Corte di Cassazione sentenza n. 24526 depositata il 9 agosto 2022
condomini – limitazioni dei diritti di ciascun condomino sulla porzione di sua proprietà esclusiva – validità ed efficacia delle clausole del regolamento condominiale – negazione delle clausole integra una mera difesa, come tale non soggetta a preclusioni di sorta
FATTI DI CAUSA
C.S., G.D. e G.B., proprietari di appartamenti facenti parte del condominio sito in Barletta, via XX nn. 130/3 e 139/5, convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Trani, sezione distaccata di Barletta, A.D., proprietario di parte del piano terra e di quello cantinato, affinché fosse condannato a cessare l’attività di pasticceria e di relativo laboratorio artigianale ivi esercitata, nonché a rimuovere le opere connesse. In particolare – e limitatamente a quanto ancora forma oggetto del ricorso per cassazione – gli attori deducevano che tale attività, di tipo artigianale, non era ammessa dall’art. 20 del regolamento di condominio, il quale vietava di adibire gli appartamenti e i locali di proprietà esclusiva ad uso altri vietati) artigianale. Lamentavano, inoltre, che il convenuto aveva: a) trasformato l’atrio scoperto di pertinenza del locale a piano terra, destinato a parcheggio, in un vano adibito a laboratorio, con presenza di macchinari; b) apposto una canna fumaria sulla facciata del fabbricato, asservendola così alla sua proprietà individuale; c) occupato una parte della corsia di manovra dei box auto con ciclomotori e utensili di pasticceria ed abbassato la volta dei box, per allocarvi ulteriori tubazioni per espellere i fumi di produzione dell’attività; d) apposto un cancello antistante la serranda del box di sua proprietà, all’interno del quale aveva installato, altresì, i macchinari produttivi dei fumi immessi nella predetta corsia dei box; e) messo in comunicazione il piano terra con quello cantinato, attraverso la realizzazione di una scala interna e una copertura nel solaio del piano terra, mettendo a rischio la stabilità dell’edificio. In subordine, per l’ipotesi di rigetto, chiedevano che fossero rideterminate le tabelle millesimali in ragione delle trasformazioni realizzate dal D.; e a tal fine era disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini, A.M. e M.V.D., che restavano contumaci.
Nel resistere in giudizio il convenuto contestava che l’art. 20 del regolamento condominiale vietasse di adibire le proprietà individuali ad attività artigianali, e negava la dedotta illegittimità delle opere che aveva realizzato.
Il Tribunale accoglieva la domanda principale.
L’appello di A.D. era respinto dalla Corte distrettuale di Bari, con sentenza n. 616/17. Detta Corte osservava che il richiamo all’art. 1138, ultimo comma, c.c., contenuto nel primo motivo, col quale l’appellante aveva dedotto che il regolamento condominiale non può porre limiti alle unità immobiliari di proprietà esclusiva, non era pertinente al caso di specie, riferendosi al divieto di possedere o detenere animali domestici; che era infondata la doglianza di violazione degli artt. 1138, quarto comma, e 1362 c.c., sull’interpretazione del regolamento condominiale, atteso che quest’ultimo aveva natura contrattuale e che tra gli usi vietati nelle unità immobiliari di proprietà individuale erano chiaramente ed espressamente indicati l’esercizio di negozi e di attività artigianali; che, di riflesso, il D., oltre a dover cessare la propria attività, doveva rimuovere anche tutte le opere realizzate, perché funzionali a tale esercizio; che, invece, quanto all’occupazione delle corsie di manovra per il parcheggio dei ciclomotori, la rimozione doveva essere disposta per la violazione dell’art. 8 del regolamento condominiale, che rimetteva all’assemblea e all’amministratore del condominio il potere di autorizzarne l’occupazione temporanea, sempre che ciò non impedisse agli altri partecipanti di farne parimenti uso.
Per la cassazione di tale sentenza A.D. propone ricorso, affidato a sei motivi. Resistono con controricorso C.S., G.D. e G.B.. A.M. e M.V.D. sono rimasti intimati.
Il ricorso è stato trattato in pubblica udienza secondo le modalità di cui all’art. 23, comma 8-bis, D.L. 137/20, convertito in legge n. 176/20, la cui applicazione è stata prolungata fino al 31.12.2021 dall’art. 7, primo comma, D.L. n. 105/21, convertito in legge n. 126/21.
I controricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo di ricorso espone la violazione dell’art. 1138, quarto comma, c.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. Parte ricorrente premette che il primo motivo d’appello conteneva un evidente errore materiale nell’indicare come violato l’ultimo, invece del quarto, comma dell’art. 1138 c.c., e che l’errata individuazione della norma violata non è causa né d’inammissibilità né d’infondatezza del motivo. Quindi, rettamente ricondotta al quarto comma dell’art. 1138 c.c. la doglianza con cui aveva dedotto in appello l’illegittimità delle limitazioni imposte dall’art. 20 del regolamento condominiale alle proprietà individuali, ribadisce che il Tribunale avrebbe dovuto disapplicare tale previsione regolamentare.
