Corte di Cassazione sentenza n. 3394 depositata il 12 febbraio 2020

Ricorso per Cassazione – Tecnica copia incolla – Ricorso sandwich – Ammissibilità.

FATTI DI CAUSA

1. La Banca contribuente, con separate istanze, chiese il rimborso della maggiore IRAP, versata cautelativamente per le annualità 2003 e 2004, rispetto a quella dovuta in applicazione dell’aliquota del 4,25% ex art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 446/1997, in luogo di quella del 5,25%, introdotta con le leggi reg. Veneto n. 34/2002 e n. 38/2003.

Perfezionatosi il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria, la contribuente presentò due distinti ricorsi alla Commissione Tributaria Provinciale di Rovigo che, nel contraddittorio dell’ufficio, ne dispose la riunione e li accolse, con sentenza n. 75/2010.

2. L’Agenzia ha interposto appello ed ha chiesto, in via principale, la riforma della sentenza di primo grado, per effetto dell’applicazione dell’aliquota IRAP del 5,25%, e, in subordine, l’applicazione dell’aliquota del 4,75% prevista, per le banche e le società finanziarie, dall’art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 446/1997.

3. La Commissione Tributaria Regionale del Veneto, con la sentenza in epigrafe, ha integralmente rigettato l’appello dell’Agenzia, confermando la pronuncia di primo grado che, dal canto suo, aveva fissato nella misura del 4,25% l’aliquota IRAP dovuta dall’istituto di credito per gli anni 2003, 2004.

Il giudice d’appello ha rilevato che: (a) l’art. 3, comma 1, lett. a), della L. 27 dicembre 2002, n. 289, aveva disposto la sospensione di ogni norma emanata dalle Regioni, in materia di aliquote IRAP, in data successiva al 29 settembre 2002, quindi anche l’aumento dell’aliquota sancito con le leggi reg. Veneto nn. 34/2002, 38/2003, per le annualità in contestazione; (b) la sospensione degli aumenti delle maggiorazioni delle aliquote IRAP di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), cit., era stata confermata dall’art. 2, comma 21, della legge n. 350/2003, la cui legittimità costituzionale era stata riconosciuta dalla Corte cast. (sentenza n. 381/2004).

Perciò ha negato l’applicabilità dell’aliquota del 4,75% (della quale l’Agenzia aveva chiesto l’applicazione in via subordinata), rilevando che, per un verso, l’art. 3, comma 1, lett. a), cit., aveva disposto la sospensione degli aumenti di un punto (dal 4,25% al 5,25%), delle aliquote IRAP, per gli anni 2003 e 2004, “che non siano confermativi delle aliquote in vigore per l’anno 2002”, e che, per altro verso, le leggi reg. Veneto nn. 34/2002, 38/2003 non erano confermative della precedente aliquota del 4,75%, ma prevedevano la maggiorazione di un punto percentuale, sospesa dalla citata legge n. 289/2002.

4. L’Agenzia ha proposto ricorso per la cassazione, sulla base di un unico motivo, cui la Banca ha resistito con controricorso.

5. La causa è stata trattenuta in decisione al termine della pubblica udienza del 10/07/2019 e, successivamente alla camera di consiglio di questa Corte, svoltasi lo stesso giorno, la difesa della banca, in data 19/07/2019, ha depositato un’istanza di rimessione della causa sul ruolo al fine di consentire al Collegio di valutare, nel contraddittorio delle parti, la tempestività del ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate.

6. La causa è stata quindi rimessa sul ruolo, con fissazione di pubblica udienza, al fine di valutare, nel contraddittorio delle parti, l’istanza della contribuente.

RAGIONI DELLA DECISIONE

a. Preliminarmente, la Corte ritiene non fondata l’eccezione della Banca d’inammissibilità del ricorso, per violazione dell’art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., secondo cui il ricorso deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti di causa. Disposizione – quest’ultima – che, nella prospettiva della contribuente, sarebbe stata disattesa in quanto l’ufficio, nella stesura del ricorso per cassazione, avrebbe adottato l’inammissibile tecnica del c.d. ”Ricorso farcito” attraverso la produzione degli atti di causa, senza compiere la doverosa sintesi dei fatti rilevanti per la formulazione delle ragioni dell’impugnazione.

