Corte di Cassazione sentenza n. 25472 depositata il 29 agosto 2022
la prova del perfezionamento della notifica a mezzo posta dell’atto di appello è validamente fornita dal notificante mediante la produzione dell’elenco delle raccomandate recante il timbro delle poste – il vizio di omessa pronuncia postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini – qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto – è legittima l’utilizzazione di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale, ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge e salvi i casi in cui venga in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale – motivazione apparente – In tema di IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, contribuente ha il diritto di detrarre l’imposta solo provando, ai sensi dell’art. 2697 c.c., di non aver saputo o di non poter sapere di aver preso parte ad un’operazione fraudolenta
Fatti di causa.
Con l’avviso di accertamento, l’Agenzia delle entrate, rettificato il reddito e il volume d’affari della società contribuente, recuperava con riferimento all’anno d’imposta 2006 i maggiori importi dovuti a titolo di Ires, Irap e Iva.
L’accertamento scaturiva dai controlli effettuati nei confronti della società Simply Plast s.r.l. dal Nucleo di Polizia Tributaria. Dalle verifiche emergeva una “frode carosello”, che, con il coinvolgimento di diverse società, risultava finalizzata a lucrare indebite detrazioni dell’IVA, con ingenti risparmi d’imposta, mediante l’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, praticandosi l’immissione sul mercato di materiale plastico a prezzi assai concorrenziali.
La CTP di Milano rigettava il ricorso della contribuente, annullando l’atto impositivo.
La CTR della Lombardia accoglieva, per converso, l’appello erariale.
Il ricorso della contribuente è affidato a sette motivi.
Resiste l’Agenzia con controricorso.
Ragioni della decisione.
Con il primo motivo del ricorso si denuncia l’illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 22, comma 1, e dell’art. 53, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, per avere omesso la CTR di dichiarare l’inammissibilità dell’atto d’appello in quanto l’Ufficio appellante non aveva depositato presso la segreteria del giudice tributario, nel termine di decadenza di giorni 30 dalla proposizione del ricorso, copia dello stesso con la fotocopia della ricevuta della spedizione della raccomandata a mezzo del servizio postale nonché per violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e 51 del D.Lgs. n. 546 del 1992, per intempestività dell’atto, invero notificato oltre il termine di legge.
Il motivo è infondato.
La CTR ha evidenziato con chiarezza la tempestività e ritualità dell’appello in virtù dell’appurata spedizione dell’atto in plico raccomandato con avviso di ricevimento, come evincibile “inequivocabilmente dalla distinta delle raccomandate, compilata dall’Agenzia delle Entrate, bollata e sottoscritta dall’Ufficio postale”. Di detta distinta il giudice d’appello segnala l’equipollenza alla ricevuta di spedizione, stante la risultanza in essa del numero della raccomandata, della relativa data nonché dell’Ufficio postale dal quale è avvenuta la spedizione.
Giova allora richiamare il condiviso orientamento di questa Corte secondo il quale “Nel processo tributario, la prova del perfezionamento della notifica a mezzo posta dell’atto di appello è validamente fornita dal notificante mediante la produzione dell’elenco delle raccomandate recante il timbro delle poste, poiché la veridicità dell’apposizione della data mediante lo stesso è presidiata dal reato di falso ideologico in atto pubblico, riferendosi all’attestazione di attività compiute da un pubblico agente nell’esercizio delle sue funzioni di ricezione, senza che assuma rilevanza la mancanza di sottoscrizione, che non fa venir meno la qualificazione di atto pubblico del detto timbro, stante la possibilità d’identificarne la provenienza e non essendo la stessa richiesta dalla legge ‘ad substantiam’” (Cass. n. 19547 del 2019; Cass. n. 14163 del 2018).
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta l’illegittimità della sentenza per omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. in ordine alla specifica domanda sollevata dal contribuente in appello relativa alle estensibilità alla fattispecie del giudicato esterno rappresentato dalle sentenze della CTP di Milano nn. 149/1/11 e 151/1/11, depositate il 20 giugno 2012.
Il motivo è inammissibile.
A contrassegnarlo è, infatti, un vistoso deficit di autosufficienza. La questione del giudicato esterno e delle sentenze che ne implicherebbero la sussistenza e l’incidenza risulta genericamente veicolata in ricorso, senza che se ne chiariscano gli esatti termini e la reale portata.
Mette in conto richiamare l’avviso consolidato di questa Corte in ragione del quale “Nel giudizio di legittimità, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d’ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del “fatto processuale”, intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all’onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un’autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi” (Cass. n. 28072 del 2021; Cass. n. 15367 del 2014).
Della questione del giudicato esterno dedotta con il ricorso per cassazione non si fa, del resto, idonea menzione nella sentenza d’appello, nella quale non risultano segnalate le sentenze della CTP che a dire della ricorrente sarebbero passate in giudicato.