2. – Il secondo mezzo denuncia l’omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c. ed in rapporto al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., del secondo motivo d’appello, atteso che la sentenza impugnata non ha in alcun modo valutato la dedotta, in allora, violazione del canone ermeneutico dell’art. 1362 c.c., la cui corretta applicazione avrebbe evidenziato che il regolamento disciplinava soltanto l’uso delle parti comuni, non anche quello delle proprietà individuali. E chiede, quindi, che sul relativo motivo d’impugnazione si pronunci questa Corte, “non avendolo fatto la Corte di Appello”.
3. – Analogamente il terzo mezzo di ricorso, col quale parte ricorrente si duole dell’omessa pronuncia sul terzo motivo d’appello, inteso ad evidenziare che l’art. 20 del regolamento condominiale, nel vietare di adibire l’appartamento o il locale di proprietà singola ad un uso diverso dall’abitazione o studio, viola apertamente l’art. 1138, quarto comma, c.c., in base al quale le norme del regolamento contrattuale non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti d’acquisto, sicché il regolamento, nella specie, rimettendo all’assemblea il potere di consentire usi diversi, sembrerebbe avere natura non contrattuale ma assembleare.
4. – Col quarto motivo è denunciata la violazione dell’art. 1138, quarto comma, c.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. Parte ricorrente nega che l’art. 20 del regolamento condominiale si riferisca o si possa riferire, senza violare la ridetta norma, all’uso artigianale, locuzione generica e indeterminata che non sarebbe espressiva di una volontà chiaramente manifestata. A confutazione, poi, del potere di porre un siffatto divieto, parte ricorrente invoca l’applicazione del precedente n. 21024/16 di questa Corte, secondo cui la previsione, contenuta in un regolamento condominiale convenzionale, di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, incidendo non sull’estensione ma sull’esercizio del diritto di ciascun condomino, va ricondotta alla categoria delle servitù atipiche e non delle obbligazioni propter rem, difettando il presupposto dell’agere necesse nel soddisfacimento d’un corrispondente interesse creditorio; ne consegue che l’opponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti va regolata secondo le norme proprie delle servitù e, dunque, avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, mediante l’indicazione, nella nota di trascrizione, delle specifiche clausole limitative, ex artt. 2659, comma 1, n. 2, e 2665 c.c., non essendo invece sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale. Nella specie, soggiunge parte ricorrente, non risultano essere stati mai trascritti i limiti imposti dal regolamento alle proprietà singole.
5. – Col quinto motivo è dedotta la violazione dell’art. 41 Cost., sempre in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., perché la sentenza impugnata incide, vietandola, su di un’attività economica intrapresa dal ricorrente sin dal 1991, senza una sola ragione che lo giustifichi.
6. – Il sesto mezzo allega la violazione degli artt. 1102 e 1362 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. La dedotta fondatezza dei precedenti motivi, si afferma, vale a confutare le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata per derivare l’illegittimità delle opere realizzate dal D., e cioè: a) la tettoia che chiude lo spazio antistante il fondo al primo piano per adibirlo a ricovero degli attrezzi; b) la collocazione della canna fumaria; c) il manufatto attraverso il quale è stata ribassata la volta del piano cantinato; d) il cancello apposto a chiusura del box di proprietà D.. Aggiunge parte ricorrente che ai sensi dell’art. 1102 c.c.e della relativa giurisprudenza di legittimità è legittimo l’uso più intenso della cosa comune, purché nel rispetto del godimento effettivo o potenziale degli altri comproprietari, godimento che nel caso in esame non è provato sia stato impedito.
5. – I primi tre mezzi di ricorso – da esaminare congiuntamente perché complementari e parzialmente ripetitivi – aggrediscono sotto profili interagenti (violazione di legge ed omessa pronuncia) la sentenza impugnata, nella parte in cui questa avrebbe mancato di statuire sulla dedotta violazione o falsa applicazione dell’art. 1138 c.c. Essi sono infondati. Nonostante la mancata rilevazione dell’evidente errore materiale in cui era incorsa parte appellante nel formulare il primo motivo di gravame, lì dove era denunciata la violazione dell’ultimo, invece del quarto, comma dell’art. 1138 c.c., la Corte distrettuale ha poi provveduto sulla vera critica svolta, pronunciandosi chiaramente sul secondo motivo d’appello, che la violazione di tale quarto comma pure aveva denunciato. E a tal riguardo ha affermato che il regolamento del condominio di via XX n. 130/3 e 130/5 «ha natura contrattuale e da ciò deriva la piena vincolatività delle limitazioni all’uso della parti comuni e delle parti in proprietà esclusiva in esso contenute», tra le cui limitazioni, esplicito – ha ritenuto la Corte territoriale – il riferimento alle attività artigianali, quale, appunto, quella svolta dal D..
