupposti formali e sostanziali, anche del diritto alla detrazione ex art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972 (v. Cass. n. 27964 del 30/12/2009).

8. La traslazione del reddito d’impresa dall’interposto (società) all’interponente ai sensi dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 è idonea ad assicurare la ripresa a tassazione nei confronti di quest’ultimo per le imposte dovute.

8.1 Quanto all’Iva, più in particolare, va sottolineata la piena convergenza su questo esito dei principi unionali.

8.2 Nell’esecuzione delle prestazioni di servizi tra il soggetto gestore uti dominus e la società (la cui esistenza, come detto, non è scalfita dall’assoggettamento di fatto), infatti, si instaura, quando il primo agisca in nome proprio ma per conto della seconda, un rapporto riconducibile al mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore e il mandante è la società.

Ciò si verifica, in particolare, quando l’imprenditore, che gestisca delle società cartiere, disponga in autonomia in merito alle attività e alle transazioni e decida, per conto della società, sulla realizzazione delle operazioni commerciali, individuando, ad esempio, i venditori (esteri) e i successivi acquirenti (nazionali).

Orbene, l’art. 6, par. 4, della Sesta direttiva, corrispondente all’art. 3, terzo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, stabilisce che, qualora un soggetto passivo partecipi, in nome proprio ma per conto terzi, ad una prestazione di servizi, si deve ritenere che egli stesso abbia ricevuto o fornito i detti servizi a titolo personale.

Si realizza, in altri termini, la finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche fornite consecutivamente sull’assunto che l’operatore che partecipa alla prestazione di servizi – il commissionario – abbia in un primo tempo ricevuto i servizi in questione da prestatori specializzati prima di fornire, in un secondo tempo, gli stessi servizi all’operatore per conto del quale agisce (v., tra le varie, Corte di giustizia, 4 maggio 2017, in C-274/15, Commissione c/ Lussemburgo, punto 86; nella giurisprudenza interna, v., ex multis, Cass. n. 30360 del 23/11/2018; Cass. 20591 del 29/09/2020): il mandatario, quindi, assume e acquista in nome proprio, rispettivamente, gli obblighi e i diritti derivanti dal compimento dell’affare trattato per conto del mandante.

8.3 Ne deriva che se la prestazione di servizi a cui l’operatore partecipa è soggetta all’Iva, pure il rapporto giuridico tra costui e la parte per conto della quale agisce è soggetto all’Iva (v. Corte di giustizia, in C-274/15 cit., punto 87).

Giova sottolineare, sul punto, che resta estranea e irrilevante ogni indagine sul carattere oneroso o meno del rapporto di mandato: infatti, ai fini dell’applicazione della disciplina Iva del mandato senza rappresentanza, la norma unionale non contiene alcun riferimento ad un eventuale carattere oneroso della partecipazione alla prestazione di servizi (v. Corte di giustizia, 19 dicembre 2019, in C-707/18, Amărăşti Land Investment SRL, punto 38).

8.4 L’irregolarità delle operazioni riferite al mandante, infine, se, da un lato, non esime il mandatario senza rappresentanza dall’obbligo di provvedere alla fatturazione posto che quale soggetto passivo, nel rapporto con il mandante, è tenuto al vaglio critico dell’operazione (e di verificare, quindi, il regime fiscale e di fatturazione), dall’altro, ove vengano in rilievo – come nella specie – operazioni soggettivamente inesistenti, ciò refluisce sulla sua posizione, neppure essendo in dubbio la fittizietà delle operazioni e la consapevolezza delle frode.

9. La delineata cornice normativa entro cui si colloca la questione in esame ha immediate conseguenze anche sul piano sanzionatorio.

L’irrogazione delle sanzioni, difatti, trova il suo diretto riferimento nella condotta dell’interponente, il quale è sanzionato in proprio, in relazione all’avvenuta traslazione del reddito e dei relativi tributi dell’ente collettivo, con conseguente imputazione anche delle condotte evasive.

La fattispecie è esterna al perimetro dell’art. 7 d.l. n. 269 del 2003: il rapporto fiscale che viene in considerazione non è quello, previsto dalla citata norma, «proprio di società o enti con personalità giuridica» ma, in conseguenza della traslazione del reddito all’effettivo possessore ex art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1970, quello specifico e proprio dell’interponente.

Il contribuente, come osservato, non riveste, in questo caso, la posizione di (mero) amministratore di fatto ma è l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società come se fossero stati da lui prodotti, sicché assume rilievo, anche per tale versante, il suo rapporto fiscale, con le correlate sanzioni per gli inadempimenti e le violazioni che lo caratterizzano, e non quello della società.

