Corte di Cassazione sentenza n. 32258 depositata il 10 dicembre 2019
licenziamento dirigente della P.A. – violazione di direttive
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato tutte le domande proposte da D.V. nei confronti dell’Azienda Policlinico Umberto I, ha dichiarato illegittimo il recesso dal rapporto dirigenziale a tempo determinato intimato dall’appellata il 17 ottobre 2006 ed ha condannato l’Azienda al pagamento delle retribuzioni che sarebbero maturate sino all’originaria scadenza dell’incarico, quantificate in complessivi € 164.300,00.
2. La Corte territoriale, per quel che ancora rileva in questa sede, ha rilevato che l’Azienda, dopo aver avviato il procedimento disciplinare con contestazione degli addebiti del 3 agosto 2006, aveva richiesto al Comitato dei Garanti di esprimere il parere previsto dall’art. 23 del C.C.N.L. 8/6/2000 per la dirigenza non medica del Servizio Sanitario Nazionale. La richiesta era pervenuta il 12 agosto 2006 al Comitato, che l’aveva evasa adottando l’atto richiesto il 20 novembre 2006. A quella data, peraltro, l’azienda aveva già disposto, con provvedimento del 17 ottobre 2006, la risoluzione del rapporto per giusta causa.
3. Il giudice d’appello, andando di contrario avviso rispetto a quanto ritenuto dal Tribunale, ha evidenziato che il termine di 60 giorni, previsto per l’adozione del parere dall’art.23 del CCNL 2000, come modificato dall’art. 20 del CCNL 3.11.2005, non era ancora decorso alla data di adozione del provvedimento, perché il regolamento adottato dal Comitato prevedeva la sospensione dei termini nel periodo feriale, compreso fra il 1° agosto ed il 15 settembre. La Corte romana ha escluso il contrasto fra l’atto regolamentare e la disciplina dettata dalle parti collettive perché il C.C.N.L. non disciplinava, né poteva farlo, il funzionamento del Comitato dei garanti e pertanto i tempi e la procedura per l’emissione del parere non potevano che essere fissati dal regolamento interno, che prevedeva la sospensione nel periodo feriale.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Azienda Policlinico Umberto I di Roma sulla base di un unico motivo, al quale D.V. ha opposto difese con tempestivo controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
5. Con atto depositato in data 23 settembre 2019 si è costituito per l’Azienda ricorrente l’Avv. Antonio Nardella, in forza di procura speciale del 18 settembre 2019.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso denuncia, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ,. la violazione e falsa applicazione dell’art. 23, comma 5, del CCNL 8.6.2000 per la dirigenza non medica del Servizio Sanitario Nazionale e degli artt. 21 e 22 d.lgs. n. 165/2001. Richiamata la disciplina contrattuale dettata dagli artt. 35 CCNL 5.12.1996, 23 CCNL 8.6.2000 e 20 CCNL 3.11.2005 l’Azienda Policlinico rileva che il parere del Comitato dei Garanti deve essere reso «improrogabilmente ed obbligatoriamente» entro il termine di 60 giorni dal ricevimento della richiesta, termine che non può essere modificato dal regolamento interno dell’organo, che può riguardare solo il funzionamento dello stesso, senza incidere sulla disciplina già fissata dal legislatore e dalle parti collettive. Nel caso di specie, pertanto, poiché la richiesta era stata inviata l’11 agosto 2006 e ricevuta il giorno successivo, del tutto legittimamente il recesso era stato deliberato il 17 ottobre 2006, posto che a quella data il termine concesso al Comitato era già spirato. La ricorrente aggiunge che il d.lgs. n. 165/2001 prevede l’intervento dell’organo consultivo solo in relazione alla responsabilità dirigenziale, che va tenuta distinta da quella disciplinare, in relazione alla quale la legge non assegna ai garanti alcun ruolo. Le disposizioni contrattuali vanno armonizzate con la disciplina dettata dal legislatore delegato e pertanto si deve ritenere che le stesse, nella parte in cui subordinano il recesso dell’amministrazione al parere conforme del Comitato, si riferiscano alla responsabilità dirigenziale. Infine l’Azienda domanda la disapplicazione ex art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 del parere emesso il 20 novembre 2006 dal Comitato perché tardivo, illogico ed immotivato.
2. E’ infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente, il quale ha fatto leva sulla mancata trascrizione delle clausole contrattuali collettive rilevanti ai fini della decisione della controversia.
L’art. 63, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, ha attribuito alla Corte di Cassazione una funzione nomofilattica nell’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale nel settore del pubblico impiego contrattualizzato, tendenzialmente modellata ad immagine del sindacato sulle norme di legge, giustificata dalla necessità di assicurare l’esegesi uniforme di disposizioni che, pur avendo natura negoziale, per effetto delle disposizioni contenute nel richiamato decreto, sono destinate a realizzare la regolamentazione omogenea dei rapporti di lavoro con la P.A. e costituiscono un vincolo per il datore di lavoro pubblico.