6. – L’anzidetta affermazione di diritto è oggetto, invece, del quarto mezzo di ricorso, il cui nucleo, compendiato nel richiamo alle pronunce nn. 21024/16, 3002/10, 10523/03 e 1560/95 di questa Corte Suprema, risiede essenzialmente nella negazione che il regolamento condominiale, il quale vieti determinate destinazioni degli immobili di proprietà singola, attribuendo all’assemblea il potere di consentirne la deroga, abbia effettiva natura contrattuale, e nella conseguente postulazione che tali divieti possono operare solo se risultanti da una volontà espressamente e chiaramente manifestata in forma contrattuale e da un atto debitamente trascritto.
6.1 – Nei termini che seguono, il motivo è fondato.
6.1.1. – Preliminarmente va rilevata l’infondatezza dell’assunto di parte controricorrente, secondo cui tale mezzo sarebbe inammissibile, in quanto l’odierno ricorrente nel giudizio di primo grado non avrebbe mosso censure in merito alla validità ed efficacia del regolamento condominiale; assunto, questo, ribadito e ampliato nella memoria di detta parte, ove si sostiene essersi formato un giudicato interno sulla relativa questione.
Premesso che validità ed efficacia delle clausole del regolamento condominiale di cui si discute attengono agli elementi costitutivi del diritto oggetto della domanda giudiziale, e che, dunque, la loro negazione integra una mera difesa, come tale non soggetta a preclusioni di sorta; ciò premesso, va osservato che la contestazione della validità di tali clausole, siccome poste in violazione dell’art. 1138, quarto comma, c.c., era oggetto del secondo motivo d’appello, per cui non è configurabile nessun (benché implicito) giudicato interno.
6.2. – In base all’art. 1138 c.c. il regolamento di condominio contiene le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione (primo comma). Esso deve essere approvato dall’assemblea con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell’articolo 1136 c.c. ed allegato al registro indicato dal numero 7) dell’art. 1130 c.c., e può essere impugnato a norma dell’art. 1107 c.c. (terzo comma). Inoltre, le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti d’acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli artt. 1118, secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 c.c. (quarto comma). Non di meno, è evidenza ricorrente nella pratica giudiziaria che i regolamenti, ove formatisi con tecnica contrattuale, oltre a regolare l’uso delle parti comuni contengano sovente apposite clausole limitative dei diritti di ciascun condomino sulla porzione di sua proprietà esclusiva. Si tratta, per lo più, di divieti di fruizione economica o di destinazione diretta ad attività (produttive, ludiche, sanitarie ecc.) potenzialmente idonee ad arrecare disturbo alla primaria modalità di godimento abitativa. La giurisprudenza di questa Corte è costante, innanzi tutto, nell’affermare che i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti (cfr. n. 21307/16, la quale ha cassato la decisione impugnata che, dalla presenza di una clausola del regolamento di condominio espressamente limitativa della destinazione d’uso dei soli locali cantinati e terranei a specifiche attività non abitative, aveva tratto l’esistenza di un vincolo implicito di destinazione, a carattere esclusivamente abitativo, per gli appartamenti sovrastanti, uno dei quali era stato invece adibito a ristorante-pizzeria, mediante scala di collegamento interna ad un vano ubicato al piano terra; v. in senso conforme, nn. 19229/14 e 9564/97). Il relativo accertamento è rimesso al giudice di merito, implicando una caratteristica valutazione di fatto. Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto che la previsione dell’art. 20 del regolamento condominiale includa, tra le attività artigianali, anche quella di pasticceria, con apprezzamento non efficacemente contrastato, perché la critica che parte ricorrente vi oppone è del tutto disgiunta dalla dimostrazione del malgoverno delle regole che presiedono all’attività ermeneutica contrattuale. Si pone, pertanto, la questione, sollecitata dal motivo, inerente al potere di stabilire il predetto limite alla destinazione di un fondo di proprietà individuale.
