Corte di Cassazione sentenza n. 30800 depositata il 19 ottobre 2022
IVA – esportatori – all’esatta interpretazione della norma resta estranea l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, in quanto inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione e nei limiti in cui essa è consentita dalla «novellazione» del testo del n. 5 del medesimo art. 360 cod. proc. civ.
FATTI DI CAUSA
1. Si premette che, in data 16/4/2008, la società P. s.r.l. aveva stipulato un contratto con la società britannica V.M. LTD, avente ad oggetto la costruzione e la vendita di un’imbarcazione di lusso, pattuendo il frazionamento del pagamento del corrispettivo, rispetto al quale la venditrice aveva emesso sette fatture in acconto negli anni 2008 e 2009, che, trattandosi di cessione intracomunitaria non imponibile ex art. 41 d.l. 1993, n. 331, l’importo versato in acconto aveva concorso a determinare il c.d. plafond per gli anni 2009 e 2010, ossia il limite entro il quale l’esportatore abituale, che aveva dichiarato di volersene avvalere, poteva effettuare acquisti e importazioni di beni in regime di sospensione Iva, ex art. 8, primo comma, lett. c), e secondo comma, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633,. e che, in data 15/10/2010, l’acquirente aveva ceduto il contratto alla V.M.Y.M.LTD, una società dello stesso gruppo avente sede nelle isole della Manica, alla quale aveva dichiarato di voler destinare l’imbarcazione per usi privati, cui era seguita l’emissione di una nota di debito pari all’importo dell’Iva dovuta sulle fatture in acconto e il versamento dell’imposta all’erario, da parte della contribuente, con successiva applicazione dell’Iva sulla fattura emessa a saldo.
L’Ufficio, avendo ritenuto che il superamento del plafond rideterminato ex post avesse reso indebita, fin dall’origine, la mancata applicazione dell’Iva sulle importazioni di beni in regime di sospensione d’imposta e avendo configurato uno ”splafonamento postumo”, aveva emesso una serie di avvisi di accertamento relativi all’Iva originariamente non corrisposta e applicato le relative sanzioni.
Impugnati, con distinti ricorsi, i predetti atti dalla contribuente, la C.T.P. di La Spezia, previa loro riunione, li accolse con sentenza n. 544 del 2/3/2015, che fu confermata dalla C.T.R. per la Liguria, adita dall’Ufficio, con la sentenza n. 154 del 23/11/2018, depositata il 31/1/2019.
Avverso questa sentenza, l’Agenzia delle Dogane ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo, mentre la contribuente si è difesa con controricorso, illustrato anche con memoria. (depositata dal subentrato fallimento P.N. Spa)
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo di ricorso, si lamenta ex art. 360, primo· comma, n. 3, cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione della normativa in materia di agevolazione Iva all’importazione per i c.d. esportatori abituali, di cui al combinato disposto degli artt. 1, comma 1, lett. a), d.l. 29 dicembre 1983, n. 746, convertito dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17, 7 e 8, comma 1, lett. c) e comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per avere la C.T.R. affermato che la capienza del plafond si cristallizza al momento della registrazione delle fatture e non può essere ridotta, a meno di operazioni fraudolente, in una fase successiva per il venir meno di fatture precedentemente utilizzate a tale fine e che era pacifico che le operazioni realizzate nella specie dalla contribuente erano divenute imponibili al termine dell’esecuzione del contratto ai sensi dell’art. 7, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972, senza considerare che, ai fini della validità della costituzione del plafond, non è sufficiente che l’operazione non imponibile sia registrata ai sensi dell’art. 23 d.P.R. n. 633 del 1972, ma è necessario che l’operazione sia effettiva, come sancito dalla sentenza della Corte di cassazione n. 15059 del 2014, sicché, nella specie, l’integrazione dell’Iva conseguente alla sopravvenuta imponibilità dell’operazione aveva comportato la diminuzione, per un importo corrispondente, del plafond costituito negli anni cui la variazione contabile faceva riferimento, dovendosi in ragione di ciò considerare l’operazione mancante fin dall’origine, con conseguente obbligo di regolarizzare gli acquisti e le importazioni effettuati senza pagamento di imposta con utilizzo del plafond stesso. Inoltre, la società era in grado di prevedere quanto successo, avendo assunto il rischio, con la sottoscrizione del contratto del 16/4/2008, che l’operazione potesse concludersi secondo modalità non previste, con conseguente splafonamento relativo alle fatture in acconto, e che le importazioni realizzate divenissero senza copertura Iva, stante la possibilità di una cessione del contratto, sicché avrebbe potuto non beneficiare dell’agevolazione.
