CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 2597 depositata il 27 gennaio 2023
Tributi – Avvisi di accertamento – IRES e IRAP – Stabile organizzazione dell’impresa non residente – Criteri – Rigetto
Fatti di causa
1. Si controverte dell’impugnazione, da parte di P.R. A.G. (“P.”), con sede in Svizzera, degli avvisi di accertamento, ai fini Ires e Irap, per il 2005 e il 2006 – scaturiti da un PVC redatto a conclusione di una verifica fiscale a carattere generale – che contestavano alla società svizzera l’esistenza sul territorio nazionale di una propria stabile organizzazione, deputata alla vendita al dettaglio di prodotti sportivi con marchio P., attraverso il canale retail di P.I. S.r.l. (“P.I.”), la quale, per quelle annualità, aveva omesso di presentare le dichiarazioni Ires e Irap, a fronte di un reddito imponibile pari a euro 8.217.750, per il 2005, e a euro 13.566.430, per il 2006.
2. La Commissione tributaria provinciale di Milano, dopo averli riuniti, accolse i ricorsi della società, con sentenza (n. 287/15/12) che è stata confermata dalla Commissione tributaria regionale (“C.T.R.”) della Lombardia, la quale ha respinto l’appello dell’ufficio non ravvisando gli elementi fattuali tipici della stabile organizzazione di una società non resistente.
3. L’Agenzia delle entrate ricorre, con un motivo, per la cassazione della sentenza di appello; la società resiste con controricorso, illustrato con una memoria.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso [«Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 primo comma ultima parte 116 c.p.c.; 2697 e 2729 c.c.; 162, comma 1, 4 e 7 dpr 22.12.1986 n. 917; 5 commi 1 e 5 convenzione Italia-Svizzera contro le doppie imposizioni ratificata con l. 23 dicembre 1978, n. 943, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 .p.c.»], l’Agenzia delle entrate censura la sentenza impugnata che, in primo luogo, non si è attenuta agli artt. 115, cod. proc. civ. – che impone al giudice di porre a fondamento della propria decisione i fatti non contestati -, 116, cod. proc. civ., – che gli impone di valutare i fatti secondo il proprio prudente apprezzamento e non in maniera arbitraria. Assume al riguardo l’Amministrazione che, nella specie, posto che era incontestato che P.I., verso il corrispettivo di una provvigione garantita del due o tre per cento sul fatturato di vendita, assumeva dipendenti affinché questi operassero come addetti alle vendite nei punti vendita allestiti da P., che tali punti vendita venivano presi in locazione dalla stessa P.I., la quale era tenuta indenne da P. dei relativi costi, e che quest’ultima impartiva le direttive vincolanti sui prodotti da vendere (di cui fissava i prezzi), sull’arredamento dei locali e sul comportamento che il personale doveva tenere con il pubblico, era irragionevole, alla stregua dei richiamati canoni di valutazione delle prove e dei fatti non contestati, dedurre (come invece ha fatto la Commissione regionale) che P.I. svolgesse soltanto attività ausiliarie e preparatorie, dovendosi piuttosto arguire l’esatto contrario, e cioè che P.I. era la stabile organizzazione italiana di P.. In secondo luogo, per l’ufficio, la sentenza impugnata vìola gli artt. 2697, 2729, cod. civ. – sulla rilevanza probatoria degli elementi indiziari – non avendo riconosciuto che le circostanze sopra riferite costituivano un compendio indiziario grave, preciso e concordante, idoneo a fornire la prova che P.I. era la stabile organizzazione italiana di P., sicché spettava alla contribuente – che non aveva assolto al relativo onere – dimostrare il contrario. In terzo luogo, per l’ufficio, la sentenza impugnata collide con l’art. 162, comma 7, t.u.i.r., e con l’art. 5, paragrafo 5, della Convenzione Italia-Svizzera contro le doppie imposizioni, che dispongono a contrario che costituisce stabile organizzazione il commissionario o intermediario privo di status indipendente. Nella specie, prosegue l’Agenzia, la Commissione regionale ha trascurato i fatti rilevanti, dedotti dall’ufficio, che dimostravano che si era in presenza di una situazione di “commissionario dipendente” in quanto P.I. non correva alcun rischio di impresa, perché i suoi costi di gestione (locazioni, retribuzioni del personale) erano contrattualmente assunti da P., ed anche perché, a prescindere dal volume delle vendite, le veniva assicurata una provvigione del due o tre per cento; inoltre, tutta l’organizzazione tecnica delle vendite (scelta e prezzi dei prodotti, scelta dei locali di vendita, arredamento dei locali di vendita, regole di comportamento del personale, manutenzione straordinaria), era curata direttamente ed esclusivamente da P., con modalità totalmente vincolanti per P.I..
