Corte di Cassazione sentenza n. 31695 depositata il 26 ottobre 2022 

errore di diritto – errore di fatto – azione revocatoria

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per la revocazione, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., della sentenza di questa Corte n. 12779/2016, depositata in data 21 giugno 2016.

Come si legge in quest’ultima decisione, « 1. La Commissione tributaria regionale di Milano, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal contribuente D.L. contro la sentenza della CTP di quella stessa città, ha ridotto i maggiori redditi di lavoro autonomo recuperati a tassazione dall’Agenzia delle Entrate, mediante accertamenti bancari, e ricostruiti attraverso il metodo analitico-induttivo (ex art. 39, co. 1°, lett. d) d.P.R. n. 600 del 1973), escludendo le riprese relative all’anno 2002 e determinando i redditi relativi all’anno d’imposta 2001 nella minor misura di € 21.034,33.

1.1 Il giudice di appello, per quello che qui ancora rileva ed interessa, dopo aver osservato che spettava al contribuente, per l’inversione dell’onere probatorio, esibire i giustificativi dei movimenti finanziari transitati sui propri conti correnti e posti a base dell’accertamento induttivo, con riferimento all’anno d’imposta 2001, ha escluso solo l’importo relativo al deposito a risparmio acceso presso le Poste Italiane SpA, in quanto anteriore al periodo oggetto dell’accertamento fiscale.

2. Avverso tale pronuncia ricorre il contribuente, con ricorso affidato ad un unico mezzo, illustrato anche con memoria, con la quale invoca gli effetti della sentenza n. 228 del 2014 della Corte costituzionale.

3. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.».

1.1.  Nella motivazione della sentenza qui impugnata questa Corte ha dato innanzitutto atto che « 1.Con l’unico mezzo (Omessa o insufficiente motivazione in relazione al principio di capacità contributiva, in riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c.) il ricorrente si duole della sentenza impugnata perché non avrebbe considerato il fatto specifico della vendita di una unità immobiliare, come da rogito allegato al ricorso, e in ossequio al principio di diritto secondo cui l’Ufficio non poteva adottare, a supporto della ripresa a tassazione, le sole risultanze bancarie dovendole verificare sulla base di ulteriori elementi probatori.».

Aggiunto poi che il ricorrente aveva prodotto «memoria, con la quale invoca gli effetti della sentenza n. 228 del 2014 della Corte costituzionale.», la Corte ha proseguito rilevando la sopravvenienza, rispetto al ricorso per cassazione del contribuente, della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, che « dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), limitatamente alle parole «o compensi».» Tanto premesso, la     Corte ha poi rilevato che «    Il  venir meno dell’equiparazione tra il professionista e l’impresa, sul piano delle indagini bancarie svolte a carico dei contribuenti, è stata poi pienamente recepita da questa Corte che, con la sentenza (Sez. 5) n. 23041 del 2015, ha affermato il principio di diritto secondo cui « la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari, non annotati contabilmente, vanno imputati ai ricavi conseguiti, nella propria attività, dal contribuente che non ne dimostri l’inclusione nella base imponibile oppure l’estraneità alla produzione del reddito, si riferisce ai soli imprenditori e non anche ai lavoratori autonomi o professionisti intellettuali, essendo venuta meno, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, la modifica della citata disposizione, apportata dall’art. 1, comma 402, della legge n. 311 del 2004, sicché non è più sostenibile l’equiparazione, ai fini della presunzione, tra attività d’impresa e professionale per gli anni anteriori.». 2.4. Di conseguenza, le doglianze del professionista-contribuente, poste con l’odierno ricorso (il fatto specifico della vendita di una unità immobiliare, come da rogito allegato al ricorso, e in ossequio al principio di diritto secondo cui l’Ufficio non poteva adottare, a supporto della ripresa a tassazione, le sole risultanze bancarie, dovendole verificare sulla base di ulteriori elementi probatori) sono fondate e devono essere riesaminate nella fase di merito, alla luce della pronuncia della corte costituzionale sopra richiamata e dei conseguenti principi di diritto elaborati da questa Corte.».

