Corte di Cassazione sentenza n. 32656 depositata il 7 novembre 2022
ove l’errore riguardi un fatto «non controverso», è esperibile il rimedio della revocazione ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.
RILEVATO CHE
1. La società G.G. srl ricorre, sulla base di cinque motivi, avverso la sentenza n. 41/40/12, depositata il 29.02.2012, con la quale la CTR del Lazio accoglieva il gravame proposto dall’ente finanziario avverso la decisione della CTP di Latina innanzi alla quale la contribuente aveva impugnato l’avviso di accertamento e di liquidazione emesso in data 19.10.2006, in relazione all’atto notarile dell’8.10.2004, con il quale si dava atto che, a seguito di precedente avviso di accertamento del 29.03.2002 che aveva riqualificato due atti di cessione di locali e di attrezzature come cessione di azienda, si procedeva a formalizzare la cessione di azienda. La società impugnava il secondo avviso, assumendo di aver aderito al condono di cui alla I. 289/2002, art. 15, sia per la definizione dell’IVA che per le imposte sui redditi. In seguito ad altro avviso relativo all’imposta di registro, la società aderiva al condono ex l. 289/2002 per le violazioni in materia di imposta di registro ed effettuava il relativo versamento per complessivi euro 1.559,69.
In particolare, sosteneva che l’atto notarile aveva la finalità di regolarizzare formalmente la compravendita di azienda già accertata dall’Ufficio ed avvenuta con atti di cessione registrati in data 28.11.20021 e 31.01.2002.
La Commissione regionale, pur affermando che l’atto notarile aveva formalizzato la compravendita dell’azienda avvenuta in precedenza in maniera parcellizzata e che essa era fuori campo IVA, statuiva che anche detto atto notarile dell’8.10.2014 doveva essere soggetta all’imposta di registro;- affermava inoltre che il condono aveva riguardato solo la cessione di beni mobili ( arredi e attrezzature), con la conseguente permanente validità dell’avviso di rettifica e liquidazione relativa alla formale cessione di azienda avvenuta in data 8 ottobre 2004. Escludeva poi il deficit motivazionale dell’atto impositivo, ritenendo che sebbene sinteticamente motivato, conteneva tutti gli elementi essenziali per la difesa.
L’Agenzia delle Entrate deposita nota per la partecipazione all’udienza. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso per cassazione.
CONSIDERATO CHE
2. La prima censura rubricata “omessa motivazione circa il fatto controverso e decisivo per il giudizio relativo alla intervenuta definizione agevolata( condono) dell’imposta di registro per l’unica operazione di cessione di azienda del 01.2002″, illustra nella motivazione l’omesso esame della documentazione prodotta nel giudizio di merito, dalla quale si evincerebbe che il condono concerneva l’intera fattispecie tributaria della cessione d’azienda, assumendo che l’atto notarile dell’ottobre del 2004 integrava, in realtà, una mera regolarizzazione formale della compravendita già accertata dall’Agenzia; tanto che la società, dopo aver condonato l’intera fattispecie e corrisposto l’imposta di registro, otteneva il rimborso dell’Iva versata. La sentenza sul punto risulterebbe, ad avviso della ricorrente, del tutto carente non avendo in alcun modo considerato la vicenda complessiva che aveva riguardato la società né esplicitato la motivazione in virtù della quale il condono avrebbe riguardato solo l’atto di cessione di attrezzi e beni aziendali.
3. Con la seconda censura, si lamenta la nullità della sentenza per omessa pronuncia sull’eccezione di decadenza dall’azione dell’amministrazione ai sensi dell’art. 76 1 bis, d.P.R. n. 131/86, che aveva costituito motivo di opposizione in primo grado e censura di appello in secondo grado.
4. Con il terzo motivo, si lamenta la violazione degli 115 e 167 c.p.c., dell’art. 23, co. 3. D.lgs. n. 546/92, nonché degli artt. 2698 e.e. per avere il giudicante ritenuto fondato l’atto impositivo nonostante la mancanza di prova da parte dell’ufficio degli elementi atti a giustificare il quantum accertato e nonostante la mancata contestazione da parte dell’ufficio. finanziario delle specifiche e puntuali deduzioni esposte dalla contribuente in ordine alla erroneità degli elementi di fatto utilizzati dall’ufficio per sostenere la propria pretesa.
Deduce, al riguardo, di aver contestato sin dall’atto introduttivo l’inintelleggibilità dei calcoli svolti dall’Agenzia non ancorati ad alcun elemento di diritto o fattuale, essendosi l’amministrazione finanziaria limitata a richiamare genericamente i dati contabili delle società che in precedenza avevano gestito l’azienda, senza tuttavia indicare il fatturato, gli utili e i risultati delle gestioni precedenti.
Sul punto, la CTR avrebbe apoditticamente affermato che la motivazione risultava adeguata “contemplando tutti gli elementi necessari per la difesa”.
