CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 ottobre 2018, n. 26836
Benefici contributivi art. 8, co. 4, L. n. 223/1991 – Riconoscimento – Credito Inps
Fatti di causa
1. Con sentenza depositata il 16.2.2011, la Corte di appello di Ancona, confermando la sentenza del Tribunale di Pesaro, rigettava la domanda di accertamento negativo proposta da M. s.p.a. avverso il verbale di accertamento del 19.10.2004 e il diritto, vantato dall’Inps, di ripetizione della somma di euro 305.877,00 per contributi, importi che la società non aveva versato ritenendo di aver diritto al riconoscimento dei benefici contributivi previsti dall’art. 8, comma 4, della legge n. 223 del 1991 in favore delle imprese che assumono personale licenziato a seguito di procedura di mobilità.
2. La Corte territoriale riferiva, in fatto, che quasi tutti i dipendenti della società M. s.p.a. erano stati licenziati e successivamente riassunti – traendoli dalle liste di mobilità – dalla M. s.p.a. alla quale era stata trasferita la quasi totalità dei beni aziendali (anche nella sua valutazione complessiva, comprensiva del valore di avviamento, della clientela, della disponibilità di rete già strutturata di agenti). La Corte d’appello riteneva che la società non potesse usufruire dei suddetti benefici contributivi, in quanto non vi era stata la cessazione effettiva dell’attività dell’azienda di provenienza e l’assunzione presso diversa azienda, per tale dovendosi intendere un complesso di beni organizzati per la produzione, in quanto il contratto di affitto stipulato fra le società non aveva consentito di creare un nuovo complesso produttivo.
3. Per la cassazione della sentenza M. s.p.a. ha proposto ricorso, affidato a un motivo, illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c., cui ha resistito l’Inps con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 8, commi da 1 a Abis, della legge n. 223 del 1991, 15 della legge n. 264 del 1949 e 2112 cod.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale esteso (in conformità all’orientamento giurisprudenziale consolidato), senza ragione, una normativa anti-frodatoria a soggetti estranei all’impresa che ha provveduto al licenziamento collettivo, confondendo l’impresa con l’azienda. In particolare, essendo intervenuto un licenziamento, l’imprenditore che ha acquistato l’azienda non è destinatario degli obblighi (di protezione) previsti dall’art. 2112 cod.civ. e, quindi, non è tenuto a riassumere i lavoratori posti nella lista di mobilità e può, pertanto, fruire dei benefici contributivi dettato dall’art. 8, comma 4, della legge n. 223 del 1991. D’altra parte, aderendo all’orientamento giurisprudenziale di legittimità, si imporrebbe un’incomprensibile penalizzazione del rilancio tempestivo dell’occupazione, dovendo, l’impresa cessionari attendere il termine di sei mesi per riassumere i lavoratori posti in mobilità e poter fruire dei benefici contributivi.
2. Il ricorso non è fondato.
Questa Corte ha affermato che i benefici previsti dall’art. 8, comma 4, della legge n. 223 del 1991 non spettano quando tra l’impresa che ha collocato i lavoratori in mobilità e quella che li assume siano configurabili gli elementi oggettivi della cessione d’azienda (Cass. n. 8069 del 2011, Cass. n. 26873 del 2011, Cass. 17838 del 2015, Cass. n. 8972 del 2018). Tale esclusione discende dai fatto che la finalità delle agevolazioni è quella di favorire l’occupazione dei lavoratori effettivamente espulsi dal mercato del lavoro; poiché, a norma dell’art. 2112, primo comma, cod. civ., in caso di trasferimento di un’ azienda (o di un suo ramo), il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il trasferimento non costituisce di per sé motivo di licenziamento, questi è tenuto all’assunzione dei lavoratori; la sussistenza di un obbligo di assunzione ostativo alla percezione dei benefici viene dunque riferita al medesimo complesso produttivo che ha collocato i lavoratori in mobilità, senza che ne rilevi la diversa titolarità.
3. Questa Corte ha, altresì, precisato che ai fini di ottenere l’applicazione dei benefici contributivi, qualora sia stata accertata la presenza di significativi elementi di permanenza della preesistente struttura aziendale, quali lavoratori ed oggetto sociale, è onere dell’azienda dare dimostrazione degli elementi di novità intervenuti nella struttura (cfr. al riguardo Cass. n. 12589 del 1999 e Cass. n. 8800 del 2001) e, si aggiunge, delle significative integrazioni apportate al complesso originario per consentire al complesso ceduto di svolgere autonomamente la propria funzione produttiva (v. da ultimo sul tema Cass. n. 9682 del 2016). In particolare, è stato puntualizzato (Cass. n. 14247 del 2012) che l’art. 8, comma 4, della legge n. 223 del 1991, esclude dai benefici contributivi coloro che sono “tenuti ai sensi del comma 1” ad assumere i lavoratori licenziati ossia coloro che sono tenuti ad assumere in forza del diritto di precedenza nell’assunzione previsto dall’art. 15 della legge n. 264 del 1949 (a cui rinvia specificamente il comma 1 dell’art. 8 in esame). La disposizione fa riferimento alla “medesima azienda” che nell’arco di sei mesi dal licenziamento proceda a riassunzioni (il termine è stato ridotto da un anno a sei mesi ai sensi dell’art. 6, ultimo comma, del d.lgs. n. 297 del 2002).