2.1 Vanno innanzitutto respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso per difetto di specificità e per violazione del principio della d. doppia conforme, atteso che il vizio di violazione di legge, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (Cass. Sez. 5, 25/09/2019, n. 23851) oppure nella falsa applicazione della norma, ossia nel vizio di sussunzione del fatto, il quale, oltre a consistere «nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, può pure sostanziarsi nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione», ferma restando la necessità che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito, poiché altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici (cit. Cass. Sez. 5, 25/09/2019, n. 23851, che richiama Cass. n. 4125 del 2017).
Peraltro, all’esatta interpretazione della norma resta estranea l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, in quanto inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione e nei limiti in cui essa è consentita dalla «novellazione» del testo del n. 5 del medesimo art. 360 cod. proc. civ. (Cass. Sez. 5, 25/09/2019, n. 23851), essendo segnato il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi dal fatto che solo quest’ultima censura è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 16/02/2017, n. 4125; Cass. 13/10/2017, n. 24155).
Orbene, il vizio lamentato col motivo in esame non può sussumersi sotto quest’ultima fattispecie, investenclo lo stesso non già l’erronea valutazione del compendio probatorio e, dunque, la ricostruzione in fatto della fattispecie concreta, bensì la corretta interpretazione delle norme applicate, sotto il profilo dei requisiti necessari per il riconoscimento del beneficio in questione, sì da porsi al di fuori del principio della c.d. doppia conforme, senza peccare in chiarezza, essendo stati adeguatamente descritti i passaggi dell’operazione e i motivi della sua asserita, sopravvenuta inesistenza.
2.2 Venendo al merito, la censura è fondata.
Va innanzitutto detto che, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge 18 febbraio 1997, n. 28, «I soggetti che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 1, d.l. 29 dicembre 1983, n. 746, conv. con modif. dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17, possono effettuare acquisti e importazioni senza pagamento dell’imposta, in ciascun anno, nel limite dell’ammontare complessivo delle cessioni e delle prestazioni di cui agli articoli 8, primo comma, lettere a) e b), 8- bis e 9 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni,
delle cessioni intracomunitarie e delle prestazioni di servizi nei confronti di soggetti passivi di altro Stato membro, non soggette ad imposta a norma dell’art. 40, comma 9, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, conv., con modif., dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, registrate a norma dell’articolo 23 del citato d.P.R. n. 633 del 1972, per l’anno solare precedente» e che «i contribuenti possono assumere mese per mese come ammontare di riferimento quello a’elle cessioni e delle prestazioni anzidette registrate per i dodici mesi precedenti».
La predetta disposizione opera, dunque, a mente dell’art. 8, lett. a) e b), d.P.R. n. 633 del 1972, per «le cessioni, anche tramite commissionari, di beni diversi dai fabbricati e dalle aree fabbricabili, e le prestazioni di servizi rese a soggetti che, avendo effettuato cessioni all’esportazione o esportazioni intracomunitarie, si avvalgono della facoltà di acquistare, anche tramite commissionari, o importare beni e servizi senza pagamento di imposta», nei limiti stabiliti dall’art. 1, d.I. 29 dicembre 1983, n. 746, conv., con modif., dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17, valevoli per tutte le operazioni non imponibili, ivi comprese quelle assimilate alle cessioni all’esportazione di cui all’art. 8-bis del medesimo d.P.R. n. 633 del 1972 (in tal senso, Cass., Sez. 5, 1/12/2020, n.. 27389), ossia quando l’ammontare dei corrispettivi delle cessioni all’esportazione di cui alle lettere a) e b) dello stesso 8 del d.P.R. n. 633 del 1972, effettuate, registrate nell’anno precedente, sia superiore al dieci per cento del volume d’affari determinato a norma dell’articolo 20 dello stesso decreto, ma senza tenere conto delle cessioni di beni in transito o depositati nei luoghi soggetti a vigilanza doganale e delle operazioni di cui all’art. 21, comma 6-bis, d.P.R. n. 633 del 1972.