È ius receptum, al quale il Collegio aderisce, che: «[… ] la tecnica di redazione dei cosiddetti ricorsi “assemblati” o “farciti” o “sandwich” implica una pluralità di documenti integralmente riprodotti all’interno del ricorso, senza alcuno sforzo di selezione o rielaborazione sintetica dei loro contenuti.

Tale eccesso di documentazione integrata nel ricorso non soddisfa la richiesta alle parti di una concisa rielaborazione delle vicende processuali contenuta nel codice di rito per il giudizio di cassazione, viola il principio di sinteticità che deve informare l’intero processo (anche in ragione del principio costituzionale della ragionevole durata di questo), impedisce di cogliere le problematiche della vicenda e comporta non già la completezza dell’informazione, ma il sostanziale “mascheramento” dei dati effettivamente rilevanti per le argomentazioni svolte, tanto da risolversi, paradossalmente, in un difetto di autosufficienza del ricorso stesso. La Corte di cassazione, infatti, non ha l’onere di provvedere all’indagine e alla selezione di quanto è necessario per la discussione del ricorso. […] (sull’inammissibilità dei cosiddetti ricorsi “farciti” o “sandwich” è sufficiente qui rinviare alle considerazioni espresse da questa Corte nelle pronunce n. 784 del 2014; n. 22792 e n. 10244 del 2013; n. 17447 del 2012; n. 5698 del 2012, sezioni unite; n. 1380 del 2011; e n. 15180 del 2010). Nella specie, tuttavia, può ritenersi che, nonostante la sua materiale integrazione nel ricorso, tale imponente coacervo di documenti riprodotti integralmente – in quanto facilmente individuabile e isolabile – possa agevolmente espungersi dal ricorso stesso, riconducibile perciò a dimensioni e contenuti rispettosi del canone di sinteticità configurato nel modello legislativo del giudizio per cassazione.» (Cass. 18/09/2015, n. 18363; in senso conforme: Cass. 3/02/2004, n. 1957).

Nel caso in esame, ritiene la Corte che, malgrado nel ricorso siano riprodotti, con la tecnica del «copia e incolla», gli atti del giudizio di merito, ciò che ne appesantisce la lettura, tuttavia, superate queste interpolazioni, si intravede un certo, sufficiente sforzo di sintesi e di selezione dei fatti salienti della vicenda processuale.

1. La banca, come suaccennato, nella memoria del 18/07/2019, ha eccepito la tardività della notifica del ricorso per cassazione dell’Agenzia.

1.1. L’eccezione è fondata.

Secondo il chiaro insegnamento delle sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. 15/07/2016, n. 14594): «In caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa.».

Nella fattispecie concreta i requisiti di immediatezza e tempestività, indicati dalle sezioni unite, mancano sicuramente in quanto: (a) la sentenza della CTR è stata depositata il 20/11/2013; (b) conseguentemente il c.d. termine lungo, ex art. 327, primo comma, cod. proc. civ., pari ad un anno e quarantasei giorni, per proporre il ricorso per cassazione scadeva il 5/01/2015; (c) la notifica a mezzo posta, iniziata il 2/01/2015, non è andata a buon fine: in particolare, nell’avviso di ricevimento, l’addetto al recapito attesta, in data 8/01/2015, che il destinatario della notifica [Banca Adria] è ; (d) l’Avvocatura dello Stato non ha indicato la data in cui ha appreso dell’esito negativo del primo tentativo di notifica; (e) il processo notificatorio (attuato tramite ufficiale giudiziario, che si è avvalso del servizio postale), è stato ripreso, tardivamente, soltanto il 2/04/2015 e la notifica è andata a buon fine 1’8/04/2015.

2. Il ricorso di conseguenza è inammissibile per tardività della notifica, il che esime il Collegio dall’esame dell’unico motivo e comporta, altresì, la condanna dell’Agenzia al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

3. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Cass. 29/01/2016, n. 1778).

PQM

la Corte dichiara inammissibile il ricorso, condanna l’Agenzia delle Entrate a corrispondere alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.700,00, a titolo di compenso, oltre a euro 200,00, per esborsi, al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15% del compenso, e agli accessori di legge.