5. Con il quarto mezzo, si prospetta il vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c.; per avere il giudicante ritenuto la congruità della motivazione dell’atto impositivo opposto senza confrontarsi con le deduzioni della ricorrente ed il riconoscimento da parte dell’amministrazione delle ragioni poste a sostegno dell’impugnazione.
6. Con l’ultima censura, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c, nonché degli artt.51 e 52 P.R. 131/86, in relazione all’art. 2, co. 4, d.p.r. 31.07.196, ex art. 360, n. 4), c.p.c. per avere il decidente omesso di pronunciarsi su un punto fondamentale della controversia dibattuta sin dal primo grado, e precisamente sui criteri di determinazione dell’avviamento delle aziende, atteso che l’art. 2 citato in rubrica prevede un ordine di carattere gerarchico nell’applicazione dei metodi ivi indicati, nel senso che il secondo criterio (la percentuale di recidività applicata alla media dei ricavi accertati) è legislativamente subordinato all’assenza di studi di settore.
7. La prima censura è inammissibile.
In realtà, il ricorrente denuncia l’erronea percezione della documentazione concernente il condono da parte della Regionale, sotto il profilo del vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c..
Tale errore è, invece, sindacabile in sede di legittimità a termini dell’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., essendo fatto divieto di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti (Cass., Sez. Lav., 24 ottobre 2018, n. 27033), ma in contrasto con quanto risulti dagli atti del processo, in quanto frutto di una falsa percezione della realtà o di una svista materiale che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso, oppure l’inesistenza di un fatto positivamente accertato dagli atti o documenti di causa.
Può essere dedotta la violazione dell’art. 115 c.p.c. qualora il giudice, in contraddizione con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove inesistenti e, cioè, sia quando la motivazione si basi su mezzi di prova mai acquisiti al giudizio, sia quando da una fonte di prova sia stata tratta un’informazione che è impossibile ricondurre a tale mezzo; a condizione che il ricorrente assolva al duplice onere di prospettare l’assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi probatori acquisiti i contenuti informativi individuati dal giudice e di specificare come la sottrazione al giudizio di detti contenuti avrebbe condotto a una decisione diversa, non già in termini di mera probabilità, bensì di assoluta certezza Cass., Sez. III, 21gennaio 2020, n. 1163; Cass., Sez. I, 14 febbraio 2020, n. 3796; Cass., Sez. III, 21gennaio 2020, n. 1163; Cass., Sez. I, 25 maggio 2015, n. 10749; S.U.n. 20867/2020; Cass. 24395 del 2020);
ipotesi diversa dall’errore nella valutazione dei mezzi di prova – non censurabile in sede di legittimità – che attiene alla selezione da parte del giudice di merito di una specifica informazione tra quelle astrattamente ricavabili dal mezzo assunto,
Diversamente, ove l’errore riguardi un fatto «non controverso», è esperibile il rimedio della revocazione ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. (Cass., Sez. Lav., 3 novembre 2020, n. 24395; Cass. Sez. III, 12 aprile 2017, n. 9356). Come è stato efficacemente osservato, «l’errore di percezione è quello che cade sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, ovvero sul demonstratum e non sul demonstrandum […] altro è ricostruire il valore probatorio di un fatto od atto (attività di valutazione), altro è individuarne il contenuto oggettivo (attività di percezione)» (Cass., n. 9356/2017, cit.; conf. Cass., Sez. VI, 26 novembre 2020, n. 27039; n. 7670/21).
In definitiva, il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito – come nel caso di specie – ha accertato che quel documento è stato prodotto in giudizio e lo ha valutato ed interpretato, non essendo configurabile un difetto di attività del giudice circa l’efficacia determinante, ai fini della decisione della causa.
8. Il secondo motivo è fondato, assorbiti gli altri.
Il termine di decadenza quinquennale, di cui al primo comma del richiamato articolo, si riferisce ai casi di inadempimento dell’obbligo di registrazione.
E’ il termine di decadenza più lungo tra quelli previsti a carico dell’amministrazione nel corpo dell’art. 76 Tur, all’evidenza perché, nel caso in cui sì sottrae un atto alla registrazione, l’amministrazione deve godere di un arco temporale maggiore per recuperare l’imposta evasa. Nel caso, invece, in cui sia stata chiesta la registrazione, ma l’imposta non sia stata pagata, il termine di decadenza dell’amministrazione dal potere di richiedere il pagamento dell’imposta è fissato in tre anni (comma 2 dell’art. 76 Tur).
