Corte di Cassazione sentenza n. 32480 depositata il 4 novembre 2022
revocazione della sentenza di cassazione
FATTI DI CAUSA
1. L’Agenzia delle entrate ricorre contro la società R. S.p.A., che resiste con controricorso, per la revocazione dell’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n. 12621/2016, pronunciata in data 25 maggio 2016 e depositata in data 17 giugno 2016, che ha rigettato il ricorso dell’ufficio, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione della cartella di pagamento emessa ex art.36 bis d.P.R. n.600/1973 per maggiore Irap dovuta in relazione all’anno 2009.
2. Secondo la ricorrente, con la sentenza impugnata, la Corte erroneamente aveva rigettato il ricorso, in quanto, travisando i dati documentali a sua era giunta alla conclusione che la C.t.r. avesse ritenuto illegittima l’applicazione dell’accertamento automatizzato al caso di specie.
Chiede, quindi, la revoca della sentenza e l’accoglimento nel merito del ricorso per cassazione proposto dall’ufficio.
3. Il ricorso è stato fissato per l’udienza pubblica del 12 ottobre 2022.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo, la ricorrente denunzia il vizio ex art.395, n.4, cod. proc. civ., con riferimento all’errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa, in cui sarebbe incorsa la Corte, che, secondo l’ufficio, ha rigettato il ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate dichiarandolo inammissibile sull’erroneo presupposto che la ricorrente avesse impugnato solo uno dei due capi sfavorevoli della sentenza di secondo grado.
Tale decisione sarebbe l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti del giudizio.
La Corte di Cassazione, infatti, avrebbe escluso l’esistenza di un fatto la cui verità era incontestabilmente dimostrata dagli atti di causa. Infatti, secondo la ricorrente, la revocanda ordinanza era fondata sull’erronea supposizione che la C.t.r. (sentenza n. 6258/24/2014 impugnata con ricorso per cassazione) avesse ritenuto illegittimo l’impiego della procedura automatizzata ex art. 36 bis d.P.R. n.600/73 da parte dell’Agenzia, mentre dagli atti e documenti di causa risultava incontestabilmente che la Commissione tributaria regionale aveva ritenuto applicabile al caso di specie l’accertamento automatico di cui all’art. 36 bis d.P.R. n.600/73, ma aveva rigettato l’appello a causa dell’erronea applicazione della aliquota maggiorata nei confronti della società. La Corte di Cassazione aveva, dunque, travisato i dati documentali a sua disposizione e, di conseguenza, era giunta all’erronea conclusione che la C.t.r. avesse ritenuto illegittima l’applicazione dell’accertamento automatizzato al caso di specie. Per effetto di tale errore, la Corte di Cassazione aveva dichiarato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate inammissibile, ritenendo erroneamente che l’Ufficio non avesse contestato un capo sfavorevole della sentenza di secondo grado.
Secondo la ricorrente, vi sarebbero tutte le condizioni di cui all’art. 395, comma 1 n. 4, cod. proc. civ. per disporre la revocazione della sentenza, in quanto l’errore, oggettivo e decisivo, consisterebbe in una errata percezione del fatto.
1.2 Il motivo è inammissibile.
< <In tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, l’errore revocatorio è configurabile nelle ipotesi in cui la Corte sia giudice del fatto e, in particolare, quando abbia valutato sull’ammissibilità e procedibilità del ricorso, e si individua nell’errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati. Ne consegue che non risulta viziata da errore revocatorio la sentenza della Corte di Cassazione nella quale il collegio abbia dichiarato l’inammissibilità del ricorso per motivi attinenti al merito delle questioni ed a valutazioni di diritto, e segnatamente alla asserita erronea applicazione di norme processuali, vertendosi, in tali casi, su errori di giudizio della Corte, con conseguente inammissibilità del ricorso per revocazione>> (Cass., S.U. n.26022/2008).
Come questa Corte ha avuto modo di precisare, <<in tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, l’errore revocatorio è configurabile nelle ipotesi in cui la Corte sia giudice del fatto e, in particolare, quando abbia valutato sull’ammissibilità e procedibilità del ricorso, e si individua nell’errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati>> (Cass. n.3365/2009).
Nel caso di specie, la Corte ha esaminato il ricorso dell’ufficio ed ha ritenuto che la C.t.r. avesse valutato illegittimo il ricorso alla procedura automatizzata di cui all’art.36 bis d.P.R. n. 600/1973 da parte dell’ufficio, in quanto quest’ultimo aveva impropriamente utilizzato il codice di attività indicato dalla contribuente in dichiarazione, inerente alle attività di intermediazione finanziaria ma non automaticamente riferibile ad attività di “banca”.
Secondo la Corte < < la Commissione ha dunque ritenuto che il dato relativo all’attività svolta dalla società, quale emergente dalla dichiarazione dei redditi, non consentiva l’automatico riferimento a “soggetti bancari/finanziari”, cui applicare l’aliquota IRAP maggiorata, tipico di un controllo automatizzato o cartolare, quale quello consentito dall’art. 36 bis citato. Tale disciplina, infatti, in quanto volta ad evitare l’attività di rettifica, quando l’imposta dovuta sia determinata sulla base dei dati forniti dallo stesso contribuente o di una mera correzione di errori materiali o di calcolo degli stessi dati, giustifica la diretta iscrizione a ruolo della maggiore imposta dovuta, sulla base di un controllo meramente cartolare della dichiarazione, ma non attribuisce all’Ufficio il potere di risolvere questioni giuridiche o di esaminare atti diversi dalla dichiarazione stessa (Cass. 14070/2011; Cass. 5318/2012, nella quale si è precisato che con tale modalità non possono risolversi questioni giuridiche, chiarendo, in particolare, che la negazione della detrazione nell’anno in verifica di un credito dell’anno precedente, per il quale la dichiarazione era stata omessa, non può essere ricondotta al mero controllo cartolare, in quanto implica, appunto, verifiche e valutazioni giuridiche, con la conseguenza che il disconoscimento del credito e l’iscrizione della conseguente maggiore imposta deve avvenire previa emissione di motivato avviso di rettifica; Cass. 25521/2014)>>.
Pertanto la Corte concludeva nel senso che tale parte della decisione di appello non aveva formato oggetto di contestazione da parte della. ricorrente, con conseguente inammissibilità dell’unico motivo proposto.
Appare evidente dunque, che l’errore lamentato dall’ufficio, ove sussistente, non consiste in una mera svista percettiva, bensì riguarda l’attività di interpretazione della sentenza impugnata e del contenuto del ricorso, attività valutativa che non può essere oggetto del ricorso per revocazione.
Nella fattispecie in esame, è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva immediatamente percepibile), bensì un’errata considerazione e interpretazione dell’oggetto del ricorso rispetto alla sentenza e, quindi, un errore di giudizio non revocatorio (vedi Cass. Sez. U -., Ordinanza n. 31032 del 27/11/2019, Rv. 656234).
Pertanto il ricorso va dichiarato inammissibile, non avendo la ricorrente evidenziato una falsa percezione della realtà o in una svista materiale che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso, oppure l’inesistenza di un fatto positivamente accertato dagli atti o documenti di causa idoneo a costituire motivo di revocazione (cfr. da ultimo Cass. n. 2236/2022).
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente a pagare alla parte contribuente le spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 6300,00, a titolo di compenso, oltre il 15% per spese generali, euro 200,00 per esborsi ed accessori di legge.
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