6.2. – Le limitazioni all’uso delle parti di proprietà individuale non formano oggetto del potere regolamentare, così come (pre)costituito dal primo comma dell’art. 1138 c.c. Ove, non di meno, siano contenute in un regolamento di condominio, esse in tanto sono efficaci in quanto siano espressione dell’accordo di tutti i condomini, il che chiama in causa ciò che si intende con il sintagma “regolamento contrattuale”. La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito ormai da tempo che le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall’originario proprietario dell’edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonché quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare. Ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall’unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 secondo comma c.c. (S.U. n. 943/99). Di riflesso, la necessità della forma scritta, che limitatamente alle clausole del regolamento aventi natura contrattuale, è imposta dalla circostanza che queste incidono sui diritti immobiliari dei condomini sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni oppure attribuiscono a taluni condomini diritti di quella natura maggiori di quelli degli altri condomini (v. S.U. n. 943/99; conformi, nn. 5626/02 e 24146/04). Il fatto che la medesima tecnica contrattuale (scilicet, il rinvio al regolamento predisposto dal costruttore contenuto nei singoli contratti di trasferimento delle unità singole) sia impiegata per dar vita a un regolamento che contenga tanto le previsioni sull’uso delle cose comuni, quanto eventuali limitazioni incidenti sulle proprietà individuali, non significa che tutto ciò che il regolamento stesso contenga sia, per ciò solo e ad ogni effetto, di natura contrattuale. Al contrario, dove c’è disposizione regolamentare, nell’accezione propria del termine ai sensi del primo comma dell’art. 1138 c.c., non c’è contratto o convenzione, come si desume dal quarto comma dell’art. 1138 c.c., e viceversa. Non può che condividersi, allora, quanto affermato da autorevole dottrina, secondo cui il regolamento condominiale contrattuale puramente e semplicemente non esiste se non come formula verbale riferita ad una delle due possibili tecniche di formazione, piuttosto che alla sua natura. Per quanto d’uso giurisprudenziale corrente in materia, l’espressione “regolamento contrattuale”, se presa alla lettera, costituisce quasi un ossimoro e si presta, quindi, ad un facile equivoco. Questo consiste nel non considerare che il regolamento, ove disciplini anche altro che non sia l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese in maniera conforme ai criteri di cui agli artt. 1123 e ss. c.c., è in parte qua un contratto e non un regolamento, quale che sia la sua modalità di formazione, e cioè ad opera del costruttore e con riproduzione negli atti di vendita delle unità singole oppure in base all’accordo specifico, consapevole e totalitario dei condomini tutti riuniti in assemblea. Ed essendo un contratto, esso deve corrispondere ad una tecnica formativa di pari livello formale e sostanziale, che si traduce in una relatio perfecta attuata mediante l’inserimento, all’interno dell’atto d’acquisto dell’unità immobiliare individuale, delle parti del regolamento aventi natura negoziale ed effetto limitativo della proprietà singola, non bastando, per contro, il solo rinvio al regolamento stesso. Nel suddetto equivoco è incorsa in pieno la Corte barese, allorché ha condensato la decisione nell’assunto per cui dalla natura contrattuale del regolamento «deriva la piena vincolatività delle limitazioni all’uso delle parti comuni e delle parti in proprietà esclusiva in esso contenute» (v. pag. 3), senza curarsi di accertare se nel titolo d’acquisto dell’odierno ricorrente siffatte limitazioni alla destinazione dell’unità immobiliare siano state effettivamente riprodotte, e non già semplicemente desumibili dal mero rinvio al regolamento che materialmente le contiene. Tale affermazione della sentenza impugnata, oltre a violare l’art. 1138, quarto comma, c.c., dando per automatico e presupposto l’effetto limitativo della proprietà singola in virtù della sola tecnica contrattuale di formazione del regolamento che tale limitazione racchiude, ha generato di riflesso una carente verifica del contenuto del titolo da cui proviene la proprietà D., nel senso che la Corte territoriale non ha accertato se questo contenga un mero rinvio al regolamento condominiale o se riproduca espressamente le clausole limitative della proprietà singola.
6.2.1. – Questo il principio di diritto ai sensi dell’art. 384, primo comma, c.p.c.: “Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il proprio immobile a determinate destinazioni, hanno natura contrattuale e, pertanto, ad esse deve corrispondere una tecnica formativa di pari livello formale e sostanziale, che consiste in una relatio perfecta attuata mediante la riproduzione delle suddette clausole all’interno dell’atto d’acquisto della proprietà individuale, non essendo sufficiente, per contro, il mero rinvio al regolamento stesso”. 6.3. – Dalla sentenza impugnata non è dato desumere, inoltre, se l’odierno ricorrente abbia acquistato il proprio immobile dal costruttore o da un precedente condomino. Ciò è rilevante in quanto, in tale sola ultima ipotesi, è necessario che le limitazioni di cui si discute, ove non espressamente contenute nell’atto stesso di vendita, risultino trascritte contro detta proprietà in data anteriore all’acquisto fattone dal D.. Ed in tal caso non è indispensabile la loro riproduzione nel contratto stesso. La necessità di tale accertamento scaturisce dal principio della relatività degli effetti negoziali, ai sensi dell’art. 1372, cpv. c.c. Principio che ha posto in giurisprudenza la questione del se e del come, in ambito condominiale, si possa predicare un’efficacia ultra partes delle clausole che limitino l’uso o la destinazione delle proprietà individuali. La giurisprudenza di questa C.S. ha espresso nel tempo opinioni divergenti, avendole ricondotte a tre diverse categorie giuridiche: onere reale, obligatio propter rem o servitù.
