Corte di Cassazione sentenza n. 26278 depositata il 6 settembre 2022
operazioni inesistei – IVA – nullità della sentenza allorquando rendano impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo – non è inammissibile l’impugnazione per omessa indicazione delle norme di legge che si assumono violate
FATTI DI CAUSA
La T.S. sas di S.S e C. e i suoi soci S.S, S.G. e S.S hanno impugnato per cassazione la sentenza n. 6061/2019 della CTR del Lazio che aveva riformato la sentenza della CTP di Roma di accoglimento del ricorso della società contro l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate per l’anno di imposta 2008 in relazione ad una c.d. frode carosello.
La CTP aveva accolto il ricorso ritenendo non provati i presupposti dell’accertamento attesa, in particolare, l’omessa produzione del pvc della Guardia di Finanza sulla base del quale era stato emesso l’atto.
Il Giudice d’appello, davanti al quale era stato prodotto il pvc, aveva ritenuto sussistenti i presupposti della frode, in quanto le società fornitrici della ricorrente avevano le caratteristiche tipiche delle società cc.dd. cartiere, mentre la contribuente non aveva fornito prova della propria buona fede, a nulla rilevando il fatto che il suo amministratore, S.S, fosse stato assolto in sede penale in relazione ai reati tributari contestati per quei fatti.
Il ricorso è affidato a quattro motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo i ricorrenti eccepiscono, ex 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la nullità della pronuncia per «palese violazione di legge nella costruzione della stessa sentenza».
Il Procuratore Generale ha eccepito l’inammissibilità di questo motivo per indicazione generica dei principi processuali che sarebbero stati violati ma l’espositiva indica la violazione dell’art. 111 cost., gli artt. 132 e 360 c.p.c. nonché dell’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992 e lamenta la mancanza di una ordinata esposizione delle ragioni e degli argomenti su cui si fonda la decisione della CTR.
Il motivo può, quindi, considerarsi ammissibile; peraltro, esso è infondato.
1.1 Secondo costante giurisprudenza di questa Corte, dalle norme di cui agli artt. 132, comma secondo, n. 4 cod. proc. civ. e 118 att. stesso codice è desumibile il principio secondo il quale la mancata esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa, ovvero la mancanza o l’estrema concisione della motivazione in diritto, determinano la nullità della sentenza allorquando rendano impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cass. n. 1944 n. 2001). Questo principio, in forza del generale rinvio materiale alle norme del codice di rito compatibili (comprese le sue disposizioni di attuazione) contenuto nell’art. 1, comma secondo, del d.lgs. 546/1992, è applicabile anche al rito tributario (Cass. n. 13990 del 2003; Cass. n. 9745 del 2017).
Va osservato, inoltre, che a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non essendo più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata (Cass. n. 23940 del 2018; Cass. sez. un. 8053 del 2014), a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (v., ultimamente, anche Cass. n. 7090 del 2022).
1.2. La sentenza in esame, non solo presenta le indicazioni richieste, contenendo lo svolgimento del processo e i fatti essenziali di causa, ma ha comunque una ratio decidendi chiaramente intellegibile, sicché la sua motivazione si colloca ben sopra la soglia del minimo costituzionale ex art. 111 cost. comma 6.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano, ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 1 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nonché della normativa comunitaria in materia di IVA.
Ancora una volta viene eccepita l’inammissibilità a causa dell’omessa indicazione delle norme violate e del difetto di specificità della doglianza che mira a rimettere in discussione l’accertamento di fatto.
2.1 Secondo giurisprudenza di questa Corte, peraltro, non è inammissibile l’impugnazione per omessa indicazione delle norme di legge che si assumono violate, la cui presenza non costituisce requisito autonomo ed imprescindibile del ricorso, ma è solo funzionale a chiarirne il contenuto e a identificare i limiti della censura formulata, sicché la relativa omissione può comportare l’inammissibilità della singola doglianza solo se gli argomenti addotti dal ricorrente non consentano di individuare le norme e i principi di diritto asseritamente trasgrediti, precludendo la delimitazione delle questioni sollevate (Cass. n. 21819 del 2017).
2.2 Nel caso di specie, nonostante l’eterogeneità degli argomenti addotti, sicuramente inammissibili laddove toccano questioni meritali, si può cogliere l’essenza della doglianza nella asserita violazione delle regole in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, nel senso che, mentre spetta all’Amministrazione dimostrare che il soggetto passivo era o avrebbe dovuto essere a conoscenza dell’esistenza di una evasione di imposta, la sentenza impugnata, ritenuta la natura fittizia delle società fornitrici, non indica alcun elemento di prova della consapevolezza da parte della contribuente di tali circostanze ovvero dell’assenza di buona fede.