Giova, allora, richiamare anche il condiviso indirizzo di questa Corte secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio” (Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 15430 del 2018; Cass. 23675 del 2013).
Con il terzo motivo di ricorso si censura l’illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 11, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, avendo la CTR omesso di dichiarare l’inammissibilità dell’atto d’appello in quanto sottoscritto da soggetto non legittimato.
Il motivo è infondato.
La CTR ha ritenuto l’appello “validamente sottoscritto dal Capo Ufficio controlli per delega del Direttore Provinciale”.
Va, allora, richiamato il condiviso indirizzo di questa Corte a tenore del quale “In tema di contenzioso tributario, gli artt. 10 e 11, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio all’ufficio locale dell’agenzia delle entrate nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale, sicché è validamente apposta la sottoscrizione dell’appello dell’ufficio finanziario da parte del preposto al reparto competente, anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza” (Cass. n. 6691 del 2014)
Sul tema evocato questa Corte ha più volte affermato che la sottoscrizione dell’atto di appello dell’ufficio finanziario è validamente apposta quando proviene dal preposto al reparto competente (v. Cass. n. 21546 del 2011; Cass. n. 13908 del 2008). Questo perché la delega da parte del direttore può essere legittimamente conferita anche in via generale mediante la preposizione del funzionario a un settore dell’ufficio con competenze specifiche. Infatti, “In tema di processo tributario, la sottoscrizione dell’atto di appello, pur non competendo ad un qualsiasi funzionario sprovvisto di specifica delega da parte del titolare dell’Ufficio, deve ritenersi validamente apposta quando proviene dal funzionario preposto al reparto competente, poiché la delega da parte del titolare dell’Ufficio può essere legittimamente conferita in via generale mediante la preposizione del funzionario ad un settore dell’Ufficio con competenze specifiche” (cfr. da ultimo Cass. n. 20599 del 2021).
Con il quarto motivo di ricorso si contesta la nullità della sentenza per avere la CTR utilizzato gli atti emersi nel giudizio penale quali elementi probatori nel giudizio tributario violando il principio del cd “doppio binario” ex art. 20 D.Lgs. n. 74 del 2000.
Il motivo è infondato.
Legittimamente la CTR ha ritenuto di valorizzare gli elementi emersi nel contesto di un giudizio penale e – segnatamente – la documentazione raccolta dalla Guardia di Finanza.
Vale richiamare la giurisprudenza sedimentata di questa Corte, ad avviso della quale “In materia tributaria, gli elementi raccolti a carico del contribuente dai militari della Guardia di Finanza senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale non sono inutilizzabili nel procedimento di accertamento fiscale, stante l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello di accertamento tributario, secondo un principio, oltre che sancito dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. n. 429 del 1982, successivamente confermato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000), desumibile anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell’applicazione della legge penale” (Cass. n. 28060 del 2017; cfr. anche Cass. n. 22984 del 2010)
D’altronde, questa stessa Corte ha puntualizzato che “L’Amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale, può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento di valore indiziario, anche unico, ancorché acquisito illegittimamente secondo l’ordinamento processuale penale, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale, stante la netta differenziazione tra processo penale e tributario, secondo un principio sancito non solo dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. n. 429 del 1982, successivamente confermato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000), ma anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. ed espressamente dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell’applicazione della legge penale” (Cass. n. 31243 del 2019).
In definitiva, alla luce dei principi nomofilattici “in tema di accertamento tributario, è legittima l’utilizzazione di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale, ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge e salvi i casi in cui venga in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale. Ne consegue che sono utilizzabili ai fini della pretesa fiscale, nel contraddittorio con il contribuente, i dati bancari trasmessi dall’autorità finanziaria francese a quella italiana, ai sensi della direttiva 77/799/CEE, senza onere di preventiva verifica da parte dell’autorità destinataria, sebbene acquisiti con modalità illecite ed in violazione del diritto alla riservatezza bancaria” (Cass. n. 31779 del 2019; Cass. n. 31085 del 2019; Cass. n. 11162 del 2021).
In buona sostanza, nel processo tributario il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento, in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria, le prove assunte in un diverso processo e anche in sede penale, quali prove atipiche idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se non congruamente motivato – con le altre risultanze del processo (così efficacemente Cass. n. 19859 del 2012).
Con il quinto motivo si censura la nullità della sentenza per omessa indicazione degli elementi che hanno condotto i giudici d’appello al proprio convincimento, ravvisandosi una “motivazione apparente”, per l’assenza di argomentazioni idonee a rivelare la ratio decidendi della decisione di merito; con la medesima censura si lamenta altresì l’error in procedendo per violazione dell’art. 36 D.Lgs. n. 546 del 1992, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 C.P.C..
Il motivo è inammissibile.