6.3.1. – La prima opzione è, ad un tempo, la più difficile da dimostrare e la più risalente nel tempo. Più difficile da dimostrare, per l’assenza di una precisa definizione normativa e per il limitato contributo della scienza giuridica, che per lo più si è interrogata, in passato, sulla possibilità che nel nostro ordinamento fossero ancora riproducibili oneri reali per iniziativa privata. Più risalente nel tempo, perché formulata la prima volta in una sentenza di questa Corte del 21.3.1927, in base alla quale «le limitazioni convenzionali reciproche di proprietà stabilite fra proprietari di fondi in rapporto agli edifici che possono costruirsi sui fondi stessi, pur non costituendo servitù, vincolano, quando siano regolarmente trascritte, gli eredi e gli aventi causa dei contraenti». Tale decisione (che tutto sommato non andava oltre una scelta di tipo terminologico) generò una giurisprudenza conforme che, contraria la dottrina unanime, tenne banco fino agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso, allorché fu progressivamente abbandonata a favore della tesi della tipicità degli oneri reali e delle obligationes proptem rem, gli uni e le altre ammissibili solo nei casi previsti dalla legge (cfr. nn. 596/58, 3982/57 e 141/51). Non di meno, e non senza un’interna contraddizione logico-giuridica, l’idea che le limitazioni in oggetto siano, o meglio possano qualificarsi come oneri reali è sopravvissuta fino ai giorni nostri, espressa, sia pure in maniera tralaticia, in alcune pronunce di questa Corte, che quasi mai, però, ha espressamente e chiaramente preso partito a favore di tale ipotesi. Così nell’ordinanza n. 5336/17 si accenna agli oneri reali, nel senso che le limitazioni in oggetto sono alternativamente ricondotte a tale categoria, ad obbligazioni ob rem o a servitù al solo scopo di ritenere invalide le clausole che, con formulazione del tutto generica e inidonea, peraltro, a superare la presunzione ex art. 1117 c.c., limitino il diritto dei condomini di usare, godere o disporre dei beni condominiali, riservando all’originario proprietario l’insindacabile diritto di apportare modifiche alle parti comuni, con conseguente intrasmissibilità di tale facoltà ai successivi acquirenti. Allo stesso modo, anche la sentenza n. 4920/06, avente ad oggetto una clausola del regolamento condominiale limitativa degli usi delle proprietà singole, pone in alternativa tra loro servitù reciproche e gli oneri reali, ma solo per trarne le conseguenze sulla partecipazione al giudizio del proprietario oltre che del conduttore (peraltro enunciata mediante il semplice richiamo a giurisprudenza anteriore). Pure la sentenza n. 18665/04 accenna all’alternativa tra servitù e oneri reali, ma solo per esigere nell’un caso come nell’altro il requisito di forma scritta ad substantiam. Ancora, la decisione n. 5626/02 (conformi le nn. 24146/04 e 17694/07) parla delle clausole dei regolamenti che limitino i diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni, ma in effetti si riferisce solo a quest’ultima ipotesi, come di clausole costitutive di oneri reali o di servitù prediali, da trascrivere nei registri immobiliari della conservatoria per l’opponibilità ai terzi. Ed anche in tal caso senza optare per l’una o l’altra soluzione, non richiedendolo l’oggetto del decidere. Bisogna risalire alla sentenza n. 11684/00 per una meditata presa di posizione sulle varie ipotesi, lì dove questa C.S. ha sostenuto che la previsione da parte del regolamento condominiale di un peso a carico di una proprietà singola e a favore di altre unità immobiliari condominiali integra una servitù, l’imposizione di prestazioni positive a carico di alcuni condomini e a favore di altri soggetti, condomini o meno, è un onere reale e la limitazione del godimento o dell’esercizio del diritto del proprietario singolo, quale il divieto di esercitare nell’immobile determinate attività, un’obligatio propter rem. E va notato, indipendentemente poi dalla soluzione accolta, che l’ipotesi dell’onere reale è esattamente esclusa in quanto quest’ultimo ha ad oggetto una prestazione periodica e positiva, cioè di dare o di facere (ma prevalentemente di dare). Scarso peso specifico va attribuito, invece, alla sentenza n. 4509/97, massimata nel senso che le limitazioni nell’interesse comune ai diritti dei condomini, anche relativamente al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà, costituiscono oneri reali, poiché tale massima riproduce, in realtà, un mero obiter dictum contenuto nella motivazione, in quanto la pronuncia si basa su tutt’altra ratio decidendi. Sempre alla categoria degli oneri reali si rifà la sentenza n. 11019/91, che qualifica tali le limitazioni ai poteri e alle facoltà che i singoli condomini hanno sulle parti di proprietà esclusiva, al fine di garantire il miglior godimento del bene altrui o comune, con riguardo specifico ai posti macchina di proprietà esclusiva e