Sotto questo aspetto la doglianza è fondata.
2.3 Questa Corte, alla luce della giurisprudenza comunitaria, ha statuito il seguente principio di diritto: In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass. n. 9851 del 2018, Cass. n. 27555 del 2018, Cass. n. 15369 del 2020).
In caso di operazioni soggettivamente inesistenti l’Amministrazione deve provare, oltre l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni (il soggetto formale non è quello reale), che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero «a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente» (Corte di Giustizia 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C-277/14, par. 50).
Questa prova può dirsi raggiunta qualora l’Amministrazione fornisca attendibili indizi, idonei ad integrare una presunzione semplice (v. Cass. n. 14237 del 2017; Cass. n. 20059 del 2014; Cass. n. 10414 del 2011; Corte Giust. Kittel, C-439/04; Corte Giust. Mahagèben e David, C-80/11 e C-142/11); è sufficiente che gli elementi forniti dall’Amministrazione si riferiscano anche solo ad alcune fatture o circostanze rilevanti per la qualificazione della società interposta come cartiera (quali ad es. la mancanza di sede, la mancanza di iscrizione, l’omesso versamento delle imposte, …) ovvero a singole indicazioni significativamente riferibili alla sfera di conoscenza o conoscibilità dell’imprenditore, pur escludendo ogni automatismo probatorio o criterio generale predeterminato.
L’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va dunque ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obbiettivi e specifici, che spetta all’Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione.
Va osservato, in particolare, che (come già sottolineato da Cass. n. 24490 del 2015), se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate, tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa dati il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo (Cass. n. 9851 del 2018).
Raggiunta tale prova, è quindi onere del contribuente dimostrare – oltre all’effettività del suo interlocutore – la propria buona fede, ossia, mutuando i principi affermati da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 21105 del 2017, che non disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, come sopra osservato, a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente.
2.4 Nel caso di specie, la CTR ha posto a carico dell’Amministrazione soltanto l’onere di dimostrare «la natura fittizia delle società fornitrici» e, ritenuta provata tale circostanza, ha concluso che «sarebbe stato onere della T.S. dimostrare la propria buona fede, vale a dire la propria inconsapevolezza circa la partecipazione alla frode», incorrendo così in un errore di diritto in ordine all’elemento soggettivo della consapevolezza della frode da parte del contribuente, della cui prova era gravata l’Amministrazione nei termini sopra riferiti.
3. Con il terzo motivo i ricorrenti assumono, ancora, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. la violazione degli artt. 2313 e 2318 c.c., in quanto i soci accomandanti non possono essere chiamati a rispondere dell’IVA evasa e delle sanzioni applicate, dovute dalla società in accomandita semplice.
Il motivo è fondato.
3.1. Secondo l’orientamento di questa Corte, nella società in accomandita, il socio accomandante è privo di legittimazione – sia attiva che passiva – rispetto alle obbligazioni tributarie riferibili alla società, salvo le deroghe alla regola di cui all’art. 2313 c.c., il quale, nel limitare la responsabilità dell’accomandante per le obbligazioni sociali alla quota conferita, non autorizza i creditori sociali, incluso l’erario, ad agire direttamente nei suoi confronti, limitandosi tale disposizione a disciplinare i rapporti interni alla compagine sociale (Cass. n. 13565 del 2021; conformi Cass. n. 9429 del 2020 e Cass. n. 1671 del 2013, entrambe non massimate).
Né può affermarsi, come mostra di ritenere la difesa erariale, che l’IVA indebitamente detratta costituisca un maggior reddito della società e, quindi, di tutti i soci della società personale, per la decisiva considerazione che l’avviso di accertamento qui impugnato si riferisce esclusivamente alla detta imposta evasa e non ha avuto modo di accertare, quindi, i maggiori redditi tratti dalla società che sono normalmente imputati per trasparenza ai soci ex art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono la nullità della sentenza per vizio di motivazione, ex art. 360, comma primo, p.c., avendo la commissione tributaria regionale erroneamente ritenuto che l’IVA evasa e le sanzioni applicate possano essere imputate ai soci accomandanti della società in accomandita semplice.
Il motivo può ritenersi assorbito nella decisione relativa al terzo.
5. Conclusivamente, la sentenza impugnata deve essere cassata con riferimento al secondo e al terzo motivo con rinvio alla CTR Lazio in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il secondo e il terzo motivo, ritenuto infondato il primo e assorbito il quarto, cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia alla CTR Lazio in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
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