Il meccanismo descritto dalle suddette disposizioni, rivolto all’esportatore abituale o agevolato, ossia a colui che, «compiendo frequentemente operazioni non imponibili – ldentificate dal legislatore nelle cessioni all’esportazione e nelle operazioni ad esse assimilate, ex artt. 8 e 8-bis, d.P.R. n. 633 del 1972, nonché nelle cessioni intracomunitarie di beni ai sensi dell’art. 41 del d.l. 30 agosto 1993, n. 331 -, è abilitato a diffalcare il credito Iva maturato in ragione di esse dall’acquisto o dall’importazione di beni o di prestazioni di servizi sulle quali diversamente il fornitore dovrebbe applicare l’Iva effettuando la rivalsa nei suoi confronti» (Cass., Sez. 5, 1/12/2020, n. 27389), consente al predetto di acquistare beni e servizi senza applicazione di Iva nei limiti delle esportazioni od operazioni assimilate registrate nell’anno solare precedente (c.d. plafond fisso) o nei dodici mesi precedenti (c.d. plafond mobile), per un ammontare superiore al 10 per cento del complessivo volume d’affari (Cass., Sez. 5, 1/12/2020, n. 27389), utilizzando direttamente il credito Iva maturato, attraverso la sua compensazione in occasione di ciascuna operazione passiva imponibile, tant’è che al suo fornitore è consentito di porre «in essere la rivalsa prevista dall’art. 18 d.P.R. n. 633 del 1972, non attraverso una controprestazione monetaria, ma ottenendo lo scomputo di un credito del soggetto passivo, ovvero dell’acquirente, dall’Erario» (Cass., Sez. 5, 1/12/2020, n. 27389, cit.).
Come chiarito di recente da questa Corte, la ratio del meccanismo in esame va, infatti, individuata nel fatto che, in caso di operazioni non imponibili (cessioni all’esportazione e operazioni intracomunitarie), l’assenza di limitazioni alla detrazione dell’Iva sugli acquisti (Cass., Sez. 5, 19/6/2015, n. 12763) farebbe sì che i soggetti che effettuano solo, o prevalentemente, operazioni di tal fatta, finirebbero per trovarsi costantemente in credito con l’Erario, giacché l’esiguità del debito Iva concernente le operazioni imponibili non varrebbe a compensare l’Iva maturata a credito sugli acquisti (Cass., Sez. 5, 8/3/2013, n. 5853; Cass., Sez. 5, 15/6/2018, n. 15835), sicché il legislatore consente a tali operatori, al fine di evitare che si trovino in permanente attesa del rimborso dell’eccedenza di imposta, di effettuare acquisti senza applicazione dell’Iva, includendo tra le operazioni non imponibili anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi compiute nei loro confronti (Cass., Sez. 5, 10/10/2019, n. 25485; Cass., Sez. 5, 1/12/2020, n. 27389).
Deve allora dirsi che il plafond, disciplinato dall’art. 8, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 633 del 1972, rappresenti il limite quantitativo monetario utilizzabile nell’anno successivo per procedere ad acquisti in sospensione di imposta (Cass., Sez. 5, 6/3/2015, n. 4556; Cass., Sez. 5, 1/12/2020, n. 27389).
Peraltro, trattandosi di un regime di sospensione di imposta e non di esenzione, il beneficio in questione, in quanto derogatorio alla disciplina ordinaria (Cass., Sez. 5, 5/4/2019, n. 8596), è subordinato, per esigenze di cautela dell’Erario, a rigorosi presupposti (cfr. Cass., Sez. 5, 10/06/2011, n. 12774), i quali si sostanziano nel fatto che 1) possano avvalersene soltanto i soggetti che abbiano effettuato cessioni all’esportazione di cui all’art. 8, primo comma, lett. a) e b), del d.P.R. n. 633 del 1972, registrate nell’anno precedente, per corrispettivi superiori al dieci per cento del complessivo volume di affari, 2) che l’esportatore abituale, prima di effettuare acquisti senza pagamento dell’impostc1, presenti alla controparte una dichiarazione d’intento con la quale manifesta chiaramente l’intenzione di avvalersi di tale facoltà e 3) che gli acquisiti senza applicazione dell’Iva siano contenuti nei limiti dell’ammontare complessivo dei corrispettivi delle cessioni all’esportazione di cui all’art. 8, primo comma, lett. a) e b), del d.P.R. n. 633 del 1972 registrate nell’anno precedente (in tal senso Cass., Sez. 5, 10/10/2019, n. 25485; Cass., Sez. 5, 14/03/2012, n. 4022), essendo tale soglia obbligatoria (Cass., Sez. 5, 15/2/2013, n. 3788; Cass., Sez. 5, 16/3/2016, n. 5168).