al correlato divieto di recintarli. Si legge nella motivazione di tale sentenza che la tesi per cui non sarebbe possibile in base ad un contratto prevedere delle limitazioni alle facoltà dei condomini sulla parti di loro proprietà esclusiva “trova ostacolo in precise ragioni di diritto acquisito alla esperienza giurisprudenziale, che in virtù dell’esigenza di non negare il riconoscimento a situazioni giuridiche create dalla libera volontà delle parti, al di fuori degli schemi tipici e tradizionali dei diritti reali ha riconosciuto all’autonomia privata la facoltà di imprimere sulla proprietà immobiliare, mediante convenzione, degli oneri che incorporandosi in essa la accompagnano nei successivi trasferimenti anche a titolo particolare. Le ragioni di fondo di tale orientamento, in particolare nell’ambito condominiale che qui specialmente interessa, via via precisatosi, anche alla luce della direttiva costituzionale che in tema di proprietà afferma la funzione sociale di essa, trovano supporto nell’ovvia premessa che il diritto di proprietà è suscettibile di compressione (ex lege o ex contractu), talché quando le parti pongono limitazioni ai poteri e alle facoltà che i singoli condomini hanno iure proprietatis sulle loro parti esclusive, tali obbligazioni sono obbligatorie ed hanno il carattere di oneri reali, in quanto stabilmente ed oggettivamente dirette ad una migliore utilizzazione collettiva dell’edificio”. Tale breve excursus giurisprudenziale dimostra come il collegamento tra onere reale e limitazione alle facoltà di godimento delle proprietà singole in ambito condominiale si basi (eccettuato il caso della sentenza n. 11684/00) su proposizioni sostanzialmente apodittiche. Il cui torto risiede nel non detto, vale a dire nel dare per scontato che una tale limitazione, per il fatto di costituire un peso e di inerire ad un fondo, appartenga alla suddetta categoria più che altro per esclusione, non potendosi dare servitù in assenza di un dato fondo dominante. Ma tale conclusione non pare condivisibile, sia perché le servitù possono essere reciproche (e dunque l’argomento inespresso non ha pregio), sia perché l’onere reale (in disparte la sua origine remota e la sua funzione primigenia) ha una diversa struttura, irriducibile alla situazione indagata. L’onere reale, infatti, (i) consiste in un’obbligazione periodica di dare o di facere (ma in realtà gli unici casi censiti e censibili prevedono solo un dare, ben dubbie essendo altre ipotesi quali gli artt. 960, primo comma, e 981, primo comma, c.c.) in favore del proprietario di un altro fondo o del medesimo fondo (ove il proprietario sia diverso dal possessore oblato), giustificata dal vantaggio che al soggetto obbligato deriva dal possedere un bene altrui ovvero dalla necessità di compensare il dominio concorrente sul bene stesso o altre prestazioni del creditore che arrecano utilità al fondo; (ii) in caso di mancato pagamento il relativo credito è assistito dalla garanzia reale sul medesimo bene onerato; (iii) si estingue mediante il c.d. abbandono liberatorio; e, infine, (iv) pacificamente può essere previsto solo dalla legge o nei casi da quest’ultima consentiti. Nessuna di queste caratteristiche è ravvisabile nelle limitazioni all’uso delle proprietà singole. Esse, innanzi tutto, non sono obbligazioni perché non consistono in un agere necesse del debitore per il soddisfacimento dell’interesse del creditore. Il non facere che grava sul proprietario non è il contenuto di un’obbligazione, ma la conseguenza del diritto minore che spetta agli altri proprietari singoli sul suo immobile, null’altro, dunque, che un dovere di astensione per l’esistenza di un diritto in re aliena; tale non facere non ha carattere periodico ma continuativo; non è assistito da garanzia sull’immobile; e deriva da un atto di pura autonomia privata in un ambito in cui questa non è né assentita né esclusa dalla legge. Del resto, vale considerare che in tanto si suole affermare che nell’onere reale è come se ad essere obbligata sia la res piuttosto che il suo possessore, in quanto tale figura nasce all’interno non dello statuto del diritto di proprietà, ma della concezione giuridica, tipicamente medioevale, della res in sé considerata. Mutato tale angolo visuale, la realità dell’onere non deriva da una sorta di qualitas fundi, ma risiede tutta e soltanto nella funzione di garanzia specifica dell’obbligazione che vi si ricollega. Non a caso, l’art. 21 del R.D. n. 215/33, in tema di bonifica integrale, (che ha superato indenne il vaglio di legittimità costituzionale) prevede che i contributi di bonifica sono esigibili con le norme ed i privilegi previsti per (l’allora) imposta fondiaria, prendendo grado immediatamente dopo tale imposta e le relative sovrimposte. Già solo questo consente di affermare e concludere che, in difetto di una previsione di garanzia, si è senz’altro al di fuori della figura dell’onere reale.