10. Vanno pertanto enunciati i seguenti principi di diritto:

«in tema di accertamento sulle imposte dirette e sull’Iva, nei confronti del soggetto che abbia gestito uti dominus una società di capitali si determina, ai sensi dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, la traslazione del reddito d’impresa, e delle relative imposte, in quanto effettivo possessore del reddito della società interposta; inoltre, in tale ipotesi, tra i due soggetti si instaura un rapporto di mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore uti dominus e la mandante è la società, sicché, ove le prestazioni di servizi cui il primo abbia partecipato per conto della seconda siano soggette a Iva, pure il rapporto giuridico tra il mandatario e la società interposta è soggetto all’Iva; a tali fini incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, il totale asservimento della società interposta all’interponente, spettando quindi al contribuente l’onere di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto»

«in tema di sanzioni tributarie, nell’interposizione del gestore uti dominus alla società di capitali interposta ai sensi dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 non ha rilievo il rapporto fiscale proprio di quest’ultima ma quello che fa capo direttamente all’interponente in quanto effettivo possessore del reddito d’impresa, sicché, risultando come se il reddito fosse da lui prodotto, la fattispecie esula dal disposto di cui all’art. 7 d.l. n. 269 del 2003 e le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite alla sua attività»

11. Alla luce degli enunciati principi, dunque, vanno esaminate le doglianze del ricorrente.

11.1 La CTR, invero, ha affermato che la prospettazione dell’Ufficio rimanda «a società fittizie … quale schermo per occultare la effettiva attività illecita di C.F. e degli altri soggetti amministratori di fatto della stessa U. Srl, ossia S.E., I.E., Frison Claudio e R.B., alla stregua di una società di fatto fra detti soggetti autori dell’illecito».

La ricostruzione dell’attività fraudolenta, sorretta da una pluralità di argomenti – tra i quali la sentenza di patteggiamento che «offre un quadro di riferimento generale»; l’evidente qualità di mero prestanome dell’amministratore formale (deceduto dopo un periodo di infermità a pochi mesi dalla costituzione della società); l’inesistente versamento del capitale sociale; le dichiarazioni di terzi; l’interrogatorio dello stesso indagato I.E. -, ha pertanto condotto la CTR a ritenere che «U. era utilizzata come soggetto documentalmente apparente nella veste di acquirente intracomunitario delle auto che provvedeva alla rifatturazione ad un prezzo inferiore a quello di acquisto e alla sottrazione dell’imposta all’erario, mai avendo effettuato versamento Iva».

La CTR, inoltre, ha dato specifico risalto al fatto che la posizione di assoluta preminenza del C.F., «quale amministratore di fatto di U. Srl, cioè quale soggetto effettivo interessato, referente e gestore», emergeva da una pluralità di riscontri, e, tra l’altro, dalle plurime dichiarazioni rese da dipendenti e coindagati («anche dalle dichiarazioni di Angeli Tiziano, dipendente della Trans Auto, il quale ha affermato che dietro varie società, tra cui U., “agivano C.F. e S.E. (…) S.E. “era colui che si occupava di indicare dove andare a caricare le auto all’estero ed a chi fatturare per il tragitto”, mentre C.F. “era colui che gestiva le vetture una volta giunte in Italia, comunicando a chi consegnarle»; «dall’interrogatorio dell’indagato I.E. emerge il ruolo di C.F. quale collocatore delle auto in Italia “dopo che le stesse erano formalmente acquistate dalle varie cartiere” (…) “comunicavamo a S.E. ed a C.F. che le vecchie cartiere non erano più da utilizzare e che al loro posto subentravano nuovi soggetti giuridici che avrebbero svolto il ruolo in precedenza tenuto altre società»).

11.3 Ne deriva che la CTR non solo non ha omesso di pronunciare ma, in concreto, ha specificamente accertato che il C.F. (seppure insieme al S.E.) era colui che si ingeriva uti dominus nella società U. Srl, che era totalmente asservita e delle cui attività egli poteva liberamente disporre, facendo proprie le relative risorse e stabilendo le direttive e le indicazioni operative.

11.4 Il quinto motivo va invece dichiarato inammissibile, neppure ponendosi, alla luce dei principi sopra esposti, una questione di applicabilità dell’art. 7 d.l. n. 269 del 2003: le sanzioni, difatti, correttamente sono state irrogate al ricorrente in relazione al rapporto fiscale a lui strettamente riferibile in quanto effettivo possessore del reddito d’impresa.

12. Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., omessa pronuncia in ordine alla contestata quantificazione dei ricavi accertati in capo alla società U. Srl ai fini Irpeg e Irap.

12.1 Il motivo è infondato.

La CTR, infatti, nell’affermare espressamente «appaiono dunque condividibili le motivazioni della sentenza di primo grado, che merita conferma», ha integralmente rigettato l’appello, ivi compresa la doglianza con cui si contestava la determinazione del quantum della ripresa.

Non sussiste dunque l’omessa pronuncia.

13. Il settimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 4 c.p.c., sul medesimo profilo ove la CTR abbia statuito sulla questione, il vizio di motivazione apparente od omessa.

13.1 Neppure tale doglianza è fondata.

La CTR, invero, ha sì richiamato la sentenza di primo grado ma come esito di un lungo ed articolato percorso argomentativo, frutto evidente di autonoma valutazione e concreta ponderazione delle risultanze in giudizio e della stessa motivazione della CTP alla luce dei correlati motivi di gravame.

E, del resto, la stessa CTP – che, tra l’altro, ha affermato, all’esito

della complessiva valutazione degli elementi in giudizio, di ritenere che «l’Ufficio abbia operato correttamente anche nella ricostruzione dei calcoli per quantificare il reddito percepito dalla società e per verificare il ricavo» – ha, in realtà, operato un accertamento in fatto, condensato in una motivazione che, pur sintetica, non era meramente apparente.

14. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese, liquidate in dispositivo, sono regolate per soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità a favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in complessive € 25.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.