Il tenore lessicale della disposizione normativa consente di ritenere che l’esclusione dei benefici contributivi non ha portata generale ma si riferisce specificamente a determinati soggetti tenuti a riassumere in forza del diritto di precedenza vantato dai lavoratori licenziati. Insomma, il legislatore, nella sua discrezionalità, ha ritenuto di non incentivare questa evenienza, ritenendo incompatibile una sopravvenuta situazione di necessità di ampliamento del livello occupazionale con le ragioni che hanno legittimato l’avvio della procedura di mobilità e che hanno giustificano la contrazione del livello occupazionale con l’estromissione dei lavoratori eccedenti.
4. Ne consegue che l’impresa cessionaria dei beni aziendali dell’impresa cedente che ha proceduto ai licenziamenti può, in linea di massima, fruire dei benefici contributivi previsti dal comma 4 dell’art. 8 in esame, perché non appartiene al novero delle imprese tenute a riassumere ai sensi dell’art. 15 della legge n. 264 del 1949, non essendo la “medesima azienda” che ha proceduto ai licenziamenti.
5. Tale conclusione è coerente con le regole dettate in materia di trasferimento d’azienda, così come interpretate da questa Corte. Invero, il cessionario è obbligato all’assunzione solo dei lavoratori che sono in forza presso l’azienda ceduta prima del trasferimento, mentre non ha nessun obbligo nei confronti di coloro il cui rapporto con il cedente era già cessato anteriormente (Cass. n. 4598 del 2015, n. 2245 del 1995). Medesimo approdo esegetico è stato adottato dalla Corte di giustizia europea (sentenza n. 478 del 2005 in causa C-578/2003).
6. E’ stato, peraltro, condivisibilmente precisato che il beneficio non spetta se si tratta di operazione puramente fittizia, preordinata solo a fruire indebitamente delle agevolazioni contributive. Ove, infatti, la cessionaria non configuri una realtà produttiva nuova ed autentica bensì ricalchi sostanzialmente la stessa azienda che ha provveduto ai licenziamenti, la situazione ricade nella previsione del comma 1 dell’art. 8 (ossia nell’art. 15 della legge n. 264 del 1949) dovendosi ritenere l’impresa cessionaria la “medesima azienda”, tenuta all’assunzione dei lavoratori e, di conseguenza, esclusa – nell’arco dei sei mesi – dai benefici contributivi.
Alla configurabilità di condotte elusive – pur dopo l’avvenuto trasferimento del personale e pur in presenza del consenso delle organizzazioni sindacali – potrà procedersi provando – anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, la cui presenza è devoluta alla valutazione del giudice di merito – il perseguimento di finalità estranee a quelle che hanno indotto il legislatore all’erogazione dei benefici di cui al summenzionato art. 8 (Cass. 20499 del 2008).
7. Nel caso di specie la Corte distrettuale si è attenuta ai principi di diritto innanzi esposti, avendo accertato – a seguito di valutazione, insindacabile in sede di legittimità, degli elementi probatori di fonte documentale e testimoniale – che le due società, M. s.p.a. e M. s.p.a., hanno posto in essere un trasferimento dell’azienda al fine di realizzare una “sostanziale continuità con la risalente gestione aziendale, considerata la prosecuzione dei contratti in corso, l’uso dello stesso reticolo commerciale degli agenti, essendo innegabile che anche il valore dell’avviamento aziendale sia stato considerato e valutato (anche In termini di valore economico) dai contraenti” (pag. 14 della sentenza impugnata). La Corte ha, invero, accertato che “la M. s.p.a., in immediata consequenzialità cronologica dalla cessione dell’attività della MEP s.p.a. ne ha utilizzato quasi tutta la forza lavoro (con il valore aggiunto della professionalità acquisita) negli stessi locali, con gli stessi macchinari e per la stessa attività produttiva in sostanziale continuità (tanto da conservare l’avviamento, come si desume dal mantenimento della stessa clientela)” (pag. 15 della sentenza impugnata), ed ha correttamente concluso per l’esclusione dai benefici contributivi non potendosi ravvisare una realtà produttiva nuova ed autentica.
8. In conclusione, il ricorso va respinto. Le spese di lite sono regolate in base al criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
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