1.1. Il motivo non è fondato.
1.2. La cornice normativa di riferimento è stata recentemente delineata da Cass. n. 36690/2022 nei seguenti termini: «La stabile organizzazione, istituto di origine convenzionale, ha ricevuto una disciplina compiuta nell’ordinamento interno a seguito delle modifiche apportate dal d.gs. 12/12/2003, n. 344, all’art. 162, d.P.R. 22/12/1986, n. 917, il quale, nella versione applicabile ratione temporis (ovvero nella versione precedente alla novella introdotta dall’art. 1 della legge del 27/12/2017, n. 205, conseguente alla modifica, nel 2017, del modello Ocse), nel sesto e nel settimo comma, che qui interessano, così dispone: “6. Nonostante le disposizioni dei commi precedenti e salvo quanto previsto dal comma 7, costituisce una stabile organizzazione dell’impresa di cui al comma 1 il soggetto, residente o non residente, che nel territorio dello Stato abitualmente conclude in nome dell’impresa stessa contratti diversi da quelli di acquisto di beni. 7. Non costituisce stabile organizzazione dell’impresa non residente il solo fatto che essa eserciti nel territorio dello Stato la propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario generale, o di ogni altro intermediario che goda di uno status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell’ambito della loro ordinaria attività.”. La già citata convenzione tra Italia e Svizzera […] così recita […] [al paragrafo] 5 dell’art. 5 “Non si considera che un’impresa di uno Stato contraente ha una stabile organizzazione nell’altro Stato contraente per il solo fatto che essa vi esercita la propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario generale o di ogni altro intermediario che goda di uno status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell’ambito della loro ordinaria attività.”. Quanto al rapporto tra le due fonti appena richiamate, deve sottolinearsi che quella convenzionale, a sua volta conforme al modello Ocse di convenzione tra gli Stati in materia di doppia imposizione, preesisteva al d.lgs. n. 344 del 2003, che ha introdotto nel t.u.i.r. l’art. 162 ante riprodotto, […] dando attuazione all’art. 4, comma 1, lettera a), della legge delega 7 aprile 2003, n. 80, che prevedeva l’introduzione della nozione interna di stabile organizzazione, prescrivendone l’elaborazione “sulla base dei criteri desumibili dagli accordi internazionali contro le doppie imposizioni”. È quindi evidente la relazione di circolarità che, nella definizione e nell’interpretazione della nozione di stabile organizzazione, lega la norma interna di cui all’art. 162 d.P.R. n. 917 del 1986, già modellata sui criteri convenzionali, alla specifica singola previsione convenzionale e, pertanto, agli strumenti che sono di ausilio all’interpretazione di quest’ultima (in particolare il modello di convenzione-tipo ed il relativo commentario Ocse). Fermo restando, comunque, che (come rilevato da Cass. 20/11/2019, n. 30140, in motivazione) le convenzioni, una volta recepite nel nostro ordinamento interno con legge di ratifica, acquistano il valore di fonte primaria, ai sensi dell’art.10, comma 1, Cost. (che prevede il sistema di adattamento dell’ordinamento italiano alle norme del diritto internazionale) e dell’art.117 Cost. (che prevede l’obbligo comune dello Stato e delle Regioni di conformarsi ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed agli obblighi internazionali), come peraltro ribadito, nella materia tributaria, anche dall’art. 75 del d.P.R. n. 600 del 1973 (“nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi, sono fatti salvi accordi internazionali resi esecutivi in Italia”) e dall’art. 169 del d.P.R. n. 917 del 1986 (per il quale le disposizioni dello stesso t.u. “si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione”)».