E’ previsto, poi, un termine di decadenza minore, di due anni, riferito al potere
dell’amministrazione di accertare che la base imponibile, sulla quale sia stata pagata l’imposta proporzionale, è, in realtà, maggiore (comma 1 bis dell’art. 76 Tur): questo termine è posto a vantaggio del contribuente, ed ha lo scopo di ridurre, rispetto all’ordinario termine di tre anni, l’arco temporale nel quale il contribuente è esposto al potere di verifica dell’amministrazione. L’interpretazione secondo la quale dall’avviso di liquidazione con cui l’amministrazione riqualifica gli atti posti in essere dal contribuente decorrerebbe un ulteriore biennio nel quale essa avrebbe il potere di accertare un valore maggiore (e dunque una maggiore imposta proporzionale) del diritto oggetto dell’atto soggetto a registrazione non solo è sfornito di una base positiva, in quanto sposta in avanti il termine di due anni che la legge ancora al “pagamento dell’imposta proporzionale”, ma addirittura travisa la ratio del comma 1 bis dell’art. 76 Tur, trasformandolo da norma a tutela del contribuente in norma di favore per il fisco( Cass. n.19865/21, in motiv).
Ne deriva, allora, che il caso in cui il contribuente assolve l’imposta in misura fissa su atti che, secondo la riqualificazione operata dall’amministrazione, concretizzerebbero un atto (nella fattispecie, una cessione di azienda) soggetto ad imposta proporzionale, rientra nell’ambito applicativo del comma 2 dell’art. 76 Tur, dovendo tale caso essere equiparato a quello in cui, pur avendo richiesto la registrazione, il contribuente non abbia pagato l’imposta proporzionale; sicché l’amministrazione, nei tre anni a partire dalla registrazione dell’ultimo atto della serie negoziale posta in essere dal contribuente, avrebbe dovuto, a pena di decadenza, non solo riqualificare l’atto, ma anche rettificare la base imponibile dichiarata dal contribuente al fine di richiedere a lui la imposta proporzionale considerata dovuta.
Ed invero, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 76, comma 2, la pretesa dell’Agenzia deve essere fatta valere con apposito atto di imposizione tributaria entro il termine di decadenza di tre anni, da ritenere decorrente – in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 2964 e.e., – dalla data della registrazione, giacchè a decorrere da detta data l’ufficio del registro ha la facoltà di contestare al contribuente la diversa determinazione dell’avviamento (Sez. 5, Sentenza n. 26407 del 05/12/2005; conf. Sez. 5, Sentenza n. 2400 del 31/01/2017 e Sez. 5, Sentenza n. 3360 del 08/02/2017).
Nel caso in esame, l’ufficio aveva la possibilità di contestare al contribuente il valore dell’avviamento già con il primo avviso di accertamento con cui l’Agenzia riqualificava l’operazione commerciale come cessione di azienda – risalente al 4 giugno 2003, rispetto ad atti del 28.11.2001 e 31.01.2002 – atto impositivo con cui comunicava l’omessa registrazione di atto di cessione di azienda per un imponibile di euro 51.645,69 come specificato nel P.V.C.. Sicché il dies a quo da cui far decorrere il termine per l’esercizio del potere impositivo dell’amministrazione è di tre anni non dalla data della registrazione dell’ultimo contratto consistente in una mera formalizzazione delle operazioni commerciali già riqualificate dall’Agenzia, bensì dall’ultimo atto della serie negoziale posta in essere dal contribuente ( 31.01.2002) e riqualificato, con avviso notificato il 4/06/2003, dall’ufficio unitamente a quello in precedenza registrato(28.11.2001) come atto unitario di cessione di azienda da assoggettarsi ad imposta di registro (cfr., specificamente, Cass. n. 19865 del 2021; n. 1802/2019).
Pertanto, l’amministrazione, nel termine stabilito dalla legge ( tre anni decorrenti dall’ultimo atto registrato il 31.01.2002) per l’omessa registrazione degli atti riqualificati, avrebbe dovuto, a pena di decadenza, non solo riqualificare l’atto, ma anche determinare – come, del resto aveva già fatto con il primo avviso – la base imponibile al fine di richiedere la imposta proporzionale considerata dovuta; ed in effetti risulta che il relativo potere veniva esercitato dall’amministrazione finanziaria con l’avviso del 4.06.2003 con cui stabiliva anche l’imponibile.
Pertanto, nel caso di specie, l’Agenzia aveva esercitato il relativo potere di riqualificazione e di determinazione dell’imponibile già in data 4.06.2003 e dunque il successivo avviso del 19.10.2006 risulta non solo emesso oltre il triennio dagli effettivi atti di cessione registrati, ma anche esercizio di un potere già consumato, dal quale alla data del 19.10.2006.Alla stregua di quanto esposto, il secondo motivo del ricorso va accolto, dichiarato inammissibile il primo e assorbiti gli altri; pertanto la sentenza impugnata va cassata e, decidendo nel merito, deve essere accolto l’originario ricorso della contribuente. Sussistono i presupposti tenuto conto delle alterne vicende processuali per compensare le spese del giudizio di merito.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, respinto il primo ed assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso della contribuente; compensa le spese del giudizio di merito;
condanna l’Agenzia alla refusione delle spese di lite sostenute dalla ricorrente che liquida in euro 6.000,00 per compensi, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario ed accessori come per legge.
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