6.3.2. – Minor fortuna ha avuto nella giurisprudenza la tesi per cui si tratterebbe di obligationes propter rem. Se si eccettua la già citata sentenza n. 11684/00, che espressamente ricollega le limitazioni di determinati usi alle obligationes propter rem, si nota come il richiamo a detta categoria si sia materializzato principalmente con riguardo o al divieto, nelle porzioni di proprietà individuale, di eseguire opere o di svolgere attività che rechino danno alle parti comuni dell’edificio (v. nn. 3123/12, 15763/04, 11692/99, 11717/97 e 3472/76) o all’obbligo di pagamento degli oneri condominiali per la conservazione delle cose comuni (nn. 6323/03, 8924/01, 4797/01, 1152/97, 1890/95, 6844/88 e 2658/87).
Quanto sopra osservato per confutare l’ipotesi che le limitazioni di determinati usi delle unità immobiliari di proprietà singola costituiscano oneri reali, vale anche per escludere che esse siano qualificabili come obligationes propter rem. Vi osta principalmente il fatto che, come detto sopra, non si tratta di obbligazioni, mancando il requisito dell’agere necesse nel soddisfacimento d’un corrispondente interesse creditorio, che connota invece l’obbligazione anche se avente ad oggetto un non facere (cfr. n. 21024/16); che, inoltre, le obligationes propter rem possono avere per oggetto unicamente un dare o un facere; e che esse sono sottratte alla libera autonomia delle parti, nel senso che quest’ultima può prevederle solo nell’ambito di una consentanea previsione legislativa (v. ad es. l’art. 1030 c.c.). E dunque, nei pur pochi casi in cui si è affermato o almeno ipotizzato che le limitazioni in oggetto potessero ricondursi alla figura dell’obligatio propter rem, la giurisprudenza di legittimità ha finito per contraddire sé stessa, visto che tali limitazioni non sono espressamente ammesse né il loro contenuto è in alcun modo previsto dalla legge. Ma vi è un’ulteriore ragione che non consente di configurare un’obligatio propter rem, quanto meno nelle ipotesi (che sono le più ricorrenti) in cui le limitazioni siano previste a carico ed a vantaggio di tutti i fondi di proprietà esclusiva. In tal caso, infatti, la reciprocità della limitazione è tale da costituire ciascun proprietario verso tutti gli altri quale debitore di un’obbligazione di non facere e creditore di un diritto perfettamente speculare (cfr. n. 21024/16, la quale ha osservato che la reciprocità delle obbligazioni comporta che ciascun soggetto del rapporto assume, ad un tempo, entrambe le posizioni, debitoria e creditoria, in virtù di una causa di scambio, la quale, a sua volta, ha ad oggetto delle utilità differenti. Pertanto, non vi può essere obbligazione reciproca quando ciascuno debba prestare all’altro un eguale speculare a quello cui questi è tenuto verso di lui.).