La CTR ha riportato il quadro indiziario sul quale si poggia l’accertamento fiscale, evidenziando su quella scorta la fondatezza della pretesa tributaria. In particolare, risulta evidenziata la fittizia intestazione di fatture, l’inesistenza delle operazioni correlate ad una “frode carosello” finalizzata all’evasione, la sussistenza di enti deputati a svolgere il compito di mera “cartiera”, la rilevanza indiziaria della documentazione raccolta durante i controlli dalla Guardia di Finanza, il ruolo attivo rivestito dalla contribuente e dal suo procuratore generale nell’organizzazione mirata all’evasione.
La ratio decidendi è ben evincibile nella specie. Non viene in apice, pertanto, il vizio lamentato, occorrendo evidenziare come in astratto esso sia denunciabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. soltanto qualora la motivazione “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture” (Cass. n. 6758 del 2022; Cass. 13977 del 2019).
La motivazione resa dai giudici d’appello non scende al di sotto della soglia del c.d. “minimo costituzionale”, giovando richiamare l’orientamento di questa Corte in base al quale “In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali” (Cass. n. 7090 del 2022; Cass. n. 22598 del 2018).
Non risulta neppure violato l’art. 36 D.Lgs. n. 546 del 1992, posto che la sentenza non è affatto priva dell’illustrazione delle censure mosse dall’appellante alla decisione di primo grado – sulle quali la decisione anzi ampiamente si diffonde – e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle. La CTR lascia comprendere con sufficiente chiarezza sia il thema decidendum, sia le ragioni poste a fondamento della decisione.
Con il sesto motivo di ricorso si deduce, avuto riguardo all’art. 360, comma 1, n. 3 C.P.C., l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 109 DPR n. 917 del 1986, dell’art. 14, comma 4-bis, L. n. 537 del 1993 e dell’art. 19 DPR n. 633 del 1972, “nella parte in cui non ha concesso la deducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte dirette e la detraibilità dell’Iva ai fini delle imposte indirette”.
Il motivo è fondato e va accolto nei termini che seguono.
L’Iva appare indetraibile.
In tema di IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, contribuente ha il diritto di detrarre l’imposta solo provando, ai sensi dell’art. 2697 c.c., di non aver saputo o di non poter sapere di aver preso parte ad un’operazione fraudolenta. Nella specie, la CTR ha accertato in fatto, di contro, proprio la consapevolezza in capo al contribuente della frode fiscale. L’accertamento compiuto rientra nel perimetro del sindacato del giudice di merito, il quale ha liberamente formato il proprio convincimento, dandone conto in motivazione attraverso argomentazioni idonee ad illustrare la ratio decidendi. Tanto è sufficiente ad escludere, ai sensi dell’art. 21, u.c., d.P.R. n. 633 del 1972 la detraibilità dell’Iva da parte del contribuente consapevole del meccanismo frodatorio.
La censura, per converso, coglie nel segno con riferimento al profilo della deducibilità dei costi.
Invero, sebbene – come puntualizzato dalla stessa CTR in sentenza – la contribuente evidenziasse in appello la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi correlati alle fatture per le operazioni soggettivamente inesistenti, il giudice del gravame di merito ha ab implicito escluso detta prerogativa, trascurando, tuttavia, di soffermarsi sui profili fattuali e giuridici a sostegno del diniego interposto.
Nel tralasciare di operare una distinzione tra gli effetti della condotta del contribuente in funzione della detraibilità dell’Iva, da un lato, e delle deducibilità dei costi sostenuti (e fatturati), dall’altro, il collegio regionale si è posto in contrasto con il condivisibile indirizzo di questa Corte a tenore del quale “In tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012, conv. dalla l. n. 44 del 2012, l’acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, non utilizzati direttamente per commettere il reato, anche per l’ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del T.U. delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. n. 917 del 1986, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità” (Cass. n. 11020 del 2022; Cass. n. 8480 del 2022; Cass. n. 25249 del 2016; Cass. 24426 del 2013).
Ha soggiunto questa Corte che “In tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta dall’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012 (conv. in l. n. 44 del 2012), poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986” (Cass. n. 27566 del 2018).
Con il settimo motivo di ricorso viene denunciata l’illegittimità della sentenza impugnata per omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in ordine all’eccezione sollevata dal contribuente in appello relativo al l’illegittimo inserimento in dichiarazione di fatture d’acquisto considerate soggettivamente inesistenti all’emissione di fatture fittizie avuto riguardo all’art. 360 n. 4 c.p.c.
Il motivo rimane assorbito.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione al sesto motivo, assorbito il settimo e respinti tutte le altre censure. Ne consegue il rinvio della causa per un nuovo esame alla CTR della Lombardia in diversa composizione. Il giudice di rinvio provvederà anche alla regolazione delle spese del giudizio, ivi incluse quelle correlate alla presente fase di legittimità.
Per questi motivi
Respinti i primi cinque motivi di ricorso, ne accoglie il sesto e ne dichiara assorbito il settimo. Cassa la sentenza impugnata. Rinvia la causa per un nuovo esame alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, anche ai fini della regolazione delle spese del giudizio.