La Corte ha quindi così provveduto: « Accoglie il ricorso del contribuente, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia.».

Tanto premesso, l’Ufficio ricorrente chiede, nella fase rescindente, di revocare l’impugnata sentenza e, nella conseguente fase rescissoria, di rigettare il ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, proposto dal contribuente.

2. Il contribuente D.L. è rimasto intimato in questo giudizio di revocazione.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il ricorso l’Ufficio imputa alla sentenza impugnata due asseriti errori percettivi.

1.1 Il primo errore consisterebbe nel non avere la Corte rilevato il giudicato interno, derivante dalla circostanza che nel ricorso per cassazione, e prima della memoria presentata nel corso del relativo giudizio di legittimità, il contribuente non avrebbe contestato anche l’applicabilità della presunzione legale derivante dai prelevamenti bancari ai lavoratori autonomi non

Il motivo è inammissibile.

Infatti « Il giudicato, sia esso interno od esterno, costituendo la “regola del caso concreto” partecipa della qualità dei comandi giuridici, di guisa che, come la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche, così l’erronea presupposizione della sua inesistenza, equivalendo ad ignoranza della “regula juris”, rileva non quale errore di fatto, ma quale errore di diritto, inidoneo, come tale, a integrare gli estremi dell’errore revocatorio contemplato dall’art. 395, n. 4, essendo, in sostanza, assimilabile al vizio del giudizio sussuntivo, consistente nel ricondurre la fattispecie ad una norma diversa da quella che reca, invece, la sua diretta disciplina, e, quindi, ad una falsa applicazione di norma di diritto.» (Cass., Sez. U, 16/11/2004, n. 21639: nella fattispecie la S.C. ha pertanto dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione di sentenza della stessa Corte fondato sul preteso omesso rilievo di giudicato interno).

Nello stesso senso, questa Corte ha già avuto modo di ribadire recentemente, con riferimento al preteso errore relativo all’interpretazione del motivo di ricorso, ai fini della rilevazione o meno del giudicato interno, che « In tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, la configurabilità dell’errore revocatorio di cui all’art. 391 bis c.p.c. presuppone un errore di fatto, che si configura ove la decisione sia fondata sull’affermazione di esistenza od inesistenza di un fatto che la realtà processuale induce ad escludere o ad affermare, non anche quando la decisione della Corte sia conseguenza di una pretesa errata valutazione od interpretazione delle risultanze processuali, essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione. (Nella fattispecie, la S.C. ha escluso la rilevanza dell’erroneo accertamento dell’esistenza di un giudicato interno, non trattandosi di un errore di fatto rilevante ai fini dell’art. 395, comma 4, c.p.c., bensì dell’apprezzamento in diritto delle risultanze processuali).» (Cass. 29/03/2022, n. 10040; conforme Cass. 31/08/2017, n. 20635).

Pertanto, non è ammissibile in questa sede la censura con la quale la ricorrente Agenzia assume l’erronea interpretazione, da parte della Corte, del contenuto del ricorso del contribuente, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che esso attingesse interamente le risultanze delle indagini bancarie ai fini del conseguente accertamento, ed ha considerato pertanto la questione della rilevanza presuntiva ex lege, sia dei versamenti che dei prelevamenti del professionista contribuente, ancora controversa al momento in cui è sopravvenuta la pronuncia di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014. La quale, infatti, configurandosi come ius superveniens, impone, anche nella fase di cassazione, la disapplicazione della norma dichiarata illegittima e l’applicazione della disciplina risultante dalla decisione anzidetta; con l’ulteriore conseguenza che, ove la nuova situazione di diritto obiettivo derivata dalla sentenza d’incostituzionalità (nella specie, n. 228 del 2014, in tema di presunzione legale del maggior reddito desumibile dalle risultanze dei conti bancari ex art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 228 del 2014, riferite, quanto ai prelevamenti, ai soli titolari di reddito di impresa, e, quanto ai versamenti, a tutti i contribuenti) richieda accertamenti di fatto non necessari alla stregua della precedente disciplina, questi debbono essere compiuti in sede di merito, al qual fine, ove il processo si trovi nella fase di cassazione, deve disporsi il rinvio della causa al giudice di appello (Cass. 20/12/2019, n. 34209, proprio in materia di effetti di Corte cost. n. 228 del 2014, in tema di presunzione legale del maggior reddito desumibile dalle risultanze dei conti bancari ex art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973).