La funzione che l’interpretazione diretta realizza e la particolare natura dei contratti collettivi nel settore pubblico sono state valorizzate dalle Sezioni Unite di questa Corte per affermare, da un lato, l’inapplicabilità dell’art. 369 cod. proc. civ., n. 4, e dall’altro l’autonomia interpretativa del giudice di legittimità, che non può essere vincolato dalle interpretazioni delle parti né dall’opzione ermeneutica adottata dal giudice di merito, ma ha, al contrario, il potere- dovere di ricercare, anche in altre disposizioni contrattuali, elementi utili per verificare la correttezza dell’interpretazione accolta nella sentenza impugnata (Cass. S.U. nn. 20075/2010, 23329/2009, 21568/2009; Cass. nn. 5284/2018, 20065/2016).
In ragione della particolare natura della contrattazione collettiva del settore pubblico e dei poteri/doveri attribuiti al giudice di merito e di legittimità è dunque da escludere che l’onere di “specifica indicazione” di cui all’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. possa riguardare anche le clausole della contrattazione nazionale disciplinata dagli artt. 40 e ss. del d.lgs. n. 165/2001, in tutto assimilabili, sul piano processuale, alle norme di diritto.
3. Entrambe le censure sviluppate nell’unico motivo di ricorso sono fondate. Questa Corte da tempo ha affermato che l’intervento del Comitato dei Garanti, previsto dall’art. 22 del d.lgs. n. 165/2001, applicabile anche alle amministrazioni non statali in forza della norma di adeguamento di cui all’art. 27 dello stesso decreto, riguarda le ipotesi di responsabilità dirigenziale disciplinate dall’art. 21 e pertanto condiziona la validità del recesso nei soli casi in cui si contesti al dirigente il mancato raggiungimento degli obiettivi o l’inosservanza delle direttive ( Cass. nn. 8329 e 14628 del 2010, Cass. n. 27128/2013, Cass.nn. 1478 e 24801 del 2015, Cass. n. 12108/2016).
Si è precisato anche che il principio, in quanto contenuto nelle «norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche», non è mai stato derogabile da parte dei contratti collettivi, perché l’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001, in tutte le versioni succedutesi nel tempo, ha sempre posto quale limite al potere dell’autonomia contrattuale il rispetto della disciplina speciale dettata dal decreto, «essendo quest’ultimo per definizione estraneo al tipo di atto normativo rispetto al quale era ammessa la deroga da parte dell’autonomia collettiva» ( Cass. n. 8329/2010 cit.). Se ne è tratta la conseguenza che le disposizioni dettate dal CCNL 8 giugno 2000 per la dirigenza medica e veterinaria del servizio sanitario nazionale, sostanzialmente sovrapponibili a quelle del CCNL 8 giugno 2000 per la dirigenza sanitaria professionale, tecnica ed amministrativa che qui vengono in rilievo, dovessero essere interpretate alla luce del dettato normativo e, quindi, restringendo l’applicazione dell’art. 23, che prevede l’intervento del Comitato, alle sole ipotesi di responsabilità dirigenziale o a quelle di «indissolubile intreccio fra tale tipo di responsabilità e quella, tipicamente disciplinare, per mancanze».
4. Quanto al criterio discretivo fra le due diverse forme di responsabilità si è evidenziato (Cass. nn. 1753, 14773, 24905 del 2017, Cass. n. 11161/2018) che, mentre la responsabilità disciplinare presuppone il colpevole inadempimento di obblighi che gravano sul prestatore, rilevante in sé a prescindere dall’incidenza sui risultati dell’attività amministrativa e della gestione, la responsabilità dirigenziale è sempre strettamente correlata al raggiungimento degli obiettivi e persegue la finalità di consentire la rimozione tempestiva del dirigente rivelatosi inidoneo alla funzione, in modo da garantire l’attuazione del principio di efficienza e di buon andamento degli uffici pubblici. Anche nel caso di “inosservanza delle direttive imputabili al dirigente”, ossia di comportamento che potrebbe essere astrattamente ricondotto all’una o all’altra forma di responsabilità, il discrimine va ravvisato nel collegamento con la verifica complessiva dei risultati, sicché l’addebito assumerà valenza solo disciplinare nella ipotesi in cui l’amministrazione ritenga che la violazione in sé dell’ordine e della direttiva, in quanto inadempimento contrattuale, debba essere sanzionata; dovrà, invece, essere ricondotta alla responsabilità dirigenziale qualora la violazione medesima abbia inciso negativamente sulle prestazioni richieste al dirigente ed alla struttura dallo stesso diretta.