Il requisito della registrazione peraltro, pur definito parimenti necessario da questa Corte in ragione del richiamo all’art. 23 contenuto nell’art. 2, comma 2, legge n. 28 del 1997, (Cass., Sez. 5, 2/7/2014, n. 15059), non esclude che, ai fini della valida costituzione del plafond, la cessione o la prestazione di servizi (ossia le cessioni all’esportazione, le operazioni intracomunitarie e le operazioni ad esse assimilate) siano effettivi, atteso che la cartolarizzazione dell’operazione, operando su un piano diverso da quello di cui all’art. 2, comma 2, legge n. 28 del 1997, esaurisce la sua portata nell’onere ordinario che assiste l’emissione delle fatture e che si traduce nella loro annotazione in apposito reqistro, restando insufficiente al cospetto della mancanza di effettività dell’operazione ossia dell’uscita del bene dal territorio doganale 1jella Comunità (Cass., Sez. 5, 2/7/2014, n. 15059).
Alla luce della ratio e della disciplina del meccanismo appena descritto, può allora dirsi che il plafond costituisca una modalità di assolvimento dell’Iva per le operazioni imponibili poste in essere dall’esportatore abituale, in quanto si sostanzia nella compensazione del relativo debito con il credito maturato sulle cessioni all’esportazione e nelle operazioni ad esse assimilate e si realizza consentendo al suo fornitore, che, nel regime ordinario, avrebbe dovuto applicare l’Iva effettuando la rivalsa nei suoi confronti, di porre in essere detta rivalsa ex art. 18 d.P.R. n. 633 del 1972 attraverso lo scomputo del credito dello stesso esportatore e non attraverso la controprestazione monetaria.
Come già affermato da questa Corte, infatti, la non imponibilità di cui all’art. 8, comma 1, lett. c), e comma 2, del d.. P.R. n. 633 del 1972, a differenza di quella sancita dalle precedenti lettere a) e b), che concernono l’insussistenza del debito Iva in ragione della scelta legislativa di considerare non imponibili le operazioni ivi elencate, non riguarda la sussistenza del debito Iva, bensì la sua esecutività, in ragione della possibilità della sua estinzione satisfattiva mediante compensazione con i crediti Iva dell’esportatore abituale, la quale si giustifica proprio per l’esigenza di semplificare il rapporto creditorio dell’esportatore abituale con l’erario (in tal senso Cass., Sez. 5, 24/3/2016, n. 5853, che, in ragione di ciò, ha escluso che il medesimo beneficio possa essere riconosciuto ai fornitori degli esportatori abituali).
Ciò comporta che la non imponibilità delle cessioni di beni (eccetto fabbricati e aree edificabili) e delle prestazioni di servizi fatte a soggetti, che abbiano compiuto abitualmente cessioni all’esportazione od operazioni intracomunitarie e chiedano al fornitore di non applicare l’imposta sull’operazione di acquisto o di importazione, intanto è configurabile, in quanto il relativo debito Iva rientri nei limiti delle esportazioni od operazioni assimilate registrate nell’anno solare precedente o nei dodici mesi precedenti, per un ammontare superiore al 10 per cento del complessivo volume d’affari, rispetto alle quali, in assenza di tale meccanismo, l’esportatore abituale si troverebbe ad accumulare un credito Iva a titolo di rimborso dell’eccedenza dell’imposta.