1.2 Ulteriormente inammissibile è la censura nella parte in cui, sovrapponendo impropriamente questioni di fatto e di diritto, pare voler configurare come errore revocatorio della sentenza impugnata l’estensione della portata degli effetti della citata sentenza di illegittimità, in punto di inapplicabilità della presunzione legale a danno dei contribuenti professionisti e lavoratori autonomi non imprenditori, anche ai versamenti, oltre che ai Invero (a prescindere da   ogni considerazione  circa    la correttezza o meno di tale lettura, da parte della ricorrente, del principio di diritto esposto nella sentenza che si vorrebbe revocare) tale censura non allega alcun errore percettivo relativo a fatti, investendo piuttosto, in punto di diritto, l’interpretazione, da parte della Corte,     degli effetti della ridetta pronuncia di incostituzionalità, che la sentenza qui impugnata ha conformato espressamente ad un precedente   orientamento    di    legittimità (Cass. 11/11/2015, n. 23041; nello stesso senso Cass. 21/06/2016, n. 12781). Invero, in tema di revocazione delle sentenze della Cassazione, è inammissibile il ricorso al rimedio previsto dall’art. 391-bis cod. proc. civ. nell’ipotesi in cui il dedotto errore riguardi norme giuridiche, atteso che l’ipotetica falsa percezione di queste, anche se in ipotesi indotta da pretesa errata percezione   di interpretazioni fornite da precedenti indirizzi giurisprudenziali, integrerebbe piuttosto eventualmente gli estremi dell’ error iuris (Cass. 21/02/2020, n. 4584).

1.3 Il secondo errore consisterebbe nel non avere la Corte, nella sentenza che si vorrebbe revocare, rilevato che gli accertamenti impugnati dal contribuente non si basavano esclusivamente sull’imputazione a reddito imponibile di prelevamenti, ma anche sull’imputazione di versamenti e sul disconoscimento di costi, questioni che non sarebbero state attinte dal ricorso per cassazione del contribuente.

Il motivo è inammissibile anche in parte qua, essendo sostanzialmente sovrapponibile alla censura di cui al punto che precede, ovvero riproponendo la questione dell’interpretazione del ricorso per cassazione del contribuente, al fine ultimo di individuare un preteso giudicato interno, estraneo al thema decidendum controverso in sede di legittimità, che la sentenza impugnata non avrebbe rilevato, pronunciandosi anche su questioni non oggetto d’impugnazione.

Tanto premesso (e richiamato in particolare quanto già argomentato a proposito dei versamenti), deve peraltro rilevarsi che la censura neppure coglie puntualmente la ratio decidendi della sentenza impugnata, incentrata (come risulta dal punto 2.4. della relativa motivazione), proprio in conseguenza dell’oggetto del motivo di ricorso, sull’insufficienza presuntiva delle sole risultanze bancarie, autonomamente considerate, a determinare i relativi rilievi. Non vi è alcun riferimento ai rilievi relativi ai costi indeducibili, che non sono quindi direttamente oggetto della pronuncia impugnata, ferma restando la necessità di rideterminare nel merito la complessiva pretesa tributaria, all’esito del nuovo esame della componente relativa alle controverse risultanze delle indagini finanziarie, demandata con il rinvio al giudice a quo.

2. Nulla sulle spese del giudizio di legittimità, essendo rimasto intimato il

3. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 .

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.