4.1. Al riguardo si è ulteriormente precisato che ( Cass. n. 11161/2018 e Cass. n. 24905/2017) “l’indissolubile intreccio” che fa prevalere, quanto alle forme procedimentali, quelle disciplinate dall’art. 21 del d.lgs n. 165 del 2001, non si potrà ritenere sussistente per il solo fatto che sia stata contestata la violazione di direttive, perché ciò equivarrebbe all’espungere in via definitiva dall’ambito della responsabilità disciplinare del dirigente l’inadempimento consistito nell’omessa ottemperanza agli ordini impartiti dal datore di lavoro.
La commistione fra le due forme di responsabilità sarà, quindi, ipotizzabile solo qualora la contestazione presenti aspetti che la rendano contemporaneamente sussumibile nell’una e nell’altra forma di responsabilità, il che si verifica nell’ipotesi in cui il procedimento venga avviato con riferimento ad una pluralità di addebiti, di cui alcuni riconducibili alla responsabilità disciplinare altri a quella dirigenziale ( ed è questo il caso esaminato da Cass. 3929 /2007).
4.2. Le decisioni sopra richiamate hanno anche chiarito che la responsabilità dirigenziale per “violazione di direttive”, proprio perché presuppone uno stretto collegamento con il raggiungimento dei risultati programmati, deve riferirsi a quelle direttive che siano strumentali al perseguimento dell’obiettivo assegnato al dirigente perché solo in tal caso la loro violazione può incidere negativamente sul risultato, in via anticipata rispetto alla verifica finale.
Ed infine hanno precisato che non si può confondere il rispetto delle direttive con il corretto adempimento degli altri obblighi che discendono dal rapporto di lavoro con il dirigente (diligenza, perizia, lealtà, correttezza e buona fede tanto nel proprio diretto agire quanto nell’esercizio dei poteri di direzione e vigilanza sul personale sottoposto): la loro violazione, in sé e per sé considerata, mentre può essere ritenuta idonea a ledere il vincolo fiduciario che deve legare il dirigente all’amministrazione, non rileva ai fini della responsabilità dirigenziale, nella quale ciò che conta è il mancato raggiungimento del risultato.
5. Dai richiamati principi si è discostata la Corte territoriale perché, muovendo dall’erroneo presupposto che nel rapporto dirigenziale il potere di recesso del datore di lavoro pubblico sia in ogni caso condizionato dall’emissione del parere obbligatorio del Comitato dei garanti, non ha accertato la natura della responsabilità contestata al D.V., che andava, invece, valutata, sulla base dei criteri sopra indicati, giacché in caso di addebiti non riconducibili alla responsabilità dirigenziale, nessuna incidenza sulla validità della sanzione irrogata avrebbe potuto avere la mancata formulazione del parere.
6. Il ricorso è fondato anche nella parte in cui addebita alla sentenza impugnata di avere erroneamente affermato che il Comitato dei Garanti, nell’adottare il regolamento interno finalizzato a disciplinare le modalità di funzionamento dell’organo, potesse incidere anche sui termini del procedimento, stabilendone la sospensione nei mesi estivi.
L’art. 23 del CCNL 8.6.2000, nel testo risultante all’esito delle modifiche apportate dall’art.20 del CCNL 3.11.2005, applicabile alla fattispecie ratione temporis, prevede al comma 5 che «il recesso è adottato previo conforme parere del Comitato che deve essere espresso improrogabilmente e obbligatoriamente entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta». Il comma 3 dell’art. 20 ha, poi, previsto, in aggiunta all’originaria disciplina contrattuale, che «il Comitato dei Garanti si dota di un proprio regolamento di funzionamento».
Il tenore letterale della disposizione non consente di affermare che le parti collettive abbiano attribuito al Comitato anche il potere di incidere sui termini, nel rispetto dei quali il procedimento di competenza deve essere concluso, posto che, da un lato, il «funzionamento» non può che riferirsi alle modalità attraverso le quali il Comitato dei Garanti, previa la necessaria istruttoria, perviene alla formulazione del parere; dall’altro la perentorietà del termine stabilito dal contratto collettivo e da questo definito improrogabile e obbligatorio, esclude in radice la possibilità, non solo di prevedere in sede regolamentare un termine diverso, ma anche di incidere indirettamente sul termine stesso, prevedendo un altro dies a quo o, come avvenuto nella fattispecie, ipotesi di sospensione.
Non è possibile estendere a termini diversi da quelli processuali la sospensione prevista dalla legge n. 742/1969, che trova la sua ratio nella necessità di assicurare la difesa tecnica in giudizio, garantendo agli avvocati un adeguato periodo di riposo annuale, e che pertanto non si applica né ai termini del procedimento amministrativo né, in via generale, ai termini sostanziali (cfr. fra le tante Cass. n. 4170/2010).
7. Il ricorso merita, pertanto, accoglimento e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo, che procederà ad un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Non sussistono le condizioni richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, per il raddoppio del contributo unificato dovuto dalla ricorrente.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
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