6.3.3. – Anche se solo di recente, la giurisprudenza di questa Corte può ritenersi assestata sulla tesi per cui le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio, volte a vietare lo svolgimento di determinate attività all’interno delle unità immobiliari esclusive, costituiscono servitù reciproche e devono perciò essere approvate mediante espressione di una volontà contrattuale, e quindi con il consenso di tutti i condomini, mentre la loro opponibilità ai terzi, che non vi abbiano espressamente e consapevolmente aderito, rimane subordinata all’adempimento dell’onere di trascrizione (così, da ultimo, n. 17159/22, non massimata, che a sua volta cita le nn. 6769/18, 23/04, 5626/02, 4963/01, 49/92, 4554/86; cui adde le nn. 277/64, 4781/83, 49/92, 11688/99, 4920/06, 1064/11, 14898/13 e 21024/16). Già la sentenza n. 7515/86 precisò per la prima volta che l’art. 2659, primo comma, n. 2, c.c., secondo cui nella nota di trascrizione devono essere indicati il titolo di cui si richiede la trascrizione e la data del medesimo, va interpretato in collegamento con il successivo art. 2665 c.c., il quale stabilisce che l’omissione o l’inesattezza delle indicazioni richieste nella nota non nuoce alla validità della trascrizione “eccetto che induca incertezza sulle persone, sul bene o sul rapporto giuridico a cui si riferisce l’atto”. Ne consegue che dalla nota deve risultare non solo l’atto in forza del quale si domanda la trascrizione ma anche il mutamento giuridico, oggetto precipuo della trascrizione stessa, che quell’atto produce in relazione al bene. Pertanto, non basta che nella nota di trascrizione sia citato il regolamento di condominio c.d. contrattuale, ma occorre indicarne le clausole incidenti in senso limitativo dei diritti dei condomini sui beni condominiali (o sui beni di proprietà esclusiva) (nello stesso senso, più di recente, si è espressa la sentenza n. 17493/14). La necessaria premessa di tale orientamento, cui va assicurata continuità, risiede nell’ammissibilità (pacifica in dottrina e in giurisprudenza: v. sentenza n. 3258/83) sia di servitù atipiche, tipico essendo il solo genus così come regolato dagli artt. 1027 e ss. c.c., sia di servitù reciproche (anch’esse senz’altro ammesse dalla giurisprudenza di questa Corte: cfr. ex pluribus e tra le più recenti, le nn. 524/21, 14820/18 e 5336/17). Queste ultime comportano che ciascun fondo è, ad un tempo, servente e dominante, data la corrispondenza biunivoca del peso imposto da un’apposita previsione contenuta nel regolamento contrattuale, a carico ed a favore di ciascuna unità di proprietà singola. Trattandosi di servitù, la loro opponibilità ai terzi acquirenti di ciascuna unità singola dipende dalla trascrizione, prevista dall’art. 2643, n. 4 c.c., che deve riguardare la specifica convenzione che contenga la servitù stessa, con particolare richiamo alle clausole relative e al loro contenuto. Con la creazione del condominio per effetto della prima alienazione, la servitù è costituita a favore e contro il primo immobile di proprietà singola, da un lato, ed a favore e contro i restanti fondi ancora invenduti, dall’altro, e così via finché con l’ultima vendita ciascuna unità singola diviene servente e dominante verso ognuna delle altre. In assenza di trascrizione, può essere sufficiente anche il solo contenuto dell’atto di vendita, ma alla duplice condizione che: a) esso sia corredato della specifica indicazione delle clausole impositive della servitù, essendo del tutto insufficiente, come s’è detto supra al par. 6.2., il mero rinvio al regolamento condominiale; e b) dette clausole siano ripetute nei successivi atti di trasferimento, poiché diversamente torna ad operare il limite dell’art. 1372 c.c. Non senza precisare, però, che in tal modo, atteso che il richiamo alla servitù diviene parte integrante di ogni titolo d’acquisto della proprietà (dal primo ai successivi), tecnicamente non si può parlare di opponibilità della servitù, bensì dell’iterazione della sua preesistenza negli atti traslativi del medesimo bene immobile.
6.4. – Nei termini che seguono il principio di diritto, ex art. 384, primo comma, c.p.c.: “Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il loro immobile a determinate destinazioni, costituiscono servitù reciproche a favore e contro ciascuna unità immobiliare di proprietà individuale, e sono soggette, pertanto, ai fini dell’opponibilità ultra partes, alla trascrizione in base agli artt. 2643, n. 4 e 2659, primo comma, n. 2 c.c.”.
7. – L’accoglimento del quarto motivo importa l’assorbimento in senso proprio del quinto mezzo di ricorso, siccome svolto in termini di sostegno al precedente.
8. – È fondato anche il sesto motivo, lì dove implicitamente deduce, senza farne menzione, l’operatività dell’art. 336, primo comma, c.p.c. La sentenza impugnata, in effetti, fa espressamente dipendere dalla ritenuta illegittimità dell’attività artigianale svolta dal D. la condanna ad eliminare tutte le opere a questa funzionali, inclusa la rimozione delle masserizie allocate in parti comuni. Pertanto, tornando ad essere sub iudice la prima questione, resta travolta anche la statuizione che condanna l’odierno ricorrente ad eliminare o a rimuovere quanto realizzato in funzione dell’attività in oggetto.
9. – Per le considerazioni svolte, vanno accolti il quarto ed il sesto motivo di ricorso, respinti i primi tre ed assorbito il quinto, e cassata la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bari, che si atterrà ai
principi di diritto sopra enunciati e provvederà, altresì, in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte accoglie il quarto ed il sesto motivo di ricorso, respinti i primi tre ed assorbito il quinto, e cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bari, che provvederà, altresì, in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.
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