Appare dunque evidente come la non imponibilità degli acquisti effettuati dall’esportatore abituale discenda direttamente dalle cessioni all’esportazione e dalle operazioni ad esse assimilate dal medesimo compiute, che ne costituiscono al contempo presupposto e limite quantitativo monetario utilizzabile nell’anno successivo, in quanto è da esse che il plafond è alimentato (in tal senso, Cass., Sez. 5, 24/3/2016, n. 5853; Cass., Sez. 5, 10/6/2011, n. 10774), con la conseguenza che la riduzione del plafond per effetto della mutata natura dell’originaria cessione all’esportazione od operazione ad essa assimilata e la sua sopravvenuta imponibilità, incidendo sul limite di compensabilità dell’imposta per effetto dello splafonamento, non può che comportare l’obbligo, in capo all’importatore abituale, di assolvere secondo il regime ordinario l’Iva dovuta per gli acquisti effettuati (sull’obbligo di assolvimento dell’imposta in caso di splafonamento, Cass., Sez. 5, 17/4/2001, n. 5647), non essendovi crediti da compensare, senza che, pertanto, rilevi in alcun modo né il momento in cui si è verificato il superamento della soglia, né la non conoscenza o conoscibilità del sopravvenuto mutamento della natura dell’operazione, né l’elemento soggettivo della buona fede, né l’aspettativa maturata in capo al contribuente, atteso che è la riduzione o il venir meno del credito da compensare ad incidere sull’adozione di tale modalità di estinzione dell’obbligazione tributaria e non l’effetto retroattivo delle vicende che hanno inciso sull’operazione.
Né assume rilevanza l’indicazione normativa di cui all’art. 2, comma 2, legge n. 28 del 1997, allorché, nell’indicare il limite dato dall’ammontare complessivo delle cessioni e delle prestazioni, richiede la registrazione delle stesse a norma dell’art. 23 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, come evidenziato dalla contribuente, atteso che, come sostenuto proprio dalla sentenza di questa Corte n. 15059 del 2014, citata a sostegno della pretesa, la cartolarizzazione non può dirsi sufficiente a sostenere la regolarità della costituzione del plafond, in assenza della effettività dell’operazione non imponibile, siccome 1 i1evante ai fini della sua documentazione, senza intaccare la sostanza del meccanismo di funzionamento dell’Iva.
Deve allora affermarsi il seguente principio di diritto: «In tema di Iva, il meccanismo del plafond di cui all’art. 2, comma 2, l. n. 28 del 1997, costituisce una modalità di assolvimento dell’Iva per le operazioni imponibili poste in essere dall’esportatore abituale (cessioni e prestazioni di servizi ad esso rese), in quanto si sostanzia nella compensazione del relativo debito con il credito maturato sulle cessioni all’esportazione od operazioni assimilate registrate nell’anno solare precedente, per un ammontare superiore al 10 per cento del complessivo volume d’affari, ex art. 8, comma 1, lett. a) e b), 8-bis, d.P.R. n. 633 del 1972, consentendo al suo fornitore di effettuare la rivalsa nei suoi confronti attraverso lo scomputo del credito dell’esportatore e non attraverso la controprestazione monetaria. Ne consegue che, discendendo la non imponibilità degli acquisti effettuati dall’esportatore abituale direttamente dalle cessioni all’esportazione e dalle operazioni ad esse assimilate dal medesimo compiute, che ne costituiscono al contempo presupposto e limite quantitativo monetario utilizzabile nell’anno successivo, il mutamento della natura di queste ultime, quand’anche sopravvenuto negli anni successivi (c.d. splafonamento postumo), incide sull’entità del plafond, impedendo di procedere alla compensazione e comportando il ritorno al regime ordinario di assolvimento dell’imposta».
2.3 Nella specie, deve ritenersi che la C.T.R. non abbia fatto buon governo dei suddetti principi, avendo affermato che il plafond, una volta dimostrata l’effettività dell’operazione che ha concorso a determinarlo, non è suscettibile di riduzione ex post in ragione di fatti sopravvenuti che abbiano reso imponibile, ai fini Iva, l’operazione originariamente non soggetta a imposta e che la contribuente non aveva l’onere di costituire una rise1 va eccedente il plafond, non trovando esso alcun riscontro nel dettato legislativo e determinando una tale opzione l’inutilità dell’utilizzo dello strumento in esame, osservando altresì come la clausola cli cessione del contratto, in esso contenuta, non era idonea a determinare alcuna prognosi positiva in merito al sicuro perfezionamento dell’operazione ivi contemplata.
Ne consegue la fondatezza della censura.
3. In conclusione, dichiarata la fondatezza della censura, la sentenza deve essere cassata, con rinvio alla C.T.R. per la Liguria che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Liguria in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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