1.3. Per la giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità, «[I]n tema di imposte sui redditi, ai fini dell’individuazione di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato di soggetto non residente […] l’accertamento deve essere condotto sul piano formale, ma anche – e soprattutto – su quello sostanziale» (Cass. n. 14573/2018 che, in motivazione, richiama Cass. nn. 28815/2010, 20597/2011, 1103/2013), con la precisazione che «[P]er l’imponibilità del reddito d’impresa del soggetto non residente, è necessaria: una presenza che sia incardinata nel territorio dell’altro Stato e dotata di una certa stabilità; una sede di affari capace, anche solo in via potenziale, di produrre reddito; un’attività autonoma rispetto a quella svolta dalla casa madre» (Cass. n. 21693/2020; conf., Cass. n. 30033/2018).
1.4. Nel nostro caso la C.T.R. ha negato che P.I. fosse una stabile organizzazione dell’elvetica P., ed ha conseguentemente affermato l’illegittimità delle riprese a tassazione dei redditi di quest’ultima, non dichiarati in Italia, dopo avere scrutinato in maniera approfondita, completa ed esaustiva i dati oggettivi emersi dalla verifica fiscale, in tal modo attenendosi ai princìpi che presidiano il ragionamento inferenziale tipico della prova critica. Ed infatti, rispetto alla molteplicità di indizi, la Commissione regionale ha dato prova di avere effettuato la doverosa ponderazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi risultanti dall’attività accertatrice, ne ha verificata la concordanza e, con accertamento di fatto incensurabile nel giudizio di legittimità, ha riscontrato che la loro combinazione integrava una valida prova indiziaria, focalizzando la propria attenzione, in maniera minuziosa e non atomistica, sui profili rilevanti del variegato panorama istruttorio (su questi aspetti, cfr. Cass. nn. 9108/2012, 5374/2017, 9059/2018).
1.5. In altre parole, per il giudice tributario di appello P.I. non è una stabile organizzazione di P., finalizzata alla vendita al dettaglio dei prodotti con marchio P. sul territorio nazionale, in quanto, (cfr. pagg. da 7 a 9 della sentenza): (a) come risulta delle dichiarazioni dei dipendenti di P.I. le direttive fornite a quest’ultima da P. erano soltanto «linee guida impartite al proprio prestatore di servizi di intermediazione commerciale derivanti dal contratto di Service and Commission Agreement in essere tra P.I. Srl e P.R. AG»; (b) non è indice della stabile organizzazione il sostenimento da parte di P. dei costi di esercizio di P.I. in ragione del fatto che non si trattava del rimborso, ma di un parametro di riferimento ai fini della remunerazione dell’attività del commissionario P.I.; (c) non è rilevante il fatto che quest’ultima fosse esonerata dal rischio di impresa dato che, in base al contratto di commissione, P.I. prestava i propri servizi di intermediazione in favore del mandante e non gestiva la vendita dei prodotti con marchio P., «svolgendo solo la propria attività di prestatore di servizi di intermediazione commerciale, ausiliari e preparatori dell’attività commerciale di P.R. AG»; (d) neppure è condivisibile l’assunto dell’ufficio che fosse antieconomica la dismissione da parte di P.I. del canale retail ceduto alla società svizzera, dato che dai bilanci certificati prodotti dalla contribuente si evinceva che la vendita al dettaglio in Italia si era conclusa in perdita nelle annualità 2004, 2005 e 2006, ed aveva registrato un modesto utile nel 2007; (e) non è esatto il contenuto di una mail scambiata tra due dipendenti di P.I. attestante l’antieconomicità della cessione del canale retail; (f) l’ufficio ha liberamente interpretato il valore dell’ “appunto” rinvenuto dalla Guardia di Finanza nel corso della verifica, dal quale si evincerebbe la natura meramente formale dell’incarico di commissionario svolto da P.I. in quanto, in realtà, da quell’appunto si evince il contrario, «poiché viene confermato che i dipendenti erano “legalmente assunti dal commissionario”; che l’affitto dei locali sarebbe stato a carico del commissionario; che le manutenzioni e riparazioni sarebbero state effettuate dal commissionario»; (g) «[l]a circostanza che eventuali modifiche ed opere straordinarie dovessero essere effettuate a seguito di approvazione scritta della P.R. AG non può essere considerato elemento probante e, quanto al software, è scritto che P., e non P.R. AG, avrebbe potuto accedere al sistema».
2. Ne consegue il rigetto del ricorso.
3. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
4. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Cass. 29/01/2016, n. 1778).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 200,00, per esborsi, euro 20.000,00, a titolo di compenso, oltre al 15 per cento sul compenso, a titolo di rimborso forfetario delle spese generali